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1994

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Era il quinto rigorista designato nel Brasile nella lotteria dei calci di rigore, contro l’Italia, nella finale dei Mondiali del 1994 negli Stati Uniti d’America. Un rigore che, Bebeto, non ha mai calciato perché non ce ne fu bisogno, dopo l’errore di Roberto Baggio che andò ad aggiungersi a quelli di Franco Baresi e Daniele Massaro.
Il suo, personale, Mondiale, non verrà ricordato per quel non-rigore, ma per un’esultanza, spontanea e istintiva che ancora oggi è icona emulata sui campi da calcio, da quelli professionisti a quelli di periferia.

Era il 62’ di Brasile – Olanda, quarti di finale. I Verdeoro avevano sbloccato il match 10 minuti prima con Romario, ma è proprio il brevilineo centravanti che al tempo giocava in Spagna, nel Deportivo de La Coruña, a realizzare la rete del raddoppio, insinuandosi tra i due centrali Oranje e dribblando il portiere Ed de Goey.

Poi l’esultanza: con le mani unite fa finta di cullare un bebè. Una dedica speciale, al suo terzo figlio, nato due giorni prima, il sette luglio 1994. Fu istintivo e non programmato, ma Mazinho e Romario lo affiancarono creando un movimento ritmico e ipnotico che solo il sangue brasiliano sa alimentare.
Il match si concluderà poi 3-2 per i brasiliani, con la terza rete messa a segno da Branco, nonostante la rimonta olandese firmata Dennis Bergkamp e Aron Winter.

Ecco, 23 anni dopo quel bebè che tutto il mondo conobbe per l’esultanza del padre ha firmato con lo Sporting Lisbona. Mattheus è un calciatore professionista che si è fatto tutta la trafila nel Flamengo prima di volare in Europa, in Portogallo, acquistato dall’Estoril nel 2015.

 

E’ lo stesso Bebeto, ad annunciare su Twitter, il cambio di maglia di suo figlio pronto a fare il salto di qualità: per lui, infatti, un contratto di cinque anni con i Leões che l’hanno acquistato per un milione di euro.
Figli predestinati crescono…

 

 

Venticinque anni fa, il 13 novembre 1994, Michael Schumacher toccava il cielo con un dito, laureandosi per la prima volta campione del mondo, primo tedesco a riuscirci, in quello che sarebbe stato il primo di sette successi iridati della sua carriera. Al Gp di Adelaide, in Australia, ultimo atto di una stagione tesissima e drammatica che vide le morti di  Ayrton Senna e Roland Ratzenberger, il giovane pilota schivo ma tremendamente deciso in pista, arrivò con un solo punto di vantaggio, 92 a 91, davanti a Damon Hill che, dopo la morte di Senna a Imola, beneficiò delle necessarie modifiche che Adrian Newey apportò alla complicata Williams FW16. Il testa a testa tra il tedesco e l’inglese figlio d’arte, che si era protratto non senza “colpi bassi” sulle piste europee, trovò il suo epilogo solo all’ultimo appuntamento ad Adelaide che riservò ulteriori emozioni e polemiche.

L’attesa a inizio stagione 1994 fu, però, tutta polarizzata sulla sfida fra Schumacher e Senna, appena passato alla Williams. Sin da subito si intuisce la stoffa del tedesco che fece il primo sgarbo al fuoriclasse brasiliano andando a vincere a casa sua, Interlagos, nel GP d’esordio della stagione. Dopo il Gran Premio nefasto di Imola fu sempre monologo Schumi che calò il poker due settimane più tardi nel GP di Monaco, prima affermazione del tedesco nel Principato. Bisognerà attendere la quinta gara, in Spagna, per avere un vincitore diverso da Schumacher. In Catalogna vinse Damon Hill, mentre il tedesco, che accusò problemi al cambio alla sua Benetton, chiuse secondo.

Da qui si spalancò un’altra differente stagione: a Silverstone, Schumacher venne squalificato per una manovra irregolare e per non aver rispettato le penalità inflitte: gli furono comminati due GP di stop, mentre nel circuito di casa, in Germania, la sua Benetton lo lasciò a piedi, costringendolo al primo ritiro stagionale. Nonostante tutto, ad agosto, il tedesco aveva 31 i punti di vantaggio sul britannico in classifica iridata, ma i guai per il pilota nato a Hürth non finiscono perché venne nuovamente squalificato postumo per irregolarità nel fondo della sua Benetton. Il successo venne quindi assegnato a Hill, che accorciò le distanze. Schumi fu costretto ad assistere ai GP di Italia e Portogallo in televisione, insieme alla sua famiglia e qui Hill fece bottino pieno: due successi che lo riportarono a -1 in classifica, in piena corsa per il titolo.

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Si arriva così al 13 novembre, in Australia la pole position è di Nigel Mansell, però Michael Schumacher, secondo nelle qualifiche e uscito anche indenne da un brutto incidente nelle prove del venerdì, è il più rapido al via portandosi subito al comando, e nella prima parte di gara riesce a rimanere in testa facendo un tira e molla con Hill, mantenendo un vantaggio sull’inglese attorno al secondo. Al 36º giro, però il tedesco commette un errore andando a toccare un muro; dopo l’urto rientra in pista mentre sopraggiunge Damon Hill che tenta il sorpasso nella successiva curva a destra. Schumacher chiude la traiettoria, Hill non riesce a evitare il contatto col tedesco che finisce la sua gara nelle barriere, mentre l’inglese danneggia la monoposto in maniera irreparabile (piegando una sospensione), impossibilitandolo a procedere oltre, nonostante una disperata quanto inutile sosta ai box.

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Tale incidente, che per certi versi ricorda i duelli “fisici” tra Senna e Prost nel biennio 1989-1990, suscita grandi polemiche sulla condotta di Schumacher, ma la FIA classifica l’incidente come un normale episodio di gara, non riscontrando prove di una intenzionalità del contatto da parte del tedesco. Schumacher che aveva 1 punto di vantaggio all’inizio del GP, lo mantiene grazie a questa collisione e si aggiudica il suo primo titolo mondiale, che nella conferenza stampa post-gara dedicherà ad Ayrton Senna. Il comando della gara è poi preso da Nigel Mansell, il “Leone”, tallonato dalla Ferrari di Berger, competitiva in gara dopo delle difficili qualifiche. Nei pit-stop l’austriaco passa in testa, ma un errore a poche curve dalla fine concederà l’ultima vittoria all’inglese della Williams.

Se il Mondiale del 1998 non si fosse giocato in Francia, probabilmente non avremmo mai assistito al leggendario gol di Dennis Bergkamp contro l’Argentina. Vale sempre la pena rivederlo:

E’ una rete metafisica che si pone al di là della realtà per equilibrare il giusto senso delle cose. Perché è arrivata al minuto 89 di una partita tosta, bloccata sull’1-1. Perché erano i quarti di finale contro la Nazionale sudamericana. Perché se si segna una prodezza del genere, in un Mondiale, sei destinato a rimanere scolpito nei ricordi dei bambini che crescono con la magia negli occhi e la tramandando, da adulti, ai loro figli o nipoti.
C’è il lancio tagliente di Frank de Boer, c’è lo stop irreale dell’ex Ajax, Inter e Arsenal, c’è la palla che muore lì, in quell’istante, uncinata dal piede destro, c’è il tocco a rientrare che manda in tilt il difensore Ayala, uno dalla marcatura stretta e rognosa, e c’è il colpo d’esterno a trafiggere il portiere Roa.
C’era tutto, ma mancava solo una cosa: lo spazio per poter fare un’azione del genere.

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Ma soprattutto, per fortuna, c’era Dennis Bergkamp. La carriera calcistica dell’olandese è legata alla sua aerofobia, ovvero la paura di viaggiare in aereo. Un trauma che si è manifestato in un altro Mondiale, quello precedente del 1994 negli Stati Uniti d’America.
La Nazionale Oranje era in volo, assieme a staff tecnico e giornalisti e proprio uno di questi, tra scherzo e goliardia, disse: «C’è una bomba». Non c’era, forse, da dargli troppo peso, volarono qualche risata, qualche parolaccia, passato lo spavento iniziale. Ma da quel momento, Bergkamp non avrebbe più preso un volo.

Un trauma sul quale pesava una brutta esperienza giovanile. Durante una tournée con l’Ajax, nei pressi del vulcano Etna, ci fu una massiccia turbolenza: l’aereo precipitò, seppur per frammenti di secondo, per poi riprendere quota. Un fatto che aveva segnato il giovane biondo olandese glaciale sul campo. Panico e stress che diventarono successivamente fobia con l’episodio del 1994.

Ed è per questo che riuscì a essere presente al Mondiale francese ed è anche per questa sua paura che saltò il Mondiale del 2002, quello in Corea del Sud e Giappone, quando aveva ancora 32 anni dato che era impossibile organizzare uno spostamento via terra.
Se nella mitologia folcloristica intere pagine sono state scritte sul vascello fantasma, il tetro Olandese Volante, nel calcio Dennis Bergkamp verrà per sempre ricordato come “l’olandese non volante”.

Negli Stati Uniti a giugno fa così caldo ed è così umido che i giocatori dell’Arabia Saudita si sentono a loro agio, molto più dei colleghi delle altre squadre. Poi nella rosa dei ventidue che agli ordini dell’argentino Jorge Solari sbarcano in terra americana c’è anche il Pelé del deserto, al secolo Majed Ahmed Abdullah Al-Mohammed, l’attaccante ormai trentaquattrenne che ha guidato l’Arabia Saudita alle vittorie in Coppa d’Asia nel 1984 e nel 1988 e alla storica qualificazione ai campionati del mondo.
Tutte le premesse per far bene ci sono. Infatti, all’esordio l’impresa al cospetto dell’Olanda svanisce per un soffio: sauditi in vantaggio con un colpo di testa di Amin, raddoppio sfiorato proprio dal Pelé arabo, pareggio di Jonk con un gran tiro da fuori e, quando tutto sembra ormai incanalato verso il pareggio, un errore di Al-Deayea spiana la strada all’appena entrato Taument. La vittoria non tarda ad arrivare nel secondo match contro il Marocco, ma è il centrocampista tuttofare Amin con un velenoso tiro dalla distanza (e non Majed) a regalarla. Per l’ultimo match si attende il Belgio già qualificato. La partita è in programma il 29 giugno al Robert F. Kennedy Memorial Stadium di Washington, alle 12 e 30 ore locali sotto un caldo asfissiante (43 gradi!).
Un pareggio promuoverebbe gli esordienti arabi agli ottavi e sarebbe già un risultato insperato. Ma evidentemente la convinzione nei propri mezzi fa così brutti scherzi che la nazionale in bianco e verde quella partita addirittura la va a vincere. E in che modo!

Quinto minuto e Diego Armando Maradona prende le sembianze di Saeed Al-Owairan…

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Il suo unico vero errore durante il Mondiale negli Stati Uniti nel 1994? Beh, girare un’imbarazzante spot per l’Ip, la vecchia Italiana Petroli.
Ironia, tanta ironia, al punto da dimenticarsi del rigore fallito dagli 11 metri più importanti della sua vita. E anche della nostra. Contro il Brasile, in finale a Pasadena. Vien da sorridere perché, in fondo, a quel Mondiale, Sacchi, l’Italia e noi italiani ci siamo aggrappati per il “codino”. Roberto Baggio trascinatore di una spedizione, alla fine, fallimentare.

Ma il Baggio che gira la pubblicità per l’Ip e che viene sapientemente caricaturizzato dalla parodia di Guzzanti, altro genio assieme al numero 10, ci porta nell’altra dimensione della comunicazione. La società contemporanea non rimaneva impassibile: lui spostava gli equilibri della Serie A  e spostava, al contempo, la fantasia e l’opinione. Baggio ha cambiato tante maglie, ma si può dire che l’unica casacca indossata nella sua carriera è proprio la fantasia.

Nazionalpopolare al punto giusto, il “Divin codino” è riuscito anche a distorcere la realtà, a plasmarla rendendola piacevole ed eterna come i sogni dei tanti tifosi. Quella traversa che trema ancora con il portiere carioca Taffarel che esplode di gioia, così, sempre in uno spot, questa volta della Wind, diventa un tiro che supera la dimensione della logica e si insacca in rete.

Era il 2000, ben sei anni dopo gli Usa, in mezzo un altro campionato del mondo finito ai rigori, contro la Francia, nel 1998. Al Mondiale transalpino, Baggio ci arriva dopo una stagione incredibile, la più prolifica dal punto di vista realizzativo.
Con l’idea di trovare continuità per convincere il ct Cesare Maldini, Roby accetta di trasferirsi dal Milan al Bologna (nel mezzo un accordo quasi raggiunto con il Parma, ma senza la convinzione di Carlo Ancelotti).
Si taglia il codino, si converte al buddismo, segna 22 reti in 30 partite. E’ la sua rinascita, Bologna si esalta, la Granarolo, con sede nel capoluogo emiliano, decide di andare in tv per esaltare il “campione dell’alta qualità”:

Lui l’anno dopo lascia l’Emialia-Romagna per tornare a San Siro, questa volta sponda Inter. Ma tra i rossoblu ha lasciato un profondo amore: all’ombra della Torre degli Asinelli e di portici in portici, il nome di Roberto provoca autentica nostalgia.
Chi si addormenta con la sua maglia, chi ne parla al bar, chi non vede più un senso alla domenica pomeriggio senza lui in campo. Tra loro c’è il bolognese Cesare Cremonini, ex frontman dei Lunapop che, sulle note di “Marmellata#25”, dice:

Ah, da quando Senna non corre più
Ah, da quando Baggio non gioca più
Oh no, no! Da quando mi hai lasciato pure tu
Non è più domenica

A Bologna ha incantato tutti, anche Lucio Dalla che, nel 2001 all’interno dell’album Luna Matana scrive la canzone “Baggio Baggio”:

Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare un rigore,
e il mignolo destro di quel portiere che è lì, è lì per parare
meglio, sta molto meglio il pallone, tanto, lo devi solo gonfiare.

Baggio è arte con le calze slabbrate a coprire i parastinchi. Arte che entra nell’arte come la musica oppure alzando il sipario di un teatro. “Orfeo Baggio”, infatti, è una pièce musicale, è un giallo complesso con sullo sfondo un omicidio, realizzato da Mario Morisini.
In un articolo sul Corriere della Sera, il sceneggiatore disse: «Accostare Baggio a Orfeo può parere provocatorio, in realtà si tratta di due miti con molte affinità. Entrambi sono incantatori di folle: Orfeo con la cetra, Baggio con il pallone. Entrambi devono affrontare una discesa agli Inferi alla ricerca di qualcosa di impossibile. Per me, figlio di un operaio emigrato in Francia, le origini italiane sono sempre state motivo di fierezza. Ma accanto a Leonardo e Michelangelo, a Verdi e Manzoni, non esito ad aggiungere Baggio. A suo modo anche lui un artista sommo».

Baggiomaniaci, baggiocentrici e chi più ne ha di neologismi, più ne metta. Forse è esagerato? Beh Roby è talmente mitologico che è finito anche in un episodio di “Holly&Benji”, massima espressione infantile e adolescenziale del calcio puro. Puro divertimento. Unica nota stonata, ma divertente: quando Rob Denton calcia il pallone, la voce fuori campo, estasiata, esclama un buffo: “Robbbbbertobbbaggio”. Poesia.

 

Giovanni Sgobba