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Aveva detto addio alla sua Roma, che era un po’ per preannunciane il suo ritiro o quanto meno iniziare a metabolizzare. Ora è arrivato: Daniele De Rossi, a 36 anni compiuti, lascia il Boca Juniors dove era arrivato a luglio, e soprattutto il calcio giocato e dice addio a un pezzo della sua vita. Per lui la decisione, annunciata il 6 gennaio 2020 e presa fondamentalmente per motivi familiari, soprattutto pensando alla figlia Gaia di 14 anni, non è stata certo facile:

Ci pensavo da ottobre-novembre – ha detto oggi – e la notte tante volte non ci dormivo. Lasciare il calcio giocato per me è stato molto difficile, ma ora voglio rimanere in questo mondo e allenare. Non voglio entrare nei dettagli ma la mia figlia più grande, di un altro matrimonio, è rimasta in Italia e una ragazza ha bisogno che suo padre le sia vicino. In teoria, potrebbe essere in pericolo e io devo avvicinarmi. Qui siamo lontani, fare 14 ore di volo non è come andare in auto da Trigoria a casa mia. Se avessi avuto 25 anni avrei deciso in modo diverso, ma questo è

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Centrocampista, difensore centrale all’occorrenza, per il bene della sua Roma. Ben 616 partite con i giallorossi, 63 gol e 54 assist prima di volare dall’altro lato del mondo, il tempo di giocare 6 partite e segnare una rete. Bandiera di un ventennio del calcio italiano, degli anni Duemila, che forse con la maglia della Nazionale verrà sciaguratamente ricordato per la gomitata contro gli Stati Uniti nel Mondiale del 2006  e la squalifica che lo fa rientrare giusto il tempo della finale per segnare un rigore perfetto contro la Francia. E di quella squadra allenata da Lippi sopravvive solo Buffon come ultimo campione del Mondo ancora in pista, eppure DDR è stato il primo marcatore, nel Girone di qualificazione, di quella cavalcata trionfale.

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Anzi, c’è di meglio: Daniele De Rossi, che aveva da poco compiuto 21 anni, il 4 settembre del 2004 contro la Norvegia segnò non solo il primo gol della nuova Italia di Marcello Lippi (dopo la prima amichevole fallimentare persa 2-0 contro l’Islanda), ma anche al suo debutto assoluto con la maglia azzurra dei grandi. Impiegò quattro minuti, su cross di Favalli, per metterci la zampata e segnare il gol del momentaneo 1-1 (Carew aveva segnato dopo 40 secondi e l’Italia vincerà 2-1 con rete decisiva di Toni).

In totale, Daniele De Rossi ha vestito la maglia azzurra per 117 volte, segnando 21 reti. Ha superato Pirlo e Zoff (116 e 112) ed è quarto nella classifica all-time dietro Buffon, Cannavaro e Maldini.

Se pensi a Michael Jordan, istintivamente, di seguito, ti verranno in mente il logo dei Chicago Bulls, lo spettacolo dell’Nba, i sei anelli vinti con due Three-peat (91-92-93 e 96-97-98), il film Space Jam con i Looney Tunes e il numero 23. Talmente cucito addosso che è diventato icona da venerare e rispettare negli anni da appassionati e sportivi. Massimo Ambrosini, ex-centrocampista del Milan, per esempio, ha scelto il 23 come numero di maglia proprio in onore di MJ. I Miami Heat, squadra in cui Jordan non giocò mai, la ritirarono nel 2003.
La storia del prestigioso numero, fatto di adii, ritiri e ritorni lega sua maestà Jordan in un rapporto simbiotico ed eterno, ma in realtà, “l’incontro” fu abbastanza fortuito e forzato.

Durante il periodo all’High school, Jordan dovette decidere il numero da indossare: lui voleva il 45, ma all’epoca era lo stesso numero che vestiva suo fratello Larry. Air Jordan decise quindi di dimezzare il numero 45 arrotondandolo, poi, per eccesso: ecco come nasce il 23.
In realtà il rapporto con il 45 avrà più di un seguito: è con questo numero che, nel 1994, dopo il momentaneo ritiro dal basket, affrontò la sua modestissima avventura nel baseball, in Minor League, con i Birmingham Barons; ed è con lo stesso 45 che, nel 1995, annunciò il suo ritorno in Nba.

È il 18 marzo 1995 quando, alle 11:40, venne diramato un breve comunicato: «Michael Jordan ha informato i Bulls di aver interrotto il suo volontario ritiro di 17 mesi. Esordirà domenica a Indianapolis contro gli Indiana Pacers».
Il giorno dopo, durante una conferenza stampa, che Michael Jordan disse una semplice frase destinata a rimanere nella storia: «I’m back» (Sono tornato).
Essendo, però, la mitica 23 ormai ritirata e appesa al soffitto del nuovo United Center in segno di devozione e rispetto, Michael scelse di usare il 45.

Fu accolto da tutti come un eroe, ma qualcosa in lui non funzionava: giocò 17 partite, le peggiori in regular, per media punti e tiro dal campo, dal 1986 al 1998.
Episodio chiave il 7 maggio 1995, gara-1 della semifinale della Eastern Conference tra Orlando e Chicago, partita 17esima per Jordan. I Magic vinsero con un canestro, a sei secondi dalla fine, firmato Horace Grant su clamoroso recupero su Michael Jordan.

MJ non ci pensò su due volte: niente da fare, si cambia numero. Tre giorni dopo, in gara-2, la stella dei Chicago si ripresentò in campo col 23, all’insaputa di tutti, compagni inclusi. L’Nba non gradì e multò i Bulls di 25mila dollari per non aver comunicato il cambio di numero. Ma a Chicago questo non importava: Jordan fu di nuovo Jordan, con uno show da 38 punti che regalò ai Bulls l’1-1 nella serie.

Qualche giorno dopo, Jordan disse:

Penso sia stato un problema di fiducia. Il 23 è quello che sono e me lo terrò fino a quando non smetterò di giocare a basket. Quindi perché cercare di essere qualcun altro?

Ho promesso al bambino che sognava di diventare calciatore, che avrei giocato fino a quando avessi provato meraviglia entrando in campo. Ma il cuore mi ha detto che stavo venendo meno alla promessa. Mi fermo, ma sento di dover dire grazie sogno, mi hai dato forza e felicità!

Con queste parole il centrocampista Claudio Marchisio ha annunciato il suo ritiro dal calcio a 33 anni. Ben 23 di questi li ha passati alla Juventus, suo sogno e grande amore: un fiero scudiero della Signora, dalle giovanili alla prima squadra, passando anche per la Serie B, che però l’ha fatto entrare nei cuori dei tifosi e l’ha consacrato nel calcio italiano ed europeo. Una decisione difficile ma presa con consapevolezza e annunciata in una conferenza stampa all’Allianz Stadium, nella sala “Gianni e Umberto Agnelli”. Dopo l’ultimo infortunio al ginocchio, professionale ed etico fino alla fine, ha rescisso anticipatamente il contratto con lo Zenit, squadra di San Pietroburgo, “dolce esilio” quando non rientrava più nei piani della Juventus. Non ha accettato altre proposte in Serie A, ma non è quello il suo rimpianto:
Il rimpianto? Quello di non vincere la Champions con la Juve e l’Europeo con la Nazionale. Sono i miei due rimpianti più grandi. Il momento più bello è quello in cui mi sono reso conto che il sogno si stava realizzando ed è stato l’anno della Serie B. Vedevo le facce dei campioni che avevano scelto di restare in B. Per me non era indossare la maglia della Juve in Serie B, era indossare la maglia della Juve e basta” Il gol più bello? “Sono due: quello contro l’Inter e il primo segnato nel nuovo stadio, è stato l’inizio di un ciclio vicente irripetibile. La partita che vorrei rigiocare? Quella contro il Barcellona in finale di Champions a Berlino, anche solo una parte del secondo tempo
389 partite con la maglia della Juventus, una sola espulsione e sette scudetti – tra i tanti altri trofei alzati al cielo. Con la casacca azzurra della Nazionale, l’esordio nell’agosto del 2009 contro la Svizzera, poi 55 sfide, molte delusioni e l’Europeo del 2012 giocato da protagonista e leader. L’ultima partita nel 2017 in un 3-0 contro l’Uruguay in cui Claudio gioca appena 19 minuto ed esce per infortunio. Diversi i messaggi sui sociali, ma da un ex-Barça arriva un’autentica poesia, breve ma profonda: per Andrés Iniesta, da oggi il “calcio è un po’ meno calcio”. 

Francesca Piccinini si ritira. Una delle giocatrici simbolo della pallavolo italiana, campionessa del mondo nel 2002 e con una lunga carriera alle spalle, ha deciso di dire addio all’attività agonistica. E’ stata la stessa schiacciatrice toscana ad annunciarlo ai microfoni del programma Verissimo:

Sono qui per annunciare che non giocherò più a pallavolo, mi ritiro. Ho vissuto un sogno per tanti anni, ma penso che sia arrivato il momento di dire stop a questa vita stupenda e iniziarne una nuova. Ho voglia di vivere altre emozioni

Oro mondiale nel 2002 ed europeo nel 2009, la Piccinini ha vestito in carriera le maglie, fra le altre, di Reggio Emilia, Modena, Bergamo, Chieri, Casalmaggiore e Novara, oltre a un’esperienza nel campionato brasiliano col Paraná Vôlei Clube. Una lunga carriera impreziosita da cinque scudetti, quattro Coppe Italia, sette Champions, una Coppa Cev, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea. Piccinini ha 40 anni, è nata a Massa nel 1979 e gioca in serie A dalla stagione del 1993-94, dove esordì con la Pallavolo Carrarese

È stata dura prendere questa decisione, ma ho 40 anni ed esco da vincente perché due mesi fa ho vinto la mia settima Coppa dei Campioni,Mi mancheranno le sensazioni prima delle partite e l’adrenalina dopo le vittorie ma le cercherò in qualcos’altro. Sono ancora un po’ frastornata ma credo sia la decisione più giusta. Ringrazio questo bellissimo sport che mi ha formato e mi ha aiutato tantissimo a diventare la donna che sono oggi

Per il futuro le intenzioni della Piccinini sembrano proiettate verso i più piccoli e ai microfoni del talk show dichiara: «In futuro vedremo, non credo di voler allenare ad alti livelli perché significherebbe stare nuovamente in palestra tutti i giorni, però mi piacerebbe far crescere le bambine». La campionessa non nasconde poi i suoi desideri personali, come quello di diventare mamma: «Vorrei ma è dura trovare la persona con cui fare una famiglia».

In una conferenza stampa affollata e dal grande impatto mediatico in Austria, Marcel Hirscher ha annunciato la sua volontà di porre fine alla sua incredibile carriera agonistica, come già aveva anticipato a marzo. Il trentenne fuoriclasse del «Wunder team», considerato uno dei più grandi sciatori di tutti i tempi, annovera nel suo palmares, tra gli altri, due titoli olimpici (combinata e slalom gigante a Pyeongchang 2018), cinque titoli iridati individuali (slalom speciale a Schladming 2013, combinata a Vail/Beaver Creek 2015, slalom gigante e slalom speciale a Sankt Moritz 2017, slalom speciale a Are 2019) e due a squadre (gara a squadre a Schladming 2013 e a Vail/Beaver Creek 2015), tre ori iridati juniores, otto Coppe del Mondo consecutive e dodici di specialità (sei di slalom gigante e sei di slalom speciale), e una Coppa Europa generale.

Hirscher adesso conta 67 primi posti (quello nel gigante di Beaver Creek, che gli era stato assegnato dopo la squalifica di Stefan Luitz, gli è stato tolto perché il Tas ha accolto il ricorso del tedesco): aggiungerne altre 20 per raggiungere il recordman di sempre, lo svedese Ingemar Stenmark, sarebbe stato tutt’altro che impossibile. E non sono esclusi ripensamenti in vista del Mondiale di Cortina 2021 e poi dei Giochi di Pechino 2022.

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Questo non è come cambiare lavoro, ma come finire la tua vita da un giorno all’altro

Ha detto il campione austriaco in una conferenza stampa trasmessa in diretta da diverse emittenti televisive austriache. Alla domanda sulle sue ragioni di ritirarsi, Hirscher ha affermato che rimanere motivati e rigenerarsi dopo ogni stagione è diventato più difficile nel corso degli anni. Hirscher termina la sua carriera come uno degli atleti di maggior successo che abbia mai gareggiato nello sci.

Era nell’aria da un po’, ora è ufficiale: Xavi Hernandez ha mandato una lettera aperta ai media spagnoli annunciando che a fine stagione lascia il calcio per dedicarsi alla carriera di allenatore. Per i tifosi blaugrana, possiamo dire che Xavi si era ritirato dopo aver conquistato il secondo triplete del Barça, nel 2015, a Berlino nella finale di Champions contro la Juventus. In realtà era rimasto attivo andando a giocare in Qatar con l’Al Sadd. Per soldi, che servono sempre, e per iniziare a frequentare il corso da allenatore, legato all’accademia Aspire.

 

In questi quattro anni ha giocato, e anche vinto: il 4 aprile scorso ha conquistato la sua prima Liga del Qatar, la quattordicesima per il club, quarto titolo in Medio Oriente per il cervello del Barcellona di Guardiola. Che a 39 anni ha deciso di passare dal campo alla panchina. Ecco le sue parole:

Vincere la Liga delle Stelle del Qatar, l’unico titolo che mi mancava qui, rappresenta il finale perfetto alla mia carriera di calciatore. Come calciatore, non ti stanchi mai di vincere. Ora mi piacerebbe chiudere la stagione vincendo la Coppa dell’Emiro, però sono già curioso di vedere cosa mi prepara il mio futuro in panchina. La mia filosofia come allenatore riflette lo stile che abbiamo sviluppato per tanti anni alla Masia sotto l’influenza di Johann Cruijff, e che tiene la sua rappresentazione più alta nello stile di gioco del Barcellona. Adoro vedere le squadre prendere l’iniziativa sul terreno di gioco, il calcio d’attacco, recuperare l’essenza del calcio che tutti noi amiamo dai tempi della nostra infanzia: il gioco di possessione. Ciò che ho ottenuto negli ultimi decenni è stato un privilegio e penso che sia mio dovere provare a restituire qualcosa attraverso il calcio, se sarò in grado

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Il destino, dunque, è segnato: Xavi allenerà il Barcellona. Bisogna solo vedere quando e con quale presidente. Magari Gerard Piqué, o Pep Guardiola. In attesa che Ernesto Valverde si faccia da parte il catalano inizierà a fare esperienza altrove. Poi ci sarà il ritorno al Camp Nou. Dove il suo talento ha lasciato una traccia indelebile, così come in nazionale: ballando al suo ritmo la Spagna ha vinto Europeo, Mondiale ed Europeo tra il 2008 e il 2012. Un talento fuori dal comune, in campo. Vedremo come andrà in panchina: di certo, Xavi ha le idee chiare.

 

La sconfitta di Ferrara ha rinviato feste e lacrime. Di gioia, certo, ma anche di “dispiacere” per un annuncio che era nell’aria: Andrea Barzagli non perde la freddezza e la lucidità neanche per ufficializzare il ritiro dal calcio giocato. Voleva farlo nel giorno dell’ottavo scudetto consecutivo in bacheca, ma la Spal e il destino hanno rimandato le celebrazioni.

Non l’addio, invece, che il campione del mondo adesso spera di far coincidere con la finale di Champions del 1° giugno a Madrid. Quella coppa sarebbe il regalo più bello dei colleghi per celebrare la “pensione” di questa bandiera capace di entrare nella storia della Juve con dedizione, passione e umiltà. Preso nel gennaio 2011 dal Wolfsburg per appena 300mila euro, “il muro” bianconero ha vissuto il ciclo d’oro di Conte e Allegri: 9 stagioni, 280 presenze e quasi 16 titoli in bacheca certificano il suo successo, il resto arriva dai tifosi juventini pronti a celebrare Barzagli nel modo migliore per ringraziarlo.

«Passeranno anni per capire la portata di questa impresa 8 di fila sono straordinari, perché un anno può capitare che qualcosa vada storta. Invece abbiamo fatto davvero qualcosa di unico»

Con lui che appende gli scarpini al chiodo, la BBC, Barzagli-Bonucci e Chiellini, perde un pilastro ed è un altro addio eccellente dopo le partenze di Buffon e Marchisio. «Ci sono tanti motivi dietro questa scelta – spiega Andrea Barzagli dopo la sconfitta di Ferrara -: a maggio faccio 38 anni e mi sono reso conto di aver fatto più fatica degli altri anni, con tanti infortuni. Negli ultimi tre mesi ho capito che non sarei rientrato all’altezza di questa squadra: ho pensato di continuare da qualche altra parte, ma nella Juve sono stato al top ed era giusto finire così».

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Ora si apre un nuovo scenario: Allegri l’ha già proposto come allenatore della difesa e il club non vuole perdere questo senatore così carismatico e forte. «Ora c’è un po’ di confusione: sono attratto da tutto nel mondo del calcio e nei prossimi mesi valuterò bene. Fa piacere avere la Juve che ti dà una possibilità»

La partita con la Spal diventa un capolinea per Barzagli, anche se da tempo giravano voci di un suo addio a fine stagione, ma potrebbe essere stato anche il passaggio del testimone generazione. Al fianco del difensore c’era Paolo Gozzi, classe 2001 e vent’anni di differenza. «Mi sono messo nei suoi panni – spiega l’ex azzurro, alla 350° presenza da titolare in Serie A – ed è sempre un bene incoraggiare i giovani. Dai tranquillità, poi è stato bravo lui: bella partita, con personalità. Ci tenevamo a chiudere con lo scudetto e, tranne io, eravamo una bella squadra di “ragazzotti”. Sono determinati, mentre negli anni ho visto poca voglia di migliorare nei giovani: il mio consiglio è mettersi a disposizione di chi ne sa di più e migliorare». Parla da grande saggio, pronto ad una nuova vita fuori dal campo.

«Giocare a calcio è stato il mio sogno di bambino, quello che volevo e l’ho sempre fatto con grande entusiasmo. Ora devo trovare qualcosa che mi dia altrettanto entusiasmo»

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l lottatore irlandese di arti marziali miste Conor McGregor ha annunciato via Twitter il suo ritiro dal professionismo. McGregor ha 30 anni e probabilmente è il più famoso lottatore professionista di MMA, per i titoli vinti (è stato il primo e unico a vincere il titolo mondiale della lega in due categorie di peso differenti) e anche per la fama di personaggio stravagante e strafottente che si è creato negli anni. Dal 2013 combatteva nella Ultimate Fighting Championship (UFC), la più importante lega di MMA al mondo. Già nell’aprile del 2016 disse di volersi ritirare, ma fu una messa in scena legata a una disputa con i dirigenti della UFC.

 

Negli ultimi mesi si era parlato di lui soprattutto per vicende giudiziarie. Lo scorso aprile era stato arrestato a New York per aver aggredito alcuni suoi colleghi e per questo motivo a luglio aveva dovuto scontare cinque giorni di servizi sociali. Lo scorso ottobre aveva ricevuto poi una sospensione di sei mesi dopo la rissa con il lottatore russo daghestano Khabib Nurmagomedov e il suo entourage — che fu anche il motivo della prima aggressione a New York —  al termine di un incontro a Las Vegas perso per sottomissione. Pochi giorni fa era stato infine arrestato a Miami dopo aver rotto il telefono di una persona che voleva farsi una foto con lui.

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Nell’estate del 2017 organizzò un incontro di pugilato con Floyd Mayweather, leggenda della boxe e secondo pugile nella storia ad aver vinto 49 incontri su 49 disputati. Perse nettamente, perché il pugilato non era il suo sport, nonostante Mayweather avesse undici anni in più di lui e si fosse ritirato nel 2015. L’evento si tenne alla T-Mobile Arena di Las Vegas e fu uno dei più remunerativi mai organizzati nell’ambito della lotta.

Con la vittoria su Eddie Alvarezall’evento UFC 205 è diventato il primo lottatore nella storia della UFC a detenere contemporaneamente due titoli mondiali e il terzo, dopo Randy Couture e B.J. Penn, a vincere la cintura in due diverse categorie di peso. È stato protagonista di alcuni degli eventi di maggior successo nella storia della UFC, infatti ha combattuto nel main event di quattro dei sei pay-per-view più venduti, e per la federazione è il numero due nella classifica pound for pound. Assieme a Ronda Rousey è apparso sulla copertina del videogioco EA Sports UFC 2 e da solo in quella di UFC 3.

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Quindici anni di carriera in una sola istantanea. Anzi, in una sola maglia realizzata cucendo lembi di tutte le casacche oranje che Wesley Sneijder ha indossato in vita sua. E’ lo speciale ringraziamento con cui l’ex calciatore dell’Inter ha voluto dire addio alla sua lunga esperienza con la nazionale olandese, chiusa ufficialmente giovedì 6 settembre 2018 con la vittoria in amichevole per 2-1 dell’Olanda sul Perù.

 

Seduto su un divano al centro del campo alla Johan Cruijjff Arena di Amsterdam guardando il “best of” delle sue giocate, assieme a sua moglie e ai suoi figli. E tutt’attorno i tifosi intonavano per l’ultima volta il suo nome, mentre Wesley non ha saputo trattenere le lacrime.

Dal suo esordio in nazionale maggiore, a 18 anni e 10 mesi, voluto da Dick Advocaat e mandato in campo il 30 aprile 2003, passando per una sola presenza nell’Under 21, il mese prima, l’avventura arancione del 34enne di Utrecht è stata entusiasmante e inarrivabile: l’eroe del triplete nerazzurro è il recordman di presenze con l’Olanda (134 gettoni) dopo aver superato Van der Sar nel giugno 2017, nessuno meglio di lui anche al Mondiale sia per presenze (17 come Van Persie) sia per numero di gol in una singola edizione (5 in Sudafrica). Ma c’è dell’altro: Wes ha segnato 31 reti, due in più di una leggenda come Cruijff.

Indelebile il ricordo soprattutto della cavalcata del Mondiale del 2010, concluso solo in finale al cospetto della Spagna e di Iniesta. Così sulla maglia piena di “toppe”, oltre al numero 10, campeggia sulla manica sinistra la patch della manifestazione sudafricana e sotto al logo della nazionale olandese, il tributo al match contro il Brasile del 2 luglio 2010 deciso proprio dalla doppietta del fantasista (il secondo gol, inusuale, di testa).

Esploso nell’Ajax, fucina di talenti, Sneijder è stato al Real Madrid prima di passare all’Inter di Mourinho che l’ha consacrato come tra i migliori nel panorama mondiale. Successivamente ha giocato nel Galatasaray, nel Nizza e dal gennaio 2018 è nell’Al Gharafa, formazione del Qatar.

 

 

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This T-shirt is made of all the shirts I played in for the Dutch national team in the last 15 years!! ⚽️? #GreatPresent

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Lothar Matthäus ha appeso gli scarpini al chiodo annunciando il suo definitivo ritiro dal calcio giocato. No, non siamo arrivati tardi di 18 anni rispetto alla sua partita d’addio giocata nel 2000 dopo l’ultima eclettica esperienza in America, nei Metro Stars.

Campione del Mondo con la Germania nel 1990 e Pallone d’Oro lo stesso anno, il primo a ottenere questo riconoscimento con la casacca dell’Inter, Matthäus questa volta ha davvero detto basta. Ma prima, aveva un ultimo desiderio da realizzare nonostante i tanti, tantissimi successi. Con oltre 750 presenze tra Borussia Mönchengladbach, Bayern Monaco e Inter e ben 150 gettoni con la Die Mannschaft, al carismatico centrocampista mancava una sola partita.
Una partita d’affetto e di amore: giocare ancora un’ultima volta con il club della sua adolescenza, la squadra da dove ha spiccato le ali sul finire degli anni Settanta, l’Fc Herzogenaurach.

Il 57enne ha chiuso il cerchio della sua vita sportiva, tornando alle radici: domenica 13 maggio ha indossato la fascia di capitano e la maglia azzurro scuro, si è accovacciato per la “consueta” foto di gruppo prima del fischio iniziale e ha giocato 50 minuti nella vittoria per 3-0 dei padroni di casa contro lo SpVgg Hüttenbach-Simmelsdorf. Davanti a mille tifosi, nell’ultimo match della Bavarian Landesliga, sesta categoria nella piramide calcistica tedesca.

Dalle giovanili alla prima squadra, passando per l’under 17 e l’under 19, Lothar Matthäus deve tutto alla società di Herzogenaurach che, nel 1979, ha accettato di cedere il promettente centrocampista al Gladbach. Da lì un’ascesa unica che l’ha portato a vincere (ci perdonerete per il lungo elenco) sette Meisterschale, tre Dfb-Pokal e una Supercoppa di Germania con il Bayern Monaco, uno Scudetto e una Supercoppa italiana con l’Inter, un campionato americano con la compagine dei New York Metro Stars, due Coppe Uefa, un Europeo con la Germania e il Mondiale 1990.

L’iniziativa è stata supportata dalla Puma, sponsor tecnico della formazione, e che proprio a Herzogenaurach, 70 anni fa, ha fondato il suo quartiere generale. La città a 200 chilometri da Monaco, infatti, è famosa per aver visto nascere dalla stessa costola familiare sia l’Adidas che, appunto, la Puma. Un paese diviso, fatto di gelosie e antipatie al punto da essere soprannominata “la città dei colli piegati”: una persona, prima di salutare e iniziare una conversazione con un’altra persona, controllava quali scarpe avesse addosso.

Ma nell’ultimo match da professionista di Lothar, che nel frattempo ha intrapreso una vincente carriera da allenatore, non si è pensato a questo. Era il suo sogno, ha detto a fine gara abbastanza sudato e provato. Ha ammesso di esser stato poco utile in copertura, ma ha provato qualche giocata di classe e qualche colpo che gli riesce ancora bene.

Però deve rassegnarsi: nonostante sia il detentore del record per numero di partecipazioni a un Mondiale (cinque  insieme al messicano Antonio Carbajal e all’italiano Gianluigi Buffon) e il calciatore con più presenze assolute nelle fasi finali della rassegna iridata, ben 25, non è stato inserito dal ct Joachim Löw  nella lista dei convocato per Russia 2018.

Eterno “panzer” Lothar!