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Lo stemma del Liverpool è una piccola gemma tra i loghi del mondo sportivo e calcistico. Fondato nel 1892, il club rosso di Liverpool nel 1901 adotta come simbolo idenditario il Liver Bird, l’uccello mitologico metà cormorano metà aquila riprodotto in due statue di bronzo che svettano sulle torri maestose del municipio della città.
Nel corso dei decenni, lo stemma della squadra ha subito modifiche; oggi, invece, vediamo il Liver Bird dentro uno scudo, mentre in cima campeggia il cancello dello stadio Anfield dedicato allo storico allenatore Bill Shankly e la scritta You’ll Never Walk Alone (Non camminerete mai soli), che è anche il titolo dell’inno ufficiale. Lo sguardo, però, si sofferma ai lati dello scudo: ci sono due fiamme, due bracieri e sono a ricordo delle vittime della strage di Hillsborough.

 

Quindici aprile 1989. E’ in programma la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest allo stadio Hillsborough di Sheffield. Ben 96 tifosi del Liverpool perdono la vita schiacciati, calpestati, in uno degli incidenti più terribili nella storia sportiva. 94 morti, più un ragazzo deceduto quattro giorni dopo in ospedale e un altro quattro anni dopo, quando gli staccarono un respiratore artificiale. Ecco come:

 

Alla tifoseria del Liverpool era stata assegnata la Leppings Lane, settore a sinistra della tribuna centrale, che conteneva 14.600 posti, lasciando alla tifoseria del Nottingham Forest, che normalmente aveva meno seguito, la più capiente curva opposta, la “Spion Kop End”, che disponeva di 21.000 posti. Migliaia di tifosi dei Reds presero d’assalto Sheffield, in un’atmosfera gioiosa tipica di una semifinale di coppa nel calcio Inglese, per sostenere i propri beniamini: oltre al prestigio che la FA Cup ha sempre avuto nel calcio inglese e la rivalità esistente tra le due tifoserie, si aggiungeva il fatto che all’epoca i club inglesi erano esclusi dalle Coppe europee in seguito alla strage dell’Heysel, pertanto il campionato inglese risultava poco avvincente (non esistendo la “zona UEFA” il torneo destava interesse esclusivamente per i club coinvolti nella lotta per il titolo e per la zona retrocessione).

 
La Leppings Lane possedeva appena 6 ingressi (contro gli oltre 60 del settore riservato ai tifosi del Nottingham Forest) e l’afflusso verso gli spalti procedeva molto a rilento (ad appena mezz’ora dal calcio d’inizio il settore era ancora mezzo vuoto). A quindici minuti dall’inizio la massa di persone che premevano fuori dallo stadio era ancora enorme, cosicché la polizia pensò di aprire il “Gate C”, un grosso cancello d’acciaio posto all’ingresso di un tunnel che conduceva all’interno della Leppings Lane e agli ingressi laterali.

L’idea si rivelò catastrofica: mancando ormai pochissimi minuti al fischio di inizio, i tifosi ancora fuori dallo stadio iniziarono ad accalcarsi al Gate C della Leppings Lane che permetteva accesso solo alla parte centrale della curva, la cui capienza era limitata a 2.000 posti; così, mentre questo settore della curva iniziò a riempirsi all’inverosimile, la marea di gente che continuava ad affluire dal Gate C si ritrovò chiusa dentro una sorta di imbuto. In breve gli spettatori che già si trovavano all’interno della Leppings Lane furono schiacciati verso le pareti laterali e le recinzioni che dividevano gli spalti dal campo (particolarmente resistenti perché concepite per resistere ad eventuali cariche degli hooligans, in ossequio alle normative introdotte dal governo inglese dopo la tragedia dell’Heysel) e la stessa sorte toccò agli sventurati che si trovavano ancora nel tunnel del Gate C.


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 Mentre nella curva si scatenava il panico, la gara iniziò regolarmente, senza che nessuno in campo e negli altri settori dello stadio si fosse minimamente accorto di cosa stesse avvenendo nella curva del Liverpool. In realtà di coloro che per evitare lo schiacciamento avevano scavalcato l’inferriata che separava la Leppings Lane dal terreno di gioco. Peraltro non avendo compreso ciò che stava realmente accadendo, la polizia prese l’iniziativa di intervenire con delle cariche volte ad impedire ai tifosi di invadere il campo.

La situazione, se possibile, si fece così ancor più drammatica per i tifosi che, da un lato si trovavano schiacciati dalla calca che si era venuta a creare alle loro spalle, dall’altro venivano contrastati dalla polizia che impediva loro la possibilità di aprire delle vie di fuga. Solo dopo alcuni tragici minuti la polizia si rese conto del vero motivo dell’invasione e aprì le inferriate, lasciando finalmente ai tifosi del Liverpool la possibilità di raggiungere il terreno di gioco. Ma a quel punto, con la Leppings Lane meno piena, tutti cominciarono a capire quanto terribile fosse la portata del dramma.

 

 

La strage dell'Hillsborough | Storie di Calcio

Fu allora che l’arbitro sospese la partita. Erano le 15.07Sette minuti dal fischio d’inizio. Il calcio, banalità concessa, non ha dimenticato. Liverpool non ha dimenticato. Steven Gerrard, storico capitano “Reds”, uno nato a Whiston nel Merseyside, non ha dimenticato. Perché in quella tragedia morì suo cugino. E perché su quella tragedia, i tabloid, in particolare il Sun, hanno sputato sin dal giorno successivo. «Alcuni stessi tifosi hanno derubato le vittime. Alcuni hanno urinato sui loro corpi», si legge in prima pagina con tanto di titolo da strillonaggio: «THE TRUTH».

Un’inchiesta farlocca, voluta dal Governo conservatore, voluto dalla Thatcher. Un sciacallaggio che ha offeso i parenti delle vittime e di tutti coloro che fino alla fine hanno spinto per la “vera verità”. Rinata nel 2012 dopo che una petizione popolare ha obbligato il Governo a riaprire la pratica. E’ emerso che molte delle responsabilità sono da attribuire alla scelleratezza della polizia, che i medici prelevarono sangue anche dai bambini pur di confermare la tesi alcolica e che molte persone potevano ancora essere salvate, ma invece furono frettolosamente dichiarate morte per asfissia irreversibile.

Dopo 23 anni, il Sun ha chiesto scusa. Ma nei pub e nelle edicole dall’accento scouse, il Sun non lo si legge più…dal 15 aprile 1989. 
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E’ la maledizione dalle grandi orecchie. E’ la Coppa che perseguita i peggiori incubi della squadra più blasonata d’Italia. E al dramma sportivo delle 7 finali perse si è anche accompagnata la tragedia vera e propria. Lambita lo scorso anno nella ressa di piazza San Carlo a Torino, con una vittima e oltre un migliaio di feriti. Deflagrata, con un copione terribilmente simile, il 29 maggio 1985.

Stadio Heysel, oggi Re Baldovino, Bruxelles. E’ la terza finale per i bianconeri di quella che oggi chiamiamo Champions League. E’ andata male la prima nel 1973, contro l’Ajax all’ultimo svincolo del suo calcio totale. Sogno svanito anche dieci anni dopo, con la beffa del gol di Magath per l’Amburgo ad Atene.

Questa volta sembra essere l’occasione giusta. Deve esserlo. E’ la Juve di Trapattoni con Platini e Boniek, Rossi e Tardelli, Scirea e Cabrini. Avversario è il Liverpool campione uscente, di Rush e Dalglish, di quel Grobbelaar che dodici mesi prima ha ipnotizzato i rigoristi della Roma nella finale dello stadio Olimpico.

La Juventus vincerà quella Coppa con un rigore inesistente concesso dall’arbitro svizzero André Daina e trasformato da Michel Platini. Ma sarà una vittoria arrivata al termine di una serata drammatica, violenta, incredibilmente insanguinata con 39 morti e centinaia di feriti. La furia omicida degli hooligans inglesi trovò la complicità dell’inadeguatezza di un impianto fatiscente, di un’organizzazione incapace e di una federazione internazionale, l’Uefa nello specifico, assolutamente irresponsabile. Disse Michel Platini ricordando quella tragica finale: Quando cade l’acrobata, entrano i clown. La voce di Bruno Pizzul raccontò a milioni di telespettatori italiani la tragedia in diretta televisiva.

Pubblichiamo un estratto del libro Heysel, le verità nascoste” (2010, Bradipo Libri) del giornalista Francesco Caremani con prefazione di Walter Veltroni.

Scrive Roberto Beccantini nell’introduzione:

(…) Al di là dei risarcimenti, e del poco o molto che è stato fatto, non bisogna mai arrendersi all’inerzia. L’Heysel è un peso che ci portiamo dentro. Non riusciremo mai ad appoggiarlo da qualche parte. Non sarebbe neppure giusto. Trentanove morti per una partita di calcio. Forse (anche) per biglietti smerciati alla carlona, sicuramente per ubriachezza molesta e carenza di ordine pubblico. La campana del destino prima o poi suona per tutti, ma quando i rintocchi assordano uno stadio, non resta che ribellarsi (…)

Le parole di Walter Veltroni:

(…) Avvenne, a Bruxelles, ciò che in molti avrebbero potuto facilmente prevedere ed evitare, e non vollero o non seppero farlo. Quel giorno lo stadio del gioco diventò lo stadio della morte, una morte trasmessa in diretta e in mondovisione. Una morte che si mescolò col gioco del pallone (e per questo fu più crudele e più odiosa) che portò via il soffio della vita a chi avrebbe voluto semplicemente applaudire, vincere o perdere con la propria squadra, coi propri beniamini. E invece persero tutti, nonostante la coppa alzata, il giro del campo, nonostante i sorrisi, i ‘non sapevamo’, nonostante il gol. Nonostante la vittoria, persero tutti, in quella sera luttuosa all’Heysel, quando il battito del cuore improvvisamente cessò per trentanove persone. Erano italiani in gran parte, ma il necrologio riporta anche quattro nomi belgi, due francesi e uno irlandese. Il più giovane aveva undici anni e si chiamava Andrea. Seicento furono i feriti (…)

 

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 Otello Lorentini è padre di Roberto, medico di Arezzo, tra le vittime di quella serata. E’ stato tra i primi a battersi in prima linea per ottenere giustizia inchiodando l’Uefa alle sue responsabilità. Ha fondato ed è stato presidente dell’”Associazione fra le famiglie delle vittime di Bruxelles” Scomparso nel 2014, Francesco Caremani riporta la sua testimonianza di quei momenti:

(…) Otello Lorentini racconta a caldo quello che è successo, quello che ricorda, con molta lucidità: “È stata una tragedia voluta, provocata dall’incapacità degli organizzatori belgi, della polizia, dei responsabili della federazione internazionale. Denuncio queste lacune imperdonabili. È inconcepibile spezzare in questo modo la vita di un uomo di trent’anni. Qualcuno deve pagare. Io ho già pagato: ho perso un figlio… Prima che cominciassero le cariche degli inglesi ero abbastanza tranquillo. A un certo punto ho visto che nella zona della curva erano rimasti solo dieci poliziotti. Entrava troppa gente. Gli inglesi hanno iniziato ad agitarsi. Sempre di più. Un sasso l’ho fermato con il giornale. Andiamo via, ho detto a mio figlio e ai nipoti. Gli inglesi hanno smontato la rete di divisione e ci hanno tirato addosso di tutto: pezzi di ferro, lattine, proiettili di cemento. E hanno caricato per la prima volta. Il nostro gruppo ha cominciato ad arretrare in maniera paurosa. C’erano donne e bambini, nessuno se la sentiva di accettare gli scontri. La polizia non interveniva. Noi eravamo a metà della curva. Vedevo il muro sempre più vicino. Mi sono attaccato alla colonna di una traversina. Roberto era attaccato a me. Andiamo via, gli ho urlato. Sì, sì mi ha risposto. Poi è arrivata un’altra ondata di tifosi caricati dagli inglesi. Mi sono girato e ho visto che Roberto non c’era più. Era sparito, ingoiato dalla folla. L’ondata di gente mi è passata accanto. È seguito un attimo di calma: mi sono buttato verso il campo. Era impossibile mettersi tutti in salvo: le sole due uscite erano le due porticine di un metro scarso, una delle quali si apriva solo verso l’esterno. Sotto la spinta della folla in fuga sono crollate anche le architravi di cemento. Ho visto un varco libero e mi sono lanciato in avanti. Una volta in campo ho preso ad agitare una sciarpa e a chiamare. È stato lì che ho visto mio nipote Andrea con le mani nei capelli. Mi sono avvicinato: Roberto era rimasto sulle gradinate. Morto, schiacciato. Aveva un graffio sulla fronte. Cosa dovevo fare? Accanto a noi c’era un mucchio di corpi senza vita. È arrivato un poliziotto belga e ha cercato di strapparmi Roberto. Stavano portando via i morti. Mi sono ribellato, perché vedevo che li trascinavano senza rispetto. Sono arrivati altri due poliziotti. Questo è mio figlio, ho gridato, lasciatemelo. Poi, con i miei nipoti, abbiamo sollevato Roberto e lo abbiamo portato, noi, ai furgoni… Prima di lasciare lo stadio ho visto gli inglesi che si divertivano a lanciare in aria le cose dei morti: scarpe, borse, macchine fotografiche. Scene disgustose. Poi siamo usciti, ma era impossibile trovare un telefono, o un taxi. Ne abbiamo fermato uno quasi a forza e ci siamo fatti portare all’obitorio. Qui i belgi ci hanno costretti ad aspettare più di tre ore. Ci trattavano con arroganza: un comportamento scandaloso. Solo alle tre di notte ho rivisto il corpo di mio figlio e ho notato che non aveva più la catenina d’oro al collo e la fede. I belgi ci hanno detto che gliele avevano tolte per identificarlo. Ma non era vero: se le sono prese i poliziotti. Scriva che voglio denunciare le lacune di tutta l’organizzazione, la scelta di uno stadio inadeguato, il comportamento dei belgi. Solo l’ambasciatore italiano si è comportato molto bene con noi. Qualcuno deve pagare per la morte di mio figlio”. Basterebbero queste parole, basterebbe questa ricostruzione, ma purtroppo le meschinità in questa vicenda, gli sciacallaggi, i silenzi, i tentativi di eludere le responsabilità, di buttare tutto nel dimenticatoio il prima possibile e le promesse non mantenute hanno costellato ogni giorno dopo quel 29 maggio dell’85.

 

 

Il 5 settembre del 1972, poco dopo le 4 di mattina, un commando terroristico composto da otto palestinesi fece irruzione all’interno dell’abitazione israeliana situata nel villaggio olimpico in Connollystraße 31, dopo aver scavalcato una recinzione di appena 2 metri. Uccisero due atleti israeliani (Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano, sollevatore di pesi) che avevano tentato di fermarli, e ne sequestrarono altri nove.

L’epilogo è tragicamente noto: dopo una giornata di estenuanti e fallimentari trattative di negoziazione, la polizia tedesca provò a liberare gli ostaggi con un atto di forza all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, ma nella sparatoria che si innescò morirono tutti gli atleti, cinque terroristi ed un poliziotto tedesco.

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Fu una catastrofe senza precedenti all’interno di una manifestazione internazionale. Una nuova realtà di terrorismo si affacciò sulla scena mondiale sfruttando proprio l’Olimpiade come palco per mostrarsi al mondo intero.
Otto fedayyin armati di AK-47 e facenti parte dell’organizzazione “Black September”, col pretesto della mancata partecipazione della Palestina, sconquassarono i Giochi e destabilizzarono la polizia di Monaco. Manfred Schreiber curò in prima persona le trattative, ma si dimostrò impreparato commettendo una serie concatenata di errori tragici nella loro sciocchezza. Si badò all’aspetto estetico ignorando l’allarme di possibili azioni terroristiche perché, quelle del 72′, volevano essere le Olimpiadi della rinascita tedesca, dopo il periodo nero di Hitler.
Pochi controlli, 2000 agenti della polizia in borghese (le armi non dovevano essere visibili), forma di sicurezza passiva formata da volontari dell’Olys il cui compito era semplicemente quello di placare eventuali tafferugli. Nessuno doveva pensare ad una Germania militarizzata, dovevano regnare la pace, i colori e l’atmosfera festosa. Ma i giochi rappresentavano altresì l’occasione per atleti israeliani di partecipare nuovamente ad una manifestazione di tale portata, dopo i tragici anni dell’Olocausto, ma di questo nessuno se ne curò realmente.

 

 

Erano da poco passate le 6 di mattino, quando da una finestra dell’edificio, i terroristi lanciarono due fogli con su scritta la loro richiesta: scarcerare 234 palestinesi in Israele entro le ore 9.00. Schreiber fu abile nel prorogare più volte la scadenza fino alle 17.00, mentre da Israele non giunsero mai segnali incoraggianti: infatti, Golda Meir, l’allora Primo Ministro, sin da subito si rifiutò di accettare una simile pretesa.
Nel frattempo intorno alle 11.00, a causa delle pressioni del pubblico e dei media, i Giochi furono ufficialmente sospesi, mentre un funzionario olimpico, Walther Tröger, ottenne il permesso di entrare nell’abitazione per controllare lo stato di salute degli atleti rapiti.
In realtà il suo scopo era quello di contare il numero di palestinesi armati (secondo lui 5), unica informazione per poter programmare un’azione offensiva che avrebbe previsto l’irruzione a sorpresa di un nucleo di tredici agenti utilizzando i condotti di ventilazione posti sul tetto dell’edificio.

 

 

Ma con i Giochi sospesi, folle di curiosi si riversarono in prossimità dell’edificio in Connollystrasse, e con loro una nutrita schiera di giornalisti e reporter che raccontavano e riprendevano in diretta quanto stesse accadendo. Nulla di più sbagliato. Nelle fasi concitate della preparazione dell’assalto, Schreiber si dimenticò completamente di isolare e liberare la zona (i terroristi potevano sparare sulla folla in qualsiasi momento) e il maldestro e goffo risultato fu che l’intera operazione fu ripresa in diretta dalle telecamere, consentendo anche ai terroristi, che all’interno dell’appartamento stavano osservando la TV, di venire a conoscenza del piano minacciando, così, di uccidere gli ostaggi immediatamente.

 

 
La svolta arrivò poco dopo le 17.00, quando Issa, leader del gruppo terroristico (nonché infiltrato come operaio durante la costruzione delle strutture olimpiche), avanzò la richiesta di trasferimento con gli ostaggi all’aeroporto del Cairo per poter continuare da lì le trattative.
Consci dell’assenso negato dalle autorità egiziane, la polizia, con l’idea di provare un’ultima volta a salvare gli atleti, assecondò il volere dei terroristi ed ordinò il loro trasferimento, attraverso 2 elicotteri, all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, a pochi chilometri da Monaco, dove avrebbero trovato un Boeing 727 della Lufthansa.

Il piano prevedeva che all’interno dell’aereo, camuffati da piloti e membri della compagnia, un gruppo di poliziotti avrebbe dovuto uccidere Issa ed il vice, mentre cinque cecchini posti sulle torri avrebbero dovuto uccidere gli altri tre terroristi. Ma il piano si rivelò ben presto un fallimento: mentre gli elicotteri erano prossimi all’atterraggio, il gruppo di poliziotti all’interno dell’aereo annullò l’operazione reputandola troppo pericolosa.
Il destino degli atleti era pertanto affidato ai soli cecchini (che in realtà non erano veri e propri tiratori scelti, in quanto al tempo nella Germania dell’Ovest, l’esercito non poteva essere chiamato per risolvere questioni all’interno del territorio) sprovvisti di infrarossi, di caschi protettivi, con poca luce a favore ed ignari sul numero reale dei terroristi (sapevano fossero ancora cinque).

Tale impreparazione fu fatale nei trenta minuti di fuoco che seguirono dalle 22.30 fino alle 23.00. I cecchini spararono alla cieca mentre i rinforzi arrivarono solo alle 24.00 quando oramai il destino era tragicamente segnato: i terroristi, capito l’inganno e circondati, uccisero tutti gli atleti.
L’assurdità dell’intera operazione trovò il suo drammatico apice quando, in un primo momento, radio e televisioni affermarono l’avvenuta liberazione degli atleti, salvo poi dover diramare la crudele realtà. Il giorno seguente, i Giochi ripresero il regolare svolgimento.

Nel 2012, a 30 anni dall’eccidio, mentre il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) si è dimostrato poco flessibile non lasciando troppo spazio ai ricordi durante le Olimpiadi di Londra, in Germania, dove ancora si avverte un senso di sconfitta per gli errori commessi, si è voluto ricordare quel giorno nefasto. Sul luogo dove 40 anni prima ci fu un bagno di sangue, un rabbino ha celebrato una messa alla quale hanno partecipato funzionari tedeschi, parenti delle vittime ed alcuni atleti israeliani sopravvissuti, uniti per ricordare Mark Slavin, Eliezer Halfin,David Berger, Ze’ev Friedman, Yossef Romano, Andre Spitzer, Moshe Weinberg, Amitzur Shapira, Yossef Gutfreund, Yakov Springer, Kehat Shorr.