Il 29 maggio 1985 è la fine dell’innocenza sportiva. Trentanove morti allo stadio Heysel di Bruxelles prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una partita finita prim’ancora di iniziare. Non erano solo juventini, non erano solo italiani. C’erano anche belgi, francesi, irlandesi tra le vittime. Andrea Casula, il più piccolo, 11 anni. La memoria si fa viva ogni anno, non solo a maggio. Perché solo ricordando si possono onorare quelli che oggi non ci sono più, solo non dimenticando si può fare in modo che tragedie del genere non si ripetano.
Lo sa bene Massimo Tadolini, oggi 57enne di Bassano del Grappa, ma originario di Bologna. Quel 29 maggio aveva 23 anni ed era, come oggi, un grande tifoso della Juventus.
In quegli anni frequentavo la curva della Juventus, provenivo da un club bianconero di Bologna. A Bruxelles eravamo in 10, con biglietti della curva juventina mentre c’era un altro gruppo di Bassano che aveva acquistato pacchetto completo (viaggio + biglietto partita) con un tour operator. Ricordo che nella capitale belga non si respirava un bel clima già dalla sera prima della finale. A Bruxelles, infatti, fummo aggrediti dagli inglesi, la città era in stato d’assedio, i tifosi del Liverpool erano ubriachi. Bevevano fiumi di birra, lasciavano a terra cataste di casse accumulate mentre loro facevano attorno capannello di inglesi con bicchieri in mano. Erano molesti con gli italiani e molto aggressivi anche nei confronti, ad esempio, dei clienti dei ristoranti. Non ho mai visto una cosa del genere. Eravamo arrivati in Belgio con alcuni camper e decidemmo di andare a dormire fuori città.
Il giorno dopo si gioca la finale. Che cosa ricordi?
L’indomani, nel pomeriggio, ci rechiamo verso lo stadio. Un gruppo si dirige verso la curva Z, inizialmente riservato ai belgi ma poi destinato ai biglietti comprati con i tour operator italiani, l’altro prosegue verso il settore juventino. Con me c’era anche Domenico Lazzarotto, storico caporedattore del Gazzettino. Arrivati all’Heysel ci accorgiamo subito di un trattamento indecoroso delle forze dell’ordine, a cui addebito ciò che poi sarebbe successo, oltre alla responsabilità dei tifosi inglesi. Gli hooligans, infatti, entravano armati completamente indisturbati, con bottiglie, sassi, spranghe. Mentre noi, invece, dovevamo entrare in una porticina di 80 cm: pensate solo a una curva intera che passa da uno spazio così stretto. Si era creata una sorta di imbuto, una cosa mai vista in tanti anni che frequento gli stadi.
Quando degenera la situazione?
I primi scontri si verificano all’interno dello stadio verso le 19. Mentre in campo si svolge una partita tra ragazzini, cominciano le prime schermaglie quando segnava la squadra con la maglia rossa o quella con la maglia bianca. Gli hooligans iniziano a sparare razzi e lanciare pietre contro la curva Z. Noi ci troviamo dall’altra parte dello stadio, ma capiamo subito che stava succedendo qualcosa di grave. Gli inglesi sfondano le protezioni tra i due settori e iniziano a pressare contro il muretto i tifosi italiani. Alcuni ragazzi entrano in campo, arrivano sotto la curva degli inglesi e anche da noi, ci accorgiamo che ci sono le prime vittime.
Nella curva della Juve che atmosfera c’è? Volevate che si giocasse o no?
La curva era spaccata, alcuni di noi volevano giocare perchè era impossibile continuare dopo quella tragedia. Altri, invece, spingevano per giocare perché avevano pagato un biglietto e non volevano tornare a casa. A un certo punto sono arrivati i giocatori per cercare di riportare la calma, mentre Scirea faceva un appello dall’altoparlante. Forse la risposta più giusta era andar via dallo stadio, schifati da quello che avevamo visto, dovendo tener vivo il ricordo di questa tragedia. Ripensandoci oggi è stato giusto giocare perché altrimenti le vittime sarebbero state ancora di più. All’Heysel non c’erano ambulanze, i poliziotti erano pochissimi, mancavano i defibrillatori e i telefoni. Uno stadio inadeguato e un apparato organizzativo imbarazzante. E’ stato terribile, qui il tifo non c’entra. Sono morte persone inermi per una partita di calcio.
I festeggiamenti dei giocatori dopo la vittoria sono sembrati fuori luogo.
Sì, è vero, ma credo che bisogna vivere direttamente le situazioni. I giocatori della Juve furono catapultati in una situazione ingestibile, erano pressati dalle attenzioni mediatiche, l’Uefa aveva imposto di giocare. E’ vero che si sapeva ci fossero dei morti, ma non che la tragedia fosse di quelle proporzioni. Gli stessi calciatori hanno poi dichiarato negli anni che non avrebbero voluto giocare, ma furono obbligati a farlo. Non festeggiarono solo loro, ma anche i tifosi in tutta Italia e fu abbastanza oltraggioso.
Tornato a Bassano hai deciso di portare avanti la memoria di quel giorno.
Sì, la città ha pagato un prezzo altissimo quel giorno con le morti di Mario Ronchi e Amedeo Giuseppe Spolaore. Abbiamo subito fondato un gruppo, Nucleo 1985, che dalla stagione 85-1986 non ha mai perso una partita della Juve in tutto il mondo. Il nostro striscione è sempre presente allo Stadium. Poi, nel 2015, in occasione del 30mo anniversario, abbiamo realizzato un docufilm e organizzato un torneo di calcio per le squadre giovanili. Vi hanno partecipato anche i pulcini della Juve e sono state coinvolte le scuole bassanesi. Abbiamo organizzato una mostra che ha esposto anche i trentanove disegni più significativi sulla tragedia, ne sono arrivati oltre 1200.
Sono trascorsi 34 anni, cosa ti resta di quel giorno?
Le immagini terribili e la convinzione che la Juve avrebbe dovuto restituire quella Coppa all’Uefa. C’è stato una sorta di tabù per anni anche all’interno del club bianconero, per troppo tempo si è fatta poca memoria. Va ringraziato Otello Lorentini (fondatore dell’”Associazione familiari vittime Heysel”, padre di Roberto, una delle vittime, da medico tornò indietro per salvare il piccolo Andrea Casula, morirono entrambi) per la battaglia che ha fatto contro l’Uefa, ottenendone la condanna.
Comments are closed.