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Un salto nel…verde. La Puma, azienda di abbigliamento sportivo e sponsor tecnico della Nazionale italiana di calcio, ha presentato la nuova terza maglia Italia. Puma, per la scelta delle trame e del nuovo brand, si è ispirata a una grafica che richiama il Rinascimento, una celebrazione del passato, del presente e del futuro della cultura italiana. Il kit fa parte di una più ampia collezione caratterizzata dalla grafica rinascimentale creata in esclusiva per la Figc con l’obiettivo di dare un’ondata di novità sia in campo che fuori.

 

Ma a colpire è ovviamente il colore verde della maglia. Potremmo facilmente pensare a una novità assoluta, ma anche qui c’è un legame con il passato: la Nazionale maggiore dell’Italia, infatti, è scesa in campo solo in un unico precedente vestendo di verde, durante la partita amichevole giocata il 5 dicembre 1954 allo stadio Olimpico di Roma e vinta 2-0 contro l’Argentina.  Segnarono Frignani e Galli e quel match fu ricordato anche per il debutto di Juan Alberto Schiaffino.

In realtà, in quel periodo, la Federazione decise di puntare sul verde per vestire la Nazionale juniores: verde come la speranza, per augurare un florido futuro a quei ragazzi che rappresentavano l’avvenire del calcio italiano. La maglia verde venne utilizzata dalla Nazionale juniores fino al 1960: fino ad allora, infatti, l’azzurro era rimasto per anni un’esclusiva della Nazionale maggiore, un obiettivo da raggiungere per i giovani.

La nuova maglia dell’Italia, farà il suo esordio il 12 ottobre in occasione di Italia – Grecia nello stesso stadio Olimpico dove 65 anni fa fu protagonista la precedente maglia verde e, come si legge sul sito della Figc «il kit segna una nuova era per la Nazionale nel momento in cui un gruppo di giovani calciatori sta conquistando un ruolo importante nella rosa Azzurra (12 calciatori tra quelli in raduno da oggi a Coverciano hanno 25 anni o meno)».

Johann Cruijff e Franz Beckenbauer, e già così viene a mancare il fiato. Uno dinanzi all’altro si scambiano stretta di mano e gagliardetti. Attorno l’aria è calda e sospesa. Sul prato e sugli spalti dell’Olympiastadion c’è adrenalina e tensione. Settantacinquemila spettatori. Monaco di Baviera, Germania Ovest, 7 luglio 1974, ore 16.00, è la finale dei Mondiali di calcio tra i padroni di casa della Germania e l’Olanda del totaalvoetbal, del calcio totale.

Un calcio che si sta trasformando, con costanza e progressione. Non è solo questione di tattica e di moduli. Attenzione mediatica, immagine, sponsor. Giocatori che adesso hanno una seconda “utilità” e, anche se è uno schiaffo ai puristi nostalgici un po’ annebbiati, anche e già 40 anni fa, le maggiori aziende sportive avevano capito che attraverso lo sport, attraverso il calcio si poteva spiccare il volo.

E a pensar bene il ragazzotto dell’Ajax e dell’Olanda, idolo di una generazione perdente, ma dagli occhi innamorati, si calò perfettamente nel ruolo di icona moderna. Fu lui lo spartiacque con il calcio moderno. Unico perché riuscirà nei decenni a preservare e conservare un’aurea mitologica e di purezza, nonostante sotto sotto aveva dei precisi “impegni” contrattuali.
Il suo numero 14, dal club alla Nazionale, ce lo ricordiamo tutti: Cruijff si legò al numero di maglia, il primo a uscire con “prepotenza” dagli schemi consolidati e vetusti dell’uno all’undici. Il Barcellona, più rigido, invece gli impose la numerazione classica: lui accettò il 9, ma sotto la camiseta blaugrana, indossava sempre una maglia con il suo numero.

Elegante, dannatamente elegante, capace di sfidare Crono nella lotta contro l’eternità, lui “il Profeta del gol” divenne uomo immagine. Nel 1971, quando la rivista francese France Football gli consegnò il Pallone d’oro superando Mazzola e Best (ne vinse altre due nel ’73-’74), Johan si presentò alla cerimonia per ritirare il premio indossando un abito firmato Puma e con il logo in bella vista.

Ed era testimonial dell’azienda tedesca anche durante i sopracitati Mondiali in Germania Ovest. E arriviamo alla finale, arriviamo alla foto della stretta di mano tra l’olandese dal ciuffo ammaliante e il Kaiser. Olanda e Germania Ovest, entrambe sponsorizzate dall’Adidas che si sfregava le mani per il risalto mediatico internazionale. Ma non ci vuole un esperto della Settimana enigmistica per accorgersi di una clamorosa differenza: la maglia del capitano olandese aveva una striscia nera in meno rispetto alle canoniche tre, marchio inconfondibile dell’Adidas.

Il luccicante arancione, poi, di certo non aiutò. Macchiato da una lunga e annosa faida familiare poi divenuta imprenditoriale: una guerra intestina tra i fratelli Adolf e Rudi Dassler, uno padre dell’Adidas l’altro della Puma, e che hanno spaccato in due Herzogenaurach, paesino tedesco che ha visto nascere due dei brand più potenti nel settore sportivo. La faida, nella finale del 1974, si sposta su Cruijff, simbolo attrattivo della kermesse iridata e così via la terza strisce sulla sua maglia. Scucita. Il 14 olandese è un uomo della Puma, non si tocca.

Del resto i due marchi avevano già scelto una linea ben precisa: l’Adidas puntava sulle partnership con Nazionali candidate al successo, la Puma puntava ai piedi dei calciatori. Quattro anni prima ci fu un altro scontro: oggetto da contendere era Pelé e chi altro se non lui.
Poco prima dei Mondiali del 1970 in Messico, Horst e Armin, i figli successori di Adolf e Rudolf, stipularono un patto di non belligeranza con il quale ci si impegnava vicendevolmente nel non offrire un contratto di sponsorizzazione a “O Rey”. Come andò a finire? Beh giudicate voi…

Lothar Matthäus ha appeso gli scarpini al chiodo annunciando il suo definitivo ritiro dal calcio giocato. No, non siamo arrivati tardi di 18 anni rispetto alla sua partita d’addio giocata nel 2000 dopo l’ultima eclettica esperienza in America, nei Metro Stars.

Campione del Mondo con la Germania nel 1990 e Pallone d’Oro lo stesso anno, il primo a ottenere questo riconoscimento con la casacca dell’Inter, Matthäus questa volta ha davvero detto basta. Ma prima, aveva un ultimo desiderio da realizzare nonostante i tanti, tantissimi successi. Con oltre 750 presenze tra Borussia Mönchengladbach, Bayern Monaco e Inter e ben 150 gettoni con la Die Mannschaft, al carismatico centrocampista mancava una sola partita.
Una partita d’affetto e di amore: giocare ancora un’ultima volta con il club della sua adolescenza, la squadra da dove ha spiccato le ali sul finire degli anni Settanta, l’Fc Herzogenaurach.

Il 57enne ha chiuso il cerchio della sua vita sportiva, tornando alle radici: domenica 13 maggio ha indossato la fascia di capitano e la maglia azzurro scuro, si è accovacciato per la “consueta” foto di gruppo prima del fischio iniziale e ha giocato 50 minuti nella vittoria per 3-0 dei padroni di casa contro lo SpVgg Hüttenbach-Simmelsdorf. Davanti a mille tifosi, nell’ultimo match della Bavarian Landesliga, sesta categoria nella piramide calcistica tedesca.

Dalle giovanili alla prima squadra, passando per l’under 17 e l’under 19, Lothar Matthäus deve tutto alla società di Herzogenaurach che, nel 1979, ha accettato di cedere il promettente centrocampista al Gladbach. Da lì un’ascesa unica che l’ha portato a vincere (ci perdonerete per il lungo elenco) sette Meisterschale, tre Dfb-Pokal e una Supercoppa di Germania con il Bayern Monaco, uno Scudetto e una Supercoppa italiana con l’Inter, un campionato americano con la compagine dei New York Metro Stars, due Coppe Uefa, un Europeo con la Germania e il Mondiale 1990.

L’iniziativa è stata supportata dalla Puma, sponsor tecnico della formazione, e che proprio a Herzogenaurach, 70 anni fa, ha fondato il suo quartiere generale. La città a 200 chilometri da Monaco, infatti, è famosa per aver visto nascere dalla stessa costola familiare sia l’Adidas che, appunto, la Puma. Un paese diviso, fatto di gelosie e antipatie al punto da essere soprannominata “la città dei colli piegati”: una persona, prima di salutare e iniziare una conversazione con un’altra persona, controllava quali scarpe avesse addosso.

Ma nell’ultimo match da professionista di Lothar, che nel frattempo ha intrapreso una vincente carriera da allenatore, non si è pensato a questo. Era il suo sogno, ha detto a fine gara abbastanza sudato e provato. Ha ammesso di esser stato poco utile in copertura, ma ha provato qualche giocata di classe e qualche colpo che gli riesce ancora bene.

Però deve rassegnarsi: nonostante sia il detentore del record per numero di partecipazioni a un Mondiale (cinque  insieme al messicano Antonio Carbajal e all’italiano Gianluigi Buffon) e il calciatore con più presenze assolute nelle fasi finali della rassegna iridata, ben 25, non è stato inserito dal ct Joachim Löw  nella lista dei convocato per Russia 2018.

Eterno “panzer” Lothar!

Helmut Fischer è nato a Herzogenaurach nel 1949 e, intervistato dal Wall Street Journal, ammette: «Il mio cuore batte da sempre per Puma». Perché Puma e perché doverlo specificare?
Herzogenaurach è un piccolo paese tedesco di poco più di 22mila abitanti, non è molto lontano da Norimberga, e per decenni ha vissuto in uno stato di rivalità che ha portato gli stessi cittadini a spaccarsi in due: Puma e Adidas, due tra le più grandi industrie e marche di abbigliamento sportivo, sono state fondate proprio qui, a Herzogenaurach, dopo la seconda guerra mondiale. Nate dopo la scissione di un’azienda familiare che produceva scarpe, la Gebrüder Dassler Schuhfabrik. Una spaccatura più che scissione con relativo strascico di sentimenti negativi annessi: Adolf – detto “Adi” – uno dei due fratelli che la gestiva ha fondato l’Adidas, mentre l’altro, Rudolf – conosciuto come “Rudi” – ha messo su la Puma.

Un po’ Montecchi e un po’ Capuleti, all’interno di questa città della Baviera dal glorioso passato tessile, gli abitanti hanno iniziato a unirsi in fazioni e “feudi” osteggiandosi come fossero due famiglie rivali. Molti di loro lavoravano e lavorano tuttora per le due aziende ancora presenti a Herzogenaurach: la Puma ha il suo quartier generale a nord del fiume Aurach, l’Adidas, invece, è a sud.
Questa spaccatura, nel corso degli anni, ha avuto ripercussioni anche nella quotidianità: in passato erano vietati i matrimoni “misti”, si frequentavano luoghi diversi per non essere in contatto con i “rivali”, ognuno aveva il proprio negozio di fiducia come il macellaio o il pub di riferimento e le due squadre del paese, l’ASV Herzogenaurach e l’FC Herzogenaurach, rappresentavano rispettivamente l’Adidas e la Puma.
Ma non è tutto perché anche la religione e la politica finirono per essere coinvolti tanto da creare delle identità specifiche: chi sposava la causa Puma era da considerarsi cattolico e conservatore, mentre quelli di Adidas erano protestanti e socialdemocratici.

Insomma, dall’abbigliamento alla scelta di dove andare a bere, ogni sfaccettatura era dominata dalla pressante dicotomia al punto che Herzogenaurach divenne famosa per essere “la città dei colli piegati”: una persona, prima di salutare e iniziare una conversazione con un’altra persona, controllava quali scarpe avesse addosso.

Helmut Fischer

Le origini

Ma perché tanto odio e tanto astio? Facciamo un passo indietro. Nel 1924, i due fratelli Adi e Rudi decisero di avviare una fabbrica di scarpe con tanti bei sogni e una piccola stanza: la prima sede, infatti, era la stanza dove la loro madre stendeva il bucato. Adolf si occupava della creazione e fabbricazione delle scarpe, mentre Rudolf badava la distribuzione.
La svolta fu una decina di anni dopo: si dice, infatti, che raggiunsero l’exploit a livello internazionale nel 1936 fornendo le scarpe a Jesse Owens, il corridore nero americano che dominò le Olimpiadi di Berlino aggiudicandosi ben quattro medaglie d’oro. Per i fratelli Dassler quella fu la loro fortuna.

Ma i fratelli in affari non andavano per niente d’accordo. Tanti, troppi litigi, uno clamoroso durante la seconda guerra mondiale in pieno bombardamento. Così terminate le ostilità, i due nel 1948 decisero di dividere a metà l’azienda spartendosi anche i dipendenti. Adolf, dunque, creò l’Adidas (gioco di parole tra Adi, il suo diminutivo, e le iniziali del cognome), mentre Rudolf la sua azienda che inizialmente chiamò Ruda prima dell’attuale nome Puma.

La situazione oggi

Per oltre 70 anni, dunque, gli abitanti di Herzogenaurach hanno vissuto una “guerra civile”, ma oggi secondo Helmut Fischer questa rivalità si è molto assopita. Certo, per strada si possono vedere tombini coi diversi loghi, ma anche secondo il sindaco German Hacker il clima è molto più disteso. E lo dice lui che, in passato, ha dovuto indossare contemporaneamente una scarpa Adidas e una scarpa Puma o bilanciarsi vestendo capi di entrambe le aziende.
Il primo cittadino ha fatto costruire, inoltre, una nuova fontana con una statua che raffigura due bambini che giocano al tiro alla fune e che indossano entrambe le scarpe, mentre nel 2009 i dipendenti di Puma e Adidas hanno giocato una partita a squadre miste (operai contro dirigenti e hanno vinto i primi 7-5) come segno di riappacificazione. La palla utilizzata aveva impressi i marchi di entrambe le società.

Adidas CEO, Herbert Hainer e Puma CEO, Jochen Zeitz

Due grandi industrie in mano a due fratelli. E poi ci sarebbe Horst Dassler, figlio di Adolf, che ha ereditato l’azienda e che nel 1973 ha creato Arena, altro noto marchio di abbigliamento per il nuoto sportivo. Ma questa è un’altra storia…