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Quello che ha lasciato Lauda alla Formula 1 è qualcosa di grandioso e le varie scuderie lo hanno voluto omaggiare al Gran Premio di Monaco a Montecarlo.

In realtà è tutto il circus che ricorderà il tre volte campione, morto qualche giorno fa.

La Mercedes, per l’occasione, ha colorato il proprio halo di rosso come il cappellino che Niki Lauda indossava sempre, soprattutto durante le corse.
Proprio il cappellino sarà l’oggetto della commemorazione: lo indosseranno i piloti che scenderanno in pista durante il toccante minuto di silenzio che sarà osservato alle 14.53, diciassette minuti prima del via.

Non solo l’halo, sulla W10 la casa automobilistica tedesca ha aggiunto una scritta “Danke Niki” sul muso delle loro monoposto.

Il muso della W10

Personalizzazione anche da parte della Scuderia Ferrari e Sebastian Vettel.

Sul laterale della SF90 è presente un adesivo che esalta il passato dell’ex pilota austriaco nella casa del Cavallino, in cui ha conquistato due titoli mondiali (1975 e 1977). Lo sticker è la riproduzione della grafica presente sulle Ferrari guidate da Lauda. Il nome, presente in corsivo, è accompagnato da una striscia nera in segno di lutto.

Vettel, invece, indosserà un casco ad hoc con una livrea rossa, il colore dominante dei caschi utilizzati da Lauda, su cui è presente la scritta “Niki Lauda” nella parte superiore e ai lati.

Sono un privilegiato, non sono per averlo conosciuto ma anche per averci parlato tante volte. Se ad oggi abbiamo monoposto sicure lo dobbiamo a piloti come lui.

Omaggi all’austriaco anche dalla McLaren, scuderia con cui Lauda ha vinto un Mondiale nel 1984. Una grande corona d’alloro con appunto l’anno del titolo e “Niki Lauda 1949-2019”.

Il ricordo della McLaren

La scritta “Danke Niki” con i colori dell’Austria è presente anche sulle monoposto della Red Bull e della Toro Rosso. Le scuderie hanno scelto di omaggiare il pilota con una foto.

L’omaggio di Red Bull e Toro Rosso

Anche i grandi sbagliano. C’è un fantasma che aleggia nella carriera di Carlo Ancelotti. Ha le sembianze, la falcata e il talento di Thierry Henry. Oggi i due sono colleghi. Il primo uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio. Il secondo è da pochi mesi il nuovo allenatore del suo Monaco. Eppure vent’anni fa il mister italiano e il ragazzino francese si sono incrociati a Torino, per pochi mesi alla Juventus. Parentesi negativi nel glorioso palmares di entrambi. Ancelotti, ribattezzato perdente di successo in bianconero. Titì, meteora liquidata troppo in fretta e poi rimpianta per anni.

Henry e Ancelotti alla Juventus

Il 19 gennaio 1999 un giovanotto di 21 anni, neocampione del mondo con la Francia, molto veloce palla ai piedi ma ancora acerbo sotto porta, sbarcava alla corte di Madama. La Juventus acquistava Henry dal Monaco per circa 11 milioni di euro e mezzo. Un investimento importante per uno dei gemelli del gol in Costa Azzurra assieme a Trezeguet. Ma quella è un’altra storia, ancora precoce per i colori bianconeri. Thierry, invece, arrivava in bianconero con grandi aspettative. La squadra di Lippi era in profonda crisi. Il primo ciclo del tecnico toscano era agli sgoccioli. Dopo aver vinto tutto qualcosa si era rotto, il grave infortunio a Del Piero aveva sconvolto i piani della stagione e la Juventus viveva la peggiore stagione da decenni.

Henry e Trezeguet al Monaco

Sembrava di rivivere la nefasta epopea di Gigi Maifredi nel 1990 – 1991. I bianconeri erano a metà classifica, lontani dalla zona scudetto e a caccia del quarto posto Champions. Finiranno con lo spareggio, perso, con l’Udinese per l’accesso diretto alla Coppa Uefa. Ripartiranno con la Coppa Intertoto e Ancelotti in panchina. Il delfino di Arrigo Sacchi sarebbe dovuto arrivare in estate. Piomberà a Torino a febbraio dopo il ko interno con il Parma e le dimissioni di Lippi. In quella squadra, che praticamente non aveva fatto mercato estivo, accanto ai senatori (Del Piero, Zidane, Inzaghi, Pessotto, Di Livio, Deschamps, Ferrara, Conte, Peruzzi, Davids) spuntarono alcune promesse poi non mantenute.

La Juve con i numeri in rosso nella stagione 1998 – 1999

Il terzino Mirkovic dall’Atalanta. Il portiere Morgan De Sanctis. I centrocampisti Simone Perrotta, Marco Rigoni e Jocelyn Blanchard. L’attaccante Juan Esnaider, arrivato a gennaio come Henry. Il francese in bianconero è un grande equivoco tattico. Nessuno si accorge che è una punta pura che ha bisogno di spazio attorno a sé. Lippi prima, e Ancelotti poi, lo impiegano sulla fascia. Interno di centrocampo a sinistra o ala. Il punto è che in Italia non puoi giocare laterale se non copri entrambe le fasi di gioco. Attacchi e difendi, difendi e attacchi. Henry aveva bisogno di campo, di libertà e di tempo. Troppo per una squadra abituata a vincere e che non può aspettare.

Juan Esnaider, una delle grandi meteore in bianconero

Con la Juventus, tra campionato e coppe, Henry disputa 21 gare con tre gol. L’unica traccia vera di sé la lascia nel blitz esterno contro la Lazio all’Olimpico. Una doppietta, agevolata dalla papera di Marchegiani, che di fatto consegnerà lo scudetto al Milan, strappandolo ai romani. Il tiro deviato in rete contro il Venezia sarà la sua terza marcatura. Lascia l’Italia ad agosto di quell’anno dopo la gara di ritorno Intertoto contro i rumeni del Ceahlaul. Viene ceduto all’Arsenal per 27 miliardi di lire. Anni dopo lo stesso Henry rivelerà che andò via da Torino anche per dissidi con Moggi. Il dirigente voleva girare in prestito Titì all’Udinese per arrivare a Marcio Amoroso.

L’annuncio ufficiale non è ancora stato dato, ma è Alvaro Morata attraverso un post su Instagram a dare l’addio al compagno di squadra Cesc Fabregas, che saluta la Premier League e il Chelsea per accasarsi al Monaco.

 

All’età di 31 anni, dunque, una nuova avventura per il centrocampista spagnolo che lascia il campionato inglese dopo 4 anni e mezzo per volare in Ligue 1 nella squadra guidata da Thierry Henry che lotta per la salvezza.

L’ultima partita con la maglia dei Blues è stata giocata ieri sera in FA Cup contro il Nottingham Forest vinta per 2-0 allo Stamford Bridge, grazie alla doppietta di Morata. In realtà anche Fabregas ha avuto un occasione per segnare, ma è stato ipnotizzato dal dischetto dal portiere Steele al trentesimo del primo tempo.

Quest’ultima stagione è stata quella dell’anonimato dato lo scarso utilizzo da parte dell’allenatore Maurizio Sarri. Ma forse è da molti anni che si è perso il vero Fabregas che ha estasiato tutti con la maglia dell’Arsenal e con la nazionale spagnola.

Proprio grazie alle grandi stagioni con la maglia numero 4 dei Gunners l’ex capitano si fa notare al grande calcio come uno dei centrocampisti più di prospettiva, dotato di tantissima qualità e quantità. Imprescindibile per il gioco di Arsene Wenger e dei commissari tecnici Luis Aragonés e Vicente Del Bosque.

Con l’Arsenal gioca 391 partite realizzando 59 reti e 92 assist vincendo una Fa Cup nel 2004/05 e una Community Shield nel 2004.

Il ritorno al Barcellona è stato quello da favola dato che lui è cresciuto nella cantera blaugrana e che ha lasciato quando aveva sedici anni. Il club spagnolo lo acquista alla cifra di 40 milioni di euro e fissando una clausola di 200. Con il Barcellona vince quasi tutto anche se l’amore non sboccerà mai con la società e con i tifosi. Nonostante i blaugrana siano la squadra più forte in circolazione, Cesc Fabregas decide di lasciare nuovamente la Spagna per accettare la proposta del Chelsea del presidente Abramovich.

I Bleus lo comprano alla cifra di 33 milioni di euro e alla prima stagione risponde come uomo assist. Ben 25 passaggi vincenti e 5 reti e vittoria della Premier League nel 2014/15. Nelle ultime stagioni il suo rendimento è calato e non ha più quella freschezza atletica di un tempo nonostante abbia ancora 31 anni.

Ora sarà il francese Henry a cercare di recuperarlo del tutto così che possa dare un contributo importante al Monaco in ottica salvezza.

Il Principato è pronto a riabbracciare uno dei suoi figli più talentuosi e puri: Thierry Henry che, nel Monaco, ha iniziato la sua carriera prima di prendersi i palcoscenici mondiali, torna in Francia, questa volta da allenatore del club che disputa la Ligue 1 francese.

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La prima esperienza su una panchina, per Titì, non poteva che essere il Monaco: ai recenti Mondiali di calcio in Russia, l’ex dell’Arsenal è stato l’assistente di Roberto Martinez nella nazionale belga, ma ora a Montecarlo prende il posto del portoghese Leonardo Jardim che, negli ultimi quattro anni, ha fatto grandi cose con i monegaschi, vincitori del titolo in Francia nel 2017. Henry, che ha firmato un contratto fino al 2021, sarà assistito dall’allenatore delle giovanili Carlos Valado Tralhao e da Patrick Kwame Ampadu, ex preparatore dell’accademia dell’Arsenal.

 

Dal 1994 fino al 1999, Henry ha giocato 122 partite con il Monaco prima di passare alla Juventus, club in cui si potè solo intuire il suo talento cristallino. Talento che, dopo aver vinto il Mondiale del 1998 con la Francia, tutto il mondo ha potuto vedere con la maglia dei Gunners, la sua seconda pelle. Con l’Arsenal ha totalizzato 228 gol, vinto due Premier League, tre FA Cup e due Community Shield. L‘esperienza con il Barcellona gli permise, invece, di conquistare la Champions League e la Coppa del mondo per club.

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Dopo nove giornate di campionato, il Monaco si trova ora terzultimo in classifica e in zona retrocessione. Ha ottenuto soltanto sei punti e ha vinto soltanto una partita, lo scorso agosto. Nelle ultime stagioni è stato il principale contendente del Paris Saint-Germain, motivo per cui le difficoltà incontrate in questo inizio di stagione hanno sorpreso tutti, nonostante la squadra sia inferiore a quelle degli anni passati.

Una curiosità: Henry ritrova in Ligue 1 anche Patrick Vieira, attuale allenatore del Nizza.

 

Ha un futuro roseo davanti a sè e l’ha dimostrato sin dalle prime battute nel calcio italiano.
È un baby prodigio e la società francese del Monaco se n’è accorta subito.
Si tratta di Pietro Pellegri, attaccante ex Genoa acquistato dai biancorossi, i quali hanno bruciato la concorrenza delle altre squadre europee tra cui anche le big italiane.
Qualche giorno fa ha fatto il suo esordio in Ligue 1 nello stadio Louis II nei minuti finali contro il Dijon.

Con il suo ingresso in campo, l’italiano ha battuto persino Kylian Mbappé.
In effetti, il giovanissimo attaccante classe 2001 ha superato l’enfant prodige come precocità. E chissà che tra non molto arrivi anche la prima rete.

Proprio l’attaccante del Paris Saint Germain si è congratulato con la punta genovese.
Pellegri non è la prima volta che segna un record, ricordiamo, infatti, che è stato il più giovane nella storia del calcio italiano a segnare una doppietta in Serie A (a 16 anni e 184 giorni).

A Monaco, inoltre, ha trovato un altro Italians che oramai è l’idolo dei tifosi monegaschi: Andrea Raggi.  Il difensore sicuramente aiuterà il novello attaccante per offrirgli tutti i consigli giusti per la crescita.

Il 5 settembre del 1972, poco dopo le 4 di mattina, un commando terroristico composto da otto palestinesi fece irruzione all’interno dell’abitazione israeliana situata nel villaggio olimpico in Connollystraße 31, dopo aver scavalcato una recinzione di appena 2 metri. Uccisero due atleti israeliani (Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano, sollevatore di pesi) che avevano tentato di fermarli, e ne sequestrarono altri nove.

L’epilogo è tragicamente noto: dopo una giornata di estenuanti e fallimentari trattative di negoziazione, la polizia tedesca provò a liberare gli ostaggi con un atto di forza all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, ma nella sparatoria che si innescò morirono tutti gli atleti, cinque terroristi ed un poliziotto tedesco.

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Fu una catastrofe senza precedenti all’interno di una manifestazione internazionale. Una nuova realtà di terrorismo si affacciò sulla scena mondiale sfruttando proprio l’Olimpiade come palco per mostrarsi al mondo intero.
Otto fedayyin armati di AK-47 e facenti parte dell’organizzazione “Black September”, col pretesto della mancata partecipazione della Palestina, sconquassarono i Giochi e destabilizzarono la polizia di Monaco. Manfred Schreiber curò in prima persona le trattative, ma si dimostrò impreparato commettendo una serie concatenata di errori tragici nella loro sciocchezza. Si badò all’aspetto estetico ignorando l’allarme di possibili azioni terroristiche perché, quelle del 72′, volevano essere le Olimpiadi della rinascita tedesca, dopo il periodo nero di Hitler.
Pochi controlli, 2000 agenti della polizia in borghese (le armi non dovevano essere visibili), forma di sicurezza passiva formata da volontari dell’Olys il cui compito era semplicemente quello di placare eventuali tafferugli. Nessuno doveva pensare ad una Germania militarizzata, dovevano regnare la pace, i colori e l’atmosfera festosa. Ma i giochi rappresentavano altresì l’occasione per atleti israeliani di partecipare nuovamente ad una manifestazione di tale portata, dopo i tragici anni dell’Olocausto, ma di questo nessuno se ne curò realmente.

 

 

Erano da poco passate le 6 di mattino, quando da una finestra dell’edificio, i terroristi lanciarono due fogli con su scritta la loro richiesta: scarcerare 234 palestinesi in Israele entro le ore 9.00. Schreiber fu abile nel prorogare più volte la scadenza fino alle 17.00, mentre da Israele non giunsero mai segnali incoraggianti: infatti, Golda Meir, l’allora Primo Ministro, sin da subito si rifiutò di accettare una simile pretesa.
Nel frattempo intorno alle 11.00, a causa delle pressioni del pubblico e dei media, i Giochi furono ufficialmente sospesi, mentre un funzionario olimpico, Walther Tröger, ottenne il permesso di entrare nell’abitazione per controllare lo stato di salute degli atleti rapiti.
In realtà il suo scopo era quello di contare il numero di palestinesi armati (secondo lui 5), unica informazione per poter programmare un’azione offensiva che avrebbe previsto l’irruzione a sorpresa di un nucleo di tredici agenti utilizzando i condotti di ventilazione posti sul tetto dell’edificio.

 

 

Ma con i Giochi sospesi, folle di curiosi si riversarono in prossimità dell’edificio in Connollystrasse, e con loro una nutrita schiera di giornalisti e reporter che raccontavano e riprendevano in diretta quanto stesse accadendo. Nulla di più sbagliato. Nelle fasi concitate della preparazione dell’assalto, Schreiber si dimenticò completamente di isolare e liberare la zona (i terroristi potevano sparare sulla folla in qualsiasi momento) e il maldestro e goffo risultato fu che l’intera operazione fu ripresa in diretta dalle telecamere, consentendo anche ai terroristi, che all’interno dell’appartamento stavano osservando la TV, di venire a conoscenza del piano minacciando, così, di uccidere gli ostaggi immediatamente.

 

 
La svolta arrivò poco dopo le 17.00, quando Issa, leader del gruppo terroristico (nonché infiltrato come operaio durante la costruzione delle strutture olimpiche), avanzò la richiesta di trasferimento con gli ostaggi all’aeroporto del Cairo per poter continuare da lì le trattative.
Consci dell’assenso negato dalle autorità egiziane, la polizia, con l’idea di provare un’ultima volta a salvare gli atleti, assecondò il volere dei terroristi ed ordinò il loro trasferimento, attraverso 2 elicotteri, all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, a pochi chilometri da Monaco, dove avrebbero trovato un Boeing 727 della Lufthansa.

Il piano prevedeva che all’interno dell’aereo, camuffati da piloti e membri della compagnia, un gruppo di poliziotti avrebbe dovuto uccidere Issa ed il vice, mentre cinque cecchini posti sulle torri avrebbero dovuto uccidere gli altri tre terroristi. Ma il piano si rivelò ben presto un fallimento: mentre gli elicotteri erano prossimi all’atterraggio, il gruppo di poliziotti all’interno dell’aereo annullò l’operazione reputandola troppo pericolosa.
Il destino degli atleti era pertanto affidato ai soli cecchini (che in realtà non erano veri e propri tiratori scelti, in quanto al tempo nella Germania dell’Ovest, l’esercito non poteva essere chiamato per risolvere questioni all’interno del territorio) sprovvisti di infrarossi, di caschi protettivi, con poca luce a favore ed ignari sul numero reale dei terroristi (sapevano fossero ancora cinque).

Tale impreparazione fu fatale nei trenta minuti di fuoco che seguirono dalle 22.30 fino alle 23.00. I cecchini spararono alla cieca mentre i rinforzi arrivarono solo alle 24.00 quando oramai il destino era tragicamente segnato: i terroristi, capito l’inganno e circondati, uccisero tutti gli atleti.
L’assurdità dell’intera operazione trovò il suo drammatico apice quando, in un primo momento, radio e televisioni affermarono l’avvenuta liberazione degli atleti, salvo poi dover diramare la crudele realtà. Il giorno seguente, i Giochi ripresero il regolare svolgimento.

Nel 2012, a 30 anni dall’eccidio, mentre il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) si è dimostrato poco flessibile non lasciando troppo spazio ai ricordi durante le Olimpiadi di Londra, in Germania, dove ancora si avverte un senso di sconfitta per gli errori commessi, si è voluto ricordare quel giorno nefasto. Sul luogo dove 40 anni prima ci fu un bagno di sangue, un rabbino ha celebrato una messa alla quale hanno partecipato funzionari tedeschi, parenti delle vittime ed alcuni atleti israeliani sopravvissuti, uniti per ricordare Mark Slavin, Eliezer Halfin,David Berger, Ze’ev Friedman, Yossef Romano, Andre Spitzer, Moshe Weinberg, Amitzur Shapira, Yossef Gutfreund, Yakov Springer, Kehat Shorr.

 

Il campionato francese, mai come negli ultimi anni, è cresciuto a livello mediatico e sportivo. Con l’acquisto di Neymar da parte del Paris Saint Germain certo l’attenzione è aumentata ancor di più. La squadra parigina è una potenza economica e sicuramente se la protagonista della Ligue 1 che è appena partita. Monaco, vincitrice lo scorso anno, proverà a rendere le cose più complicate ma occhio a Nizza, Lille e Marsiglia.

Italians vuole focalizzarsi appunto sugli italiani che quest’anno disputeranno il prestigioso campionato francese.

Confermati gli italiani nelle maggiori squadre transalpine (un difensore, un centrocampista e un attaccante), ma anche la novità allenatore: Claudio Ranieri alla guida del Nantes.

Partiamo dalla regina di questa sessione di mercato estiva: il PSG. Molte le voci attorno a Marco Verratti (o Verrattì come dicono i francesi) e su un suo addio dal Parco dei Principi. Per ora un nulla di fatto, il proprietario Al Khelaifi lo ha sempre definito incedibile e ora con Neymar pare che la telenovela sia chiusa. I bisticci con il suo ex procuratore  Di Campli, ora anche lui è entrato a far parte della scuderia Mino Raiola. Il centrocampista abruzzese sarà il faro del centrocampo parigino; vuole fare bene per trovarsi in forma a giugno prossimo per il Mondiale in Russia.
Oltre a Verratti a Parigi c’è anche l’italobrasiliano Thiago Motta. Seppur non più un titolarissimo il centrocampista ex Inter è rimasto nella capitale francese e comunque potrà contribuire a far rifiatare i titolari in mezzo al campo.

Nella rosa della squadra vincitrice del campionato 2016/2017, il Monaco, c’è un italiano che oramai nel Principato è un veterano. Si tratta di Andrea Raggi. Il 33enne difensore ligure è tra li fila dei monegaschi dal 2012 con cui ha prima disputato un campionato di Ligue 2, fino ad arrivare alla Champions League. Proprio nell’anno in cui i biancorossi sono saliti in Ligue 1, alla loro guida c’era Claudio Ranieri e in passato è stato tecnico anche Alberto Guidolin.

Se pensiamo alla Francia, non possiamo non citare il nostro SuperMario Balotelli. Alla sua seconda stagione a Nizza, l’attaccante italiano ha ritrovato la sua serenità e i gol. Dopo la bell’annata, condita con una qualificazione ai preliminari di Champions in cui ha realizzato 15 reti in 23 presenze, Balotelli ha già esordito con una rete quest’anno contro l’Ajax nella qualificazione alla Coppa dei Campioni. Nel prossimo turno, ironia della sorte, incontrerà un’italiana: il Napoli. SuperMario cercherà di fare bene quest’anno per strappare una convocazione al Mondiale 2018. Il rapporto con la tifoseria francese è sempre stato speciale anche quando non è in campo.

Se questi sono gli italiani che scenderanno in campo in questa stagione francese, c’è anche un italiano che siede in panchina, a Nantes. È Claudio Ranieri che, dopo la fiabesca avventura al Leicester con tanto di titolo di Premier League nel 2015/2016, ha voluto tentare una nuova avventura estera. Come abbiamo detto, sir Claudio è già stato in Francia ai tempi del Monaco, con cui ha vinto un campionato di Ligue 2 e un buon secondo posto la stagione successiva. Ora l’avventura per uno che ama le grandi sfide. La strada è già in salita dopo la sonora sconfitta a Lille per 3-0.

Dario Sette

A Dortmund in pochi, questa notte, sono riusciti a chiudere occhio. Il terrore bussa alla finestra, vuole entrare nei cuori e disfare le menti. E’ imprevedibile: colpisce quando meno te lo aspetti. E attacca chiunque.
Ieri aveva puntato i calciatori del Borussia Dortmund. Il martedì della Champions League, una di quelle partite che contano davvero durante la stagione. Contro i francesi del Monaco, nell’affascinante stadio del Signal Iduna Park.

Superate da poco le 19, il pullman che portava la squadra tedesco verso lo stadio è stato attaccato. Tre esplosioni, una dopo l’altra, a 10 km dallo stadio, lungo la Wittbraeucker Strasse. Un attacco mirato, preciso, organizzato da professionisti, da chi, insomma, sa come collegare e piazzare ordigni.
Circolano ipotesi, si fanno idee. Tante teorie, ovviamente, che mettono in mezzo gruppi antifascisti e terrorismo internazionale. La polizia, spiega il giornale Süddeutsche Zeitung, sta seguendo varie piste, ma nelle ultime ore ha preso corpo la pista islamica. Una lettera, la cui autenticità va tutta confermata, trovata nei pressi dell’esplosione comincerebbe con le parole “In nome di Allah il compassionevole, il misericordioso”.

I giocatori, ovviamente, sono sotto shock. Partita rinviata (si giocherà oggi alle 18.45), ma per fortuna, considerando il potenziale rischio di una strage, a riportare delle ferite è il solo centrale spagnolo Marc Bartra. Inizialmente si parlava di lievi ferite al braccio, mentre secondo le ultime informazioni è stato operato al polso per una frattura e per rimuovere le schegge.
Il portiere svizzero Roman Bürki è stato l’unico a parlare, colto dai giornalisti arrivati sul posto: «L’autobus ha girato sulla strada principale e c’è stata un’enorme detonazione. Io ero seduto in fondo vicino a Bartra, che è stato raggiunto da schegge di vetro. Dopo l’esplosione, eravamo spaventati, non sapevamo se potesse succedere altro. La polizia è arrivata rapidamente e ci ha rassicurati».
«Immagini del genere non escono dalla testa»
, ha detto, invece, il direttore generale del Borussia Dortmund, Hans-Joachim Watzke.

.Il terrore, come detto, bussa. Ma Dortmund non lo vuole fare entrare. L’umanità, lo spirito che unisce le persone, le fa abbracciare, è stato superiore. Ha vinto a tavolino contro la paura.
I tifosi francesi che ero già all’interno dello stadio, dopo aver saputo dell’attacco agli avversari hanno iniziato a intonare un potente coro, all’unisono. “Dortmund, Dortmund” hanno gridato, con quella loro “r moscia” riconoscibile ovunque, levando al cielo la voglia di affermare energie positive.

Ma non è tutto: lo stesso Borussia, sul suo profilo Twitter, ha lanciato l’hashtag #bedforawayfans. In buona sostanza, considerando il giorno in più di permanenza per molti supporter monegaschi, vari tifosi Bvb hanno deciso di accoglierli in casa, facendoli riposare e passando una serata particolare. Guardare le immagini per credere: se il terrorismo prova a dividere, il calcio sicuramente unisce. Das ist Fußball!

 

Giovanni Sgobba

Questa è una storia che ha dell’incredibile. Riguarda un buon difensore, roccioso e serio professionista che si avviava verso una buona carriera in serie A in squadre di fascia medio bassa, una carriera probabilmente senza acuti ma sicuramente da onesto mestierante del pallone.

Almeno finché non è passato un treno diretto con destinazione Principato di Monaco. E i treni bisogna saperli prendere. Andrea Raggi su quel treno ci ha costruito la sua fortuna, diventando l’ennesimo talento incompreso del nostro calcio.

GLI ALBORI DELLA CARRIERA

Andrea Raggi nasce ad Arsina, paesino abbarbicato sulle pendici della Val di Vara, in provincia di La Spezia e cresce calcisticamente nell’Empoli dove esordisce in Serie B nel 2004/2005, dopo la prima convincente annata da professionista alla Carrarese nell’allora serie C2, con l’etichetta di giovane difensore solido e di sicuro avvenire.
E la prova del campo conferma quanto di buono si dice di lui sulla carta stampata. Raggi ottiene infatti subito la promozione nella massima serie, diventando ben presto colonna portante della difesa empolese.
Al Castellani rimane per altre tre stagioni in Serie A, sempre da titolare, contribuendo a tre salvezze consecutive con due picchi di assoluto valore come l’8° posto del 2005/2006 e il 7° del 2006/2007 condito dai quarti di finale di Coppa Italia.
Alla fine della stagione 2007/2008 passa al Palermo di Zamparini per ben 7 milioni di euro quale fulcro indiscusso della difesa studiata da Colantuono ma, dopo la prima da titolare, subisce gli effetti della ben nota ira del presidente e, con l’esonero del mister romano e l’arrivo di Ballardini, viene declassato a riserva.
Da lì inizia un continuo peregrinare che lo porta prima a Genova, sponda Samp, poi a Bologna e, con biglietto di andata e ritorno, a Bari, prima di giocare da titolare la stagione 2011/2012 nella squadra emiliana. Al termine della stagione, però, rimane svincolato, perché il Bologna non esercita l’opzione per il suo acquisto.

LA SVOLTA

La fine dei suoi sogni di gloria? Tutto il contrario. E’ l’inizio della seconda carriera di Raggi, una seconda giovinezza che lo porterà a raggiungere vette che, scommettiamo, nemmeno nei suoi sogni più inconfessabili avrebbe immaginato di raggiungere.
Si, perché nel momento più difficile della sua carriera di calciatore, quello della perdita delle certezze, dell’insinuarsi dei dubbi sulle proprie qualità, arrivò una telefonata. Una benedetta telefonata.
Dall’altro lato della cornetta Claudio Ranieri che voleva fortemente il difensore spezzino nella sua nuova esperienza straniera con lo scopo di riportare il Monaco, precipitato in Ligue 2, agli antichi fasti.

Il Monaco è un club prestigioso con una grande storia. Lo ritengo una grande squadra, anche se gioca in Ligue 2. Ha ambizioni importantissime con un grande progetto: non potevo rifiutare

Così si presentò Raggi ai microfoni della tv ufficiale del Monaco, subito dopo il suo arrivo a Montecarlo.

E fu subito gloria. Il Monaco vince la Ligue 2 e torna nella serie che gli compete e Raggi con 35 presenze e ben 4 reti diventa subito l’idolo dei tifosi.
Da lì in poi la crescita di Raggi non conosce soste. Il Monaco, neopromosso, torna subito nelle posizioni di vetta e nei successivi tre campionati colleziona un secondo (2013/2014) e due terzi posti (2014/2015 e 2015/2016). La società investe cifre importanti, gli obiettivi sono sempre più ambiziosi, i giocatori vanno e vengono ma ce n’è uno che non si muove di un centimetro: Andrea Raggi rimane ben saldo al suo posto a difesa della porta monegasca, dimostrando di poter reggere palcoscenici da brividi come quello della Champions League e tenendo alta la fama del Made in Italy.

E si arriva così ai giorni nostri, a una stagione che ha consacrato il Monaco come protagonista assoluto della Champions League grazie all’impresa contro il City dove l’11 di Jardim ha annichilito Aguero e compagni nel doppio confronto, in un modo assai più netto di quanto il risultato finale abbia dimostrato, segnando forse la fine del guardiolismo.
E Raggi? Raggi è stato assoluto protagonista, togliendo spazio d’azione ad un fenomeno come Aguero nel match decisivo del Parco dei Principi, con una marcatura d’altri tempi, asfissiante, degna della vecchia scuola italiana di mostri sacri come Gentile e Burgnich.
Ed ora sotto con la sfida al Borussia Dortmund nei quarti, dove i monegaschi, pur sfavoriti, partono tutt’altro che battuti.

Vengono alla mente ricordi lontani, ma non remoti, istantanee di quel Monaco che nel 2003/2004 sfiorò una storica vittoria nella massima competizione europea per club venendo sconfitto ad un respiro dal traguardo da un’altra assoluta sorpresa: quel Porto che avrebbe dato inizio all’era dorata dello Special One, Josè Mourinho.
Pensare che questo Monaco possa riuscire a ripetere quell’impresa non è poi così assurdo. Magari nella magnifica cornice del National Stadium of Wales di Cardiff potrebbero trovarsi di fronte la Juventus. E sarebbe la ciliegina sulla torta per Andrea Raggi, un calciatore che in Italia non aveva futuro ma che ha fatto jackpot nel Principato.

Michele De Martin

Avete presente quelli che lavorano dietro le quinte?

Ecco, prenderemo il caso di uno che si è sempre preso in carico la gestione completa del backstage delle squadre di calcio. Uno di quelli che finiscono poco in copertina, ma fanno il lavoro di più persone messe assieme.

Andrea Butti non vi dirà nulla come nome: non è uno di quei manager sulla cresta dell’onda. I prezzemolini del mestiere.

Magari l’avete visto di riflesso in qualche foto o video.

Nel curriculum ha un’incisione che gli resterà scolpita a vita e si chiama triplete.

Perchè se nel 2010 in formazione c’erano degli eroi, magari lo si può dire altrettanto per i dirigenti della grande Inter 2.0 targata Mourinho. Butti era il team manager di una squadra che andò in all in e vinse tutto.

Per lui poi ci sono state le esperienze all’estero, e proprio per questo Andrea Butti calza a pennello nella categoria italians, perchè com’è normale per un manager (fuori dall’Italia), con l’avanzare della sua carriera, gli incarichi e le responsabilità sono aumentate, in Francia e in Inghilterra.

Zenga e Butti con il capitano dei Wolves Batth, dopo il rinnovo fino al 2020

Partiamo dalla descrizione del ruolo. Il team manager fondamentalmente è il tramite tra la squadra e la società, il responsabile della logistica, quindi delle trasferte e degli spostamenti, l’uomo che si rapporta anche con i direttori di gara.

3 motivi per i quali giudicarlo un bravo team manager: 

1. jose’ mourinho

L’allenatore meno gestibile del pianeta: mettiamoci nei suoi panni, lì al suo fianco, pronto per fare una sostituzione, con Mou che mostra le manette al mondo intero.

2. Mario Balotelli

Il giocatore meno gestibile del pianeta. Metti che perda la testa, ed è successo spesso, come nella semifinale d’andata della Champions League 2010; Mario butta la maglia a terra, con uno spogliatoio, e un popolo, pronti ad aggredirlo.

3. Zlatan Ibrahimovic

Gli anni della gestione Ibra, un ciclone, l’uomo dal mal di pancia facile, delle pillole tipo: “Non mi serve il Pallone d’Oro per sapere di essere il migliore al mondo”.

Monaco

Andrea Butti allo stadio di Monte Carlo, lo stade Louis II

Dopo 12 anni di Inter (prima da addetto stampa, poi da team manager) va in Francia, al Monaco, dove resta per 3 stagioni. Molto legato e stimato in UEFA (lavorò nello staff degli Europei 2007 U21 e degli Europei 2008 in Svizzera), è responsabile organizzativo del club.

22 aprile 2015, lo 0-0 regala alla Juve la semifinale dopo 12 anni

Lavora con mister Ranieri. A livello sportivo la squadra si batte alla grande dietro il Psg. Non vince (gli tolgono alla spicciolata Falcao, James Rodriguez, Abidal, Kondogbia) ma è sempre lì: secondi nel 2014, terzi nel 2015 e 2016. In Champions nel 2015 arriva ai quarti con la Juve.

Wolverhampton

E poi arriva l’estate 2016, con la chance di seguire Walter Zenga ai Wolves, nella Championship inglese, squadra nel bel mezzo di un cambio proprietà. Ruolo: general manager. Mica male.

Le cose non vanno come si spera, la squadra, allestita per il salto in Premier, fa un filotto negativo di 1 pari e 4 sconfitte e Zenga viene esonerato e dopo poco più 3 mesi, a fine ottobre, fa le valigie anche Butti. Lo si considera parte dello staff dell’ex “Uomo ragno”, o perlomeno optano per questa versione i tabloid inglesi.

Ed ora?

Un dirigente del genere può soddisfare l’appetito di molti club, tanto che Butti, con l’esonero di Frank De Boer, venne fatto salire sul treno (sarà poi vero?) che avrebbe portato Guus Hiddink sulla panchina dell’Inter. Non se ne fece nulla.

Che poi: siamo sicuri voglia tornare in Italia? Specialmente in ambito dirigenziale, è raro vedere cavalli di ritorno, ma non si sa mai.

Davide Ferracin
@davideferracin