“Hijo del viento”, figlio del vento è il soprannome – uno dei tanti fantasiosi e romantici che nascono da quelle terre – che in Argentina gli avevano affibbiato perché la leggenda vuole che fosse capace di correre i 100 metri in 11 secondi. Prima di essere calciatore, Claudio Paul Caniggia, infatti aveva la passione per l’atletica: 100, 200, 400 metri e salto in lungo le sue specialità.
Nasce a Henderson il 9 gennaio 1967 e, strano dirsi per un argentino, cresce con il mito di Garrincha. Icona del calcio degli anni Novanta per la sua chioma ossigenata da frontman di una band rock, quei suoi capelli biondi ce li ricordiamo tutti in una sera d’estate per la zuccata di testa che trafisse Zenga e la Nazionale italiana durante le semifinali del Mondiale di Italia ’90.
Ala argentina dal talento innato, Caniggia esordisce il 10 giugno 1987, a 20 anni, con la maglia dell’Argentina proprio contro l’Italia perdendo 3-1. E’, ovviamente, l’Albiceleste di Maradona, ancora campione iridata in carica per la Coppa del mondo messicana. Si afferma in Serie A, disputa 121 partite e segna 33 reti tra Verona, Atalanta e Roma.
Partecipa, come detto, ai Mondiali del 1990 e quelli del 1994; avrebbe potuto giocare anche quelli del 1998 se solo non si fosse scontrato con il ct Passarella. Il motivo? Proprio i capelli. Come riporta un articolo della Repubblica datato 1994:
Claudio Caniggia potrà tornare a giocare nell’ Argentina solo se si taglierà i capelli. E’ una nuova iniziativa del ct Daniel Passarella, che intende, con questi sistemi da servizio militare, riportare la disciplina nella nazionale: il diktat sui capelli segue all’ obbligo dell’ esame rinoscopico per i convocati, allo scopo di scoprire chi usa cocaina. Intanto Caniggia ha già fatto sapere che non intende assolutamente tagliarsi i capelli, diversamente da Batistuta, che ha già annunciato il sacrificio. “Passarella esagera” ha dichiarato l’ex romanista.
E andò proprio così. Claudio Caniggia non fu convocato, ma non chiuse definitivamente con la Nazionale argentina: la sua ultima partita fu quattro anni dopo, nel febbraio 2002, contro il Galles. Allenatore era Marcelo Bielsa, finì 1-1 e il “figlio del vento” giocò per tutti i 90 minuti. In totale furono 49 partite con la maglia argentina con 16 gol.
«Campioni del Mondo, sul tetto del Mondo, sul tetto del Mondo», quella sera, anzi quella notte ormai profonda in Italia, il telecronista della Rai, Jacopo Volpi, prese “in prestito” la frase storica e celebre del collega Nando Martellini, la modificò leggermente, per festeggiare il titolo mondiale della Nazionale italiana di pallavolo. Il primo Mondiale vinto dall’Italia che tre inanellerà tre titoli iridati consecutivi assieme ad Atene 1994 e Tokyo 1998. Una generazione di fenomeni che la sera del 28 ottobre 1990 ebbe consapevolezza della sua forza, irraggiungibile per gli avversari.
Quell’anno gli azzurri volarono in Brasile (dove si svolser il campionato del mondo) da campioni europei, ma nel torneo sudamericano i favoriti erano i padroni di casa, gli Stati Uniti d’America, l’Unione sovietica e Cuba, inserita nello stesso girone dell’Italia e trainata dal portento Joel Despaigne, detto “el Diablo”. Il cammino nel gruppo D del team allenato da Julio Velasco partì in discesa con due facili vittorie con Camerun (3-0) e Bulgaria (3-1), ma il primo, pesante stop, fu proprio contro la Nazionale cubana che non lasciò all’Italia nemmeno le briciole: 3 set a 0, che non precluse l’accesso alla fase successiva, ma ridimensionò il sogno azzurro. Tuttavia, l’aver dovuto disputare un turno in più, a fine torneo, diede ai ragazzi coraggio e maturità. Superate, infatti, agevolmente la Cecoslovacchia agli ottavi e l’Argentina ai quarti (doppio 3-0), l’Italia ha affrontato, in semifinale, il Brasile trascinato dai tifosi locali.
Al Maracanazihno la sfida fu tosta, una battaglia sfibrante giocata ribattendo colpo su colpo. Sono 20mila, i tifosi brasiliani che sostennero i padroni di casa, ma il match arrivò al quinto set, dove, in un’atmosfera tiratissima fu Lucchetta a realizzare il punto del matchball. Finale proprio contro Cuba, proprio contro Despaigne, ma il 28 ottobre 1990, la storia prese una curva differente dalla sfida persa malamente qualche giorno prima. L’Italia, uscita indenne dalla bolgia verdeoro, capì di essere pronta, spalle larghe per tenere botta e reagire. Cuba non fece più paura, dopo esser arrivati fin là facendosi una «mazzo tanto così» (diranno i giocatori e l’allenatore più volte in futuro). Così iniziò la finale con Cuba che vinse in scioltezza il primo set, ma l’Italia, sempre lì, reagì vincendo sia il secondo che il terzo set. Il quarto fu giocato punto su punto, l’equilibrio non si spezzò, fin quando Lucchetta riuscì a intercettare un pallone che diventa giocabile, fu alzato da Tofoli, perfetto per la fucilata di Bernardi, una schiacciata solamente deviata dal muro cubano.
Italia campione del Mondo per la prima volta, Lucchetta eletto miglior giocatore del torneo, Gardini che esulta salendo sul seggiolone dell’arbitro, inaugurando una tradizione, ma ci sono anche Zorzi, Tofoli, Anastasi, Giani, fino ad arrivare all’allenatore Julio Velasco, soprannominato “Giulio Cesare”. E’ stata la Nazionale di volley più forte di sempre con una piccola eterna pecca: non aver mai vinto un’Olimpiade.
Dopo gol segnati “di piloro, di pomo d’Adamo, di polpaccio, di capelli e di chiappa” Totò Schillaci ha sbagliato nella finalina contro l’Inghilterra “un gol a quindici centimetri della porta perché la palla gli è arrivata sulla parte sbagliata del corpo: il piede”. Cuore Mundial ci scherza su la prima mattina in cui non potrà seguire una notte magica, ma sembra interpretare un pensiero diffuso. Adesso che tutto è finito, adesso che non devono più fare appello a quegli occhi spiritati per veder andare avanti la maglia azzurra, i tifosi italiani, da Milano a Bari, da Venezia a Genova possono finalmente chiedersi come sia stato possibile che quella “pippa”, quel venticinquenne che è in A solo da un anno, quel “terrone” di Schillaci sia diventato capocannoniere al Mondiale? Solo in Sicilia questo dubbio non sfiorerà mai nessuno, neanche nelle stagioni successive, in cui Re Totò non riuscirà a ripetere quanto fatto nel 1990. Ma attenzione, perché quell’anno solare contiene in piccolo tutta la parabola descritta dalla carriera dell’attaccante nativo di Palermo, e non solo il suo apice.
Totò Schillaci, che l’anno prima è stato capocannoniere della Serie B con la maglia del Messina, è stato acquistato dalla Juventus per volere di Boniperti ed è subito diventato un titolare inamovibile. Non è dotato di classe sopraffina, ma è tenace, guizzante e ha fiuto del gol. O, se non altro, gli va spesso bene. Il primo acuto dell’anno solare 1990 è datato 14 gennaio. Contro la pericolante Hellas Verona la Juventus soffre, ma vince in rimonta proprio grazie a un gol di Schillaci a pochi minuti dal termine. La squadra di Zoff diverte e, anche se in campionato si prende troppe pause che non le consentono di lottare per lo scudetto, si porta a casa Coppa Italia e Coppa Uefa, primi trofei da quando Trapattoni è andato via.
Totò, dal canto suo, convince Vicini a farlo debuttare in nazionale a Basilea, nell’ultima amichevole ufficiale prima di Italia 90. Il buon Azeglio crede che l’entusiasmo del piccolo siciliano possa giovare alla sua Italia e lo aggrega al gruppo dei ventidue scelti per la fase finale del Mondiale. Però, una brutta prestazione contro la Grecia a Perugia, in un incontro che è poco più che un allenamento, convince il ct a riservare all’attaccante della Juventus un posto in panchina (che non è poco visto che tal Roberto Mancini sarà spedito in tribuna). I fischi che piovono per lui dagli spalti del Curi non rappresentano niente di particolarmente odioso per uno che tutti i giorni a Torino si sente chiamare “terrone”. E per fortuna non lasciano traccia.
Capita, infatti, che il 9 giugno, il giorno dell’esordio contro l’Austria, l’Italia giochi bene, ma non riesca a sfondare. Vicini prova, allora, a pescare il jolly e al 75′ manda Schillaci in campo al posto di un comunque positivo Andrea Carnevale. Tacconi, altro juventino conscio di doversi fare tanta panchina durante il Mondiale, prova a riciclarsi aruspice e predice un gol del suo compagno di club. Fatto sta che dopo appena quattro minuti Vialli s’invola sulla destra, crossa e la testa di Totò manda la palla in gol. Vittoria, tutti per le strade, ovazioni per il primo siciliano decisivo in maglia azzurra dopo Anastasi e la certezza di avere in panchina una mascotte che potrebbe anche segnare. La svolta, però, arriva al 51′ di Italia-Stati Uniti, secondo match degli azzurri.
Quello del 1990, in Italia, non fu un grande Mondiale per il Brasile che raggiunse senza colpi eclatanti gli ottavi di finale, uscendo sconfitto dall’Argentina, con un score misero di quattro reti segnate in tutto il torneo. Solo una volta fece di peggio, sempre in Italia, nel 1934: segnò solo una rete, ma era un torneo diverso con 16 squadre con scontri a eliminazione diretta dove i verdeoro vennero battuti dalla Spagna per 3-1.
Immaginare una Coppa del Mondo senza il Brasile, per gli italiani che nell’estate di inizio ’90 si ritrovarono al centro dell’universo, era un’eventualità inammissibile. Eppure i Pentacampeão si ritrovarono con il pass in mano solo dopo un “testa a testa”sanguinolento – in tutti i sensi – contro il Cile. Una farsa, una messa in scena tanto teatrale quanto quasi ben riuscita. E di un involontario “eroe”, un fotografo che era lì al momento giusto.
Era il 3 settembre 1989. Brasile e Cile, entrambe nel Gruppo C sudamericano assieme al Venezuela, si giocavano al Maracanã l’accesso alla fase finale dei Mondiali italiani. Ai verdeoro sarebbe stato sufficiente un pareggio per staccare il biglietto, mentre per gli andini era necessaria una vittoria a tutti i costi. La partita, manco a dirlo, si preannunciava caldissima e ostile come del resto era stato il match d’andata a Santiago del Cile il 13 agosto, che diventò subito una corrida, ma dalla quale il Brasile riuscì a portare a casa un prezioso pareggio con l’autorete di Hugo Gonzalez che il Cile annullò con la punizione di Ivo Basay.
La gara di ritorno, carica di aspettative e di tensione si giocò davanti a 160mila spettatori. Il primo tempo si chiuse sullo 0-0. Il Cile avrebbe dovuto ostinatamente trovare la rete del vantaggio, ma fu Careca a inizio ripresa, a portare avanti il Brasile. Passarono una ventina di minuti e al 69’ ecco l’evento che cambiò la storia del Cile, di tutta la popolazione tifosa e di alcuni calciatori.
Dalle tribune qualcuno lanciò un bengala che cadde a pochi metri dalla porta del cileno Roberto Rojas, soprannominato il “Condor” La situazione apparve subito grave: il portiere si rotolava a terra, con i guantoni, a coprire il volto, che pian piano diventarono rossi. Perdeva sangue dalla fronte. I suoi compagni di squadra iniziarono a gridare “Assassini” all’indirizzo della torcida brasiliana. Rojas venne sollevato di forza e portato immediatamente negli spogliatoi, mentre l’arbitro argentino Loustau, che fino a quel momento non si era avvicinato per verificare la situazione, venne raggiunto da Fernando Astengo che preannunciò: «La mia squadra non rientrerà in campo».
Il match venne sospeso al 70’, ma la storia è a metà svolgimento: il Cile presentò ufficialmente un esposto alla Fifa chiedendo la vittoria a tavolino, condizione che, classifica alla mano, avrebbe garantito il viaggio in Italia. Per i brasiliani, invece, si trattava di un clamoroso imbroglio. Regnava il caos: il Brasile non aveva in mano delle prove evidenti, le telecamere ripreso il momento e anche i fotografi persero l’attimo. Tutti tranne uno: il reporter Ricardo Alfieri, che lavorava per un giornale giapponese, è riuscito a immortalare 4-5 scatti che mostravano come il bengala fosse caduto dietro a Rojas, a una certa distanza dal portiere cileno e che Rojas, anziché allontanarsi dal fumo, vi si avvicinava, iniziando a sanguinare solo qualche decina di secondi dopo la caduta del fumogeno.
Venne così formata una apposita commissione, la Commissione Mosquera, con lo scopo d’indagare sugli avvenimenti dell’incontro del Maracanã, ma poco dopo fu proprio il portiere cileno a vuotare il sacco:
Mi sono ferito da solo…inserii in un’intercapedine del guanto sinistro un piccolo ma affilato bisturi. In campo l’attimo propizio arrivò quando una tifosa della torica lanciò il bengala. Fu a quel punto che estrassi il bisturi e mi ferii al capo
Negli spogliatoi Astengo che era d’accordo, fece sparire i guanti e occultò il bisturi. Il Cile che si era da poco liberato dalla dittatura di Pinochet cadde in un incubo imbarazzante. La reazione della Fifa fu durissima ed esemplare: il Condor venne squalificato a vita e il Cile fu squalificato per Italia ’90 ed escluso dalle qualificazioni a Stati Uniti 1994. Rojas venne anche cacciato dal club nel quale militava in quel periodo, i brasiliani del São Paulo.
Dopo una richiesta ufficiale di perdono, la Fifa gli ha concesso la grazia nel 2001 e poco dopo è tornato nel club brasiliano come allenatore delle giovanili. In squadra aveva un promettente giocatore su cui ha puntato molto e creduto in lui, Kakà:
Era il minimo che potessi fare per ottenere il perdono dai brasiliani