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Che quelle di PyeongChang sarebbero state olimpiadi difficili, in Russia ne erano consapevoli tutti. Costretti a gareggiare sotto la bandiera neutrale dell’Oar (Olympics Atheletes from Russia) per via del cosiddetto “doping di Stato” risalente a Sochi 2014, per gli atleti russi, ancora a caccia del primo oro, i problemi sembrano non finire mai.

È di due giorni fa la notizia della positività al meldonio di Alexander Krushelnytsky, fresco vincitore della medaglia di bronzo nel curling doppio misto insieme alla moglie Anastasia Bryzgalova. Una storia poco chiara sin dall’inizio (il meldonio non influirebbe sulle prestazioni sportive, a maggior ragione in uno sport come il curling) che in queste ore si sta tingendo ulteriormente di giallo: lo stesso Krushelnytsky, in precedenza mai risultato positivo, ha infatti accusato un compagno di squadra di averlo sabotato versandogli nella bevanda la sostanza vietata per vendicarsi del fatto di non essere stato selezionato per le olimpiadi.

Sempre due giorni fa la campionessa di pattinaggio artistico, la quindicenne Alina Zagitova, è stata sottoposta ad un test antidoping a sorpresa, pochi minuti dopo aver iniziato gli allenamenti. Un modus operandi che non è stato gradito dalla delegazione russa, secondo la quale Alina avrebbe dovuto terminare la sua sessione di allenamento, prima di sottoporsi a tutti i controlli richiesti.

Intanto appare ancora lontana la risoluzione della controversia tra Russia e Comitato olimpico internazionale sul pagamento a quest’ultimo di una multa da 13 milioni di euro per finanziare la lotta al doping, un requisito che, insieme al rigoroso rispetto delle norme etiche avrebbe potuto riabilitare la compagine russa e permetterle di sfilare sotto le proprie insegne durante la cerimonia di chiusura.

Ma Mosca, come recentemente confermato dallo stesso capo delegazione russo a PyeongChang 2018, Stanislav Pozdnyakov, aveva già comunicato l’intenzione di pagare la sanzione dopo la cerimonia di chiusura, per avere la certezza di poter sfilare con i propri vessilli. Un braccio di ferro che nei prossimi giorni dovrà inesorabilmente concludersi, vedremo a favore di chi.

La conferma è arrivata in mattinata. Alexander Krushelnytsky, 25 anni, originario di San Pietroburgo e fresco vincitore della medaglia di bronzo nel curling doppio misto assieme alla moglie Anastasia Bryzgalova, è risultato positivo al meldonio alla prova B del test antidoping.

Già ieri era stata diffusa la notizia della non negatività del campione russo ad un primo test ed ora, dopo le definitive controanalisi, effettuate presso il laboratorio accreditato dell’agenzia mondiale antidoping a Seul, la Russia rischia non solo di perdere una medaglia ma anche di vedersi privata della possibilità di sfilare durante la cerimonia di chiusura con i colori della propria bandiera e con la divisa ufficiale preparata prima della sospensione da parte del CIO del 5 dicembre scorso.

Ricordiamo infatti che la Russia è stata esclusa dalle olimpiadi invernali di PyeongChang a seguito del cosiddetto “scandalo del doping di Stato”, ma 168 atleti sono stati dichiarati idonei a partecipare sotto la bandiera neutrale dell’OAR (Olympic Athlets from Russia).

Per quanto riguarda la sostanza incriminata, il meldonio, va precisato che esso viene venduto nei Paesi dell’est come farmaco per curare problemi cardiaci, ma non ha ricevuto il via libera dalla Food and Drug Administration negli Stati Uniti ed è stato inserito dal 1 gennaio 2016, dall’agenzia mondiale antidoping, nell’elenco delle sostanze vietate dall’ordinamento sportivo.

Secondo alcuni esperti e scienziati, come il lettone Ivars Kalvins, il meldonio non migliorerebbe le prestazioni atletiche ma «se parliamo di atleti di sesso maschile, molti di loro lo prendono allo scopo di migliorare le proprie prestazioni sessuali». Tra gli atleti sospesi in passato perché positivi al meldonio figura anche la tennista russa Maria Sharapova.

In attesa di reazioni ufficiali da parte del ministero dello sport russo, tra la delegazione presente in Corea del Sud trapelano rabbia ed incredulità. Il coach, Sergei Belanov ha dichiarato alla stampa:

 

Sarebbe una cosa stupida e Alexander non è uno stupido. Questa sostanza non dà alcun vantaggio nel curling e non credo che un giovane possa prendere un rischio del genere assumendo una sostanza dopante vietata da due anni

A pochissimi giorni dall’apertura dei Giochi Olimpici Invernali 2018, si discute ancora sulla presenza degli atleti russi alle gare.

Sembrava tutto ormai deciso e invece la decisione del Tas di Losanna, che ha scagionato diversi atleti per mancanza di prove nell’indagine antidoping effettuata dal CIO, ha dato inizio ad una serie di ricorsi che non accennano a diminuire neanche a due giorni prima del via.

A breve sarà decisa la sorte di 32 di loro, che hanno fatto ricorso per poter essere riammessi all’ultimo minuto ai Giochi. Tra loro spiccano nomi di grandi campioni, come Viktor Ahn, stella dello short track, e Anton Shipulin, biatleta campione olimpico in staffetta a Sochi 2014.

Insieme a Denis Airapetyan, Vladimir Grigoryev, Sergey Ustyugov e Ksenia Stolbova e tanti altri, attendono con ansia il responso della commissione di Pyeongchang. Ogni caso sarà trattato in maniera individuale per valutare le diverse situazioni, sempre tenendo conto della necessità di prendere una rapida decisione visti i tempi ristretti.

Ma i precedenti non fanno ben sperare. La stessa procedura, infatti, è già stata affrontata da altri 15 russi, 13 atleti e 2 tecnici, che nei giorni scorsi hanno presentato ricorso per la riammissione alle Olimpiadi. Purtroppo, nel loro caso la sorte non è stata benevola e il Cio ha respinto ogni richiesta.

Nonostante l’annullamento della squalifica a vita decretato dal Tas di Losanna, la commissione non ha nemmeno voluto esaminare i casi perché sussistono ancora dubbi sull’integrità sportiva di questi atleti. Secondo il Cio, infatti, il tribunale arbitrale non ha fornito loro motivazioni della sua decisione, necessarie per ritenere davvero puliti gli atleti presi in causa.

Alcuni di loro hanno presentato, quindi, nuovamente ricorso, come Alexander Legkov, campione olimpico di sci di fondo nel 2014, che attende risposta prima di venerdì.

Neanche la Russia ha accettato di buon grado questa decisione del Cio e il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha ripreso la questione del complotto contro il proprio paese che ritiene vittima di “violazione dei principi elementari della legge e delle regole olimpiche con lo scopo di rovinare persone e provocare un danno politico alla Russia”.

Non è una trovata pubblicitaria né una bufala: da qualche giorno si parla in maniera sempre più concreta del microchip per atleti.

Questa bizzarra proposta arriva dall’Associazione mondiale olimpionici (World Olympians Association- WOA), che vuole mettere la parola fine alle problematiche legate al doping fra gli atleti.

È lo stesso Mike Miller, direttore generale, che spiega il perché di questa idea di impiantare dei microchip a chi deve gareggiare, con queste parole:

Mettiamo dei chip ai nostri cani e non sono certo nocivi. Allora perché non metterli anche agli uomini? Dobbiamo combattere chi vuole imbrogliare e un modo per eliminare il doping dallo sport è sicuramente quello di utilizzare dei microchip muniti delle tecnologie più avanzate sui nostri atleti

Ma l’iniziativa non ha riscosso molto successo, soprattutto tra i diretti interessati che si sentono in questo modo deprivati della loro privacy.

Il fenomeno del doping nel mondo dello sport è considerato una vera piaga che getta ombre sulla trasparenza di una gara e stravolge in modo ingiusto le sorti di competizioni di grande importanza. Secondo l’Associazione mondiale olimpionici tutti dovrebbero appoggiare questa proposta, perché è un modo per assicurare la correttezza di tutti gli atleti e i risultati e i riconoscimenti ottenuti.

Ecco come replica Miller alle accuse di violare la privacy:

Dobbiamo affrontare i truffatori. Nel tentativo di sradicare il fenomeno doping dovremmo usare microchip dotati delle ultime e più avanzate tecnologie. Alcuni ritengono sia una violazione della privacy, io dico che è un club e coloro che non vogliono essere soggetti alle regole del club non possono farne parte

Attraverso il microchip sottopelle sarebbe possibile scoprire tutte le truffe in atto o passate degli atleti che fanno i furbi e l’obiettivo è non soltanto quello di smascherare gli scorretti ma anche monitorare tutta la categoria.

Gli ex partecipanti ai giochi olimpici che rappresentano i membri di questa associazione ne sono convinti: il doping va fermato con ogni mezzo, anche se si tratta di utilizzare mezzi tanto radicali e per alcuni anche estremi.

Non solo gli atleti, però, hanno reagito male di fronte questa eventualità del microchip. Nemmeno l’amministratore delegato dell’anti-doping britannico, Nicole Sapstead, approva l’idea perché lo ritiene un metodo troppo invasivo.

Ecco la sua replica:

Accogliamo con favore gli sviluppi verificati nella tecnologia che potrebbero aiutare la lotta contro il doping. Tuttavia, non potremmo mai essere sicuri che questo tipo di metodologie non possano essere manomesse. Esiste un equilibrio tra il diritto alla privacy e la dimostrazione che sei pulito. Noi incoraggiamo attivamente ricerche più precise e meno invasive che possano aiutare le organizzazioni anti-doping nei loro sforzi

Si preannuncia una questione scottante che sicuramente non sarà risolta in breve tempo: troppe opinioni discordanti e troppi interessi in gioco ruotano attorno alla lotta contro il doping. Nel frattempo che si decidono le sorti degli atleti, si continuerà con i classici controlli ai quali sono da sempre sottoposti gli sportivi prima e dopo ogni competizione.