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Quel minuto di silenzio e la fascia nera al braccio sembravano a tutti una forzatura, un modo davvero poco sensibile per dimostrarsi “corretti” e dare l’ok a giocare una partita dove 22 persone correvano in campo, ma avevano la testa altrove. Come gli allenatori, i panchinari, lo staff, i dirigenti e i tifosi.
L’11 settembre 2001 per molti è stato il giorno dell’autogol del calcio marchiato Uefa. Scossi e svuotati dalle tremende immagini che ci arrivavano da New York, mentre tutto il mondo guardava attonito gli aerei schiantarsi contro le Torri Gemelle, i vertici del calcio europeo sudavano per una decisione da prendere. In quel giorno si giocava la Champions League. La risposta era ovvia per tutti, ma non per loro. Rinvio? No, si gioca comunque.

 

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Quattro voli delle linee aeree statunitensi vengono dirottati dai terroristi di Al Qaeda. Due aerei si schiantano sulle Torri Gemelle di New York, uno sul Pentagono, il quarto cade nelle campagne della Pennsylvania. Negli attacchi suicidi muoiono 3017 persone di oltre 90 nazionalità. Ma secondo la Uefa non c’è tempo per fermare la Champions League. Roma-Real Madrid si gioca così come Galatasaray-Lazio.
La Roma tornava nel massimo torneo continentale dopo 17 anni e accoglievano il Real Madrid, in uno Olimpico tutto esaurito con 4 miliardi di lire di incasso e 35 televisioni collegate. Collegate per vedere gli spagnoli vincere 2-1. Vincere cosa?

Gli interessi quel giorno finirono per prevalere sul buonsenso, ma la pressione e le critiche furono così aspre che il giorno dopo, la Uefa rinviò le partite in programma. Arrivò tardi e fu anche grossolana e maldestra, ma quella decisione rese ancor più nitida una certezza: non si poteva parlare di calcio.

Il Gran Premio di Monza

Ma non fu solo il calcio a porsi degli interrogativi. Il weekend del 16 settembre si disputava il Gran Premio di Formula 1 di Monza. Con la Ferrari e Schumacher già sul tetto del mondo in anticipo, il 13 settembre, la Fia (Federazione Internazionale dell’Automobile) confermò il regolare svolgimento della corsa.

Gli organizzatori, allora, cercarono di rendere la manifestazione più sobria possibile per rispetto nei confronti delle vittime del terrorismo annullando le Frecce Tricolori e i festeggiamenti sul podio. La Ferrari decise di togliere tutti gli sponsor dalle monoposto e dalle tute di Michael Schumacher e Rubens Barrichello, verniciando di nero il muso delle vetture. Durante il warm-up, invece, la Jordan scese in pista con la bandiera a stelle e strisce sul cofano motore al posto del tradizionale sponsor.

Ma a sconquassare l’animo già turbato dei piloti fu la notizia del terribile incidente di Alex Zanardi avvenuto 15 settembre in una gara del campionato Cart. I piloti stremati emotivamente chiesero ufficialmente il rinvio, ma la loro richiesta viene respinta da Bernie Ecclestone.

 

La rinascita americana passò dal baseball

Il 18 settembre cominciava anche la stagione di Mlb, lo sport più “nazionalpopolare” degli Stati Uniti. Decisero di giocare regolamente, ma non per giri d’affari quanto per provare a concedere un po’ di normalità alla popolazione devastata.
Le due franchigie di New York, i Mets e gli Yankees, si misero a disposizione della città per far fronte all’emergenza: lo Shea Stadium, fortino dei Mets, si trasformò in un rifugio per sfollati e volontari.

L’inizio di ogni gara fu preceduto da un minuto di silenzio per rendere omaggio alle vittime della strage. Fu un tripudio di bandiere Usa in tutti gli stadi. A Pittsburgh, i Mets scesero in campo con cappellini che riportavano le insegne della polizia e dei vigili del fuoco della Grande mela. Lo stesso fecero i cugini degli Yankees.
E fu lanciando una pallina che l’America tornò lentamente a sorridere.

A 71 anni si è abbastanza saggi da capire quando è necessario fermarsi. Respirare. E riflettere. A 71 anni non è necessario inseguire la velocità, essere davanti a tutti e primeggiare. No, se di mezzo ci sono valori più alti e più nobili. Anche se sei un nuotatore e stai partecipando a una competizione internazionale, come i Mondiali Master di nuoto a Budapest.

Fernando Álvarez è salito sul suo blocco di partenza, ha fatto un respiro profondo, ma non si è tuffato. Ha atteso dritto con le mani alzate mentre vedeva gli altri nuotatori muoversi e allontanarsi. Ha aspettato per 60 secondi. Esattamente il minuto di silenzio che aveva chiesto al comitato organizzatore per ricordare e rispettare le vittime dell’attacco terroristico a Barcellona del 17 agosto.

Nessun colpo scenico, ma una silenziosa protesta: da due giorni chiedeva la possibilità di osservare il minuto di silenzio; ha inviato email ma non ha ricevuto risposte. E quindi ha deciso di rispondere lui: a 71 anni, uno che decide di partecipare a un Master, dimostra determinazione e grinta che non si scalfiscono facilmente.
Una risposta quasi beffardo: il protocollo è troppo complesso e non si può spostare l’evento di un minuto? Bene, vuol dire che lo facciamo finire più tardi comunque.

E infatti Fernando Álvarez, specialista nella rana, si è buttato fuori sincrono, più tardi degli avversari, e la sua protesta è diventata eclatante. Anche perché non gli hanno registrato il tempo per non destare sospetti e imbarazzi. Ma i social, quando vogliono, portano in alto storie belle come questa.

Álvarez si è tuffato, dopo il minuto di pace con se stesso, e ha nuotato a rallentatore:

Ho avuto più soddisfazione che a vincere l’oro

Nè paura, nè odio, solo tanta umanità e profondo dolore. A 71 anni si è abbastanza saggi da capire quando fermarsi.