Calcio e musica: due passioni differenti, ma due mondi affini che si coinvolgono a vicenda, due rifugi dove ritrovare pace e cercare nuovi stimoli, due sfaccettature di un’unica arte. Due lingue che, se non contaminate dal moderno, corrotte dal capitalismo, possono essere portatrici di messaggi forti.
L’11 maggio si ricorda la scomparsa di colui che ha fatto della musica la sua vocazione e del calcio il suo diletto, la sua passione. Un piccolo omaggio a chi invece è stato gigante, a chi il termine “musicista” andrebbe troppo stretto, a Bob Marley.
Lui non ha lasciato un testamento, non ne sentì il bisogno: i suoi messaggi d’amore, di pace, di rispetto e disciplina, d’ammonimento verso il male, contro il razzismo, sono incisi nella sua musica, in quel genere musicale che viene spesso canticchiato e raramente vissuto nella sua profonda essenza.
Aneddoti, storielle più o meno plausibili si intrecciano attorno alla sua immagine, il mito si insinua tra i dati storici, confondendoli e confondendoci e proprio attorno alla sua morte sono state tramandate differenti versioni. Quella più “popolare”, lasciateci passare il termine, vuole che sia deceduto per overdose, ma la sua vita non è mai stata improntata sull’eccesso: non si sarebbe mai permesso di tradire quei precetti morali, quel rigore religioso che lui stesso diffondeva attraverso la musica, l’unica cosa veramente “eccessiva” nella sua vita.
Partiamo da quello che è l’accaduto più vicino alla realtà: nel 1977 scoprì di avere una ferita all’alluce destro. Inizialmente pensò di essersi fatto male forse durante una partitella giocata a Parigi tra giornalisti francesi e i suoi “frattelli-amici” The Wailers, nella quale rimediò un duro colpo al piede, oppure in un’altra partita precedente dove, si dice, un suo amico gli lacerò l’alluce con un tacchetto arrugginito.
Ma successivamente, sempre giocando a calcio, l’unghia dell’alluce si staccò. Solo a quel punto fu fatta la diagnosi corretta: melanoma maligno che non venne mai curato in quanto la sua religione non consente l’amputazione degli arti per rispetto dell’integrità del corpo.
Bob Marley scelse solo di rimuovere la pelle al di sotto dell’unghia, ma il melanoma non fu curato del tutto e progredì fino al cervello.
Quel che è certo è che Bob vedeva nel calcio una forma di espressione autentica, genuina come quel luogo povero e semplice che è la Giamaica. Disse:
Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività, significa dare libero corso alla propria ispirazione
Per questo quando giocava, si racconta, non aveva un ruolo preciso, non pensava agli schemi, non pensava a nulla, giocava per il gusto semplice di calciare un pallone e condividere momenti spensierati della giornata con gli amici.
Si spense l’11 maggio del 1981 e fu sepolto vicino a Nine Mile, riabbracciando quel luogo che lo vide nascere e dal quale Bob mai si separò e mai gli voltò le spalle. Si portò con se una chitarra, una piantina di marijuana, una bibbia ed un pallone: la sua esistenza racchiusa in quattro oggetti semplici. Semplice come l’ultima frase sussurrata al figlio:
I soldi non comprano la vita
Ed è facile intuire ed immaginare che il calcio di oggi, dell’era moderna, di Babilonia e del Dio Denaro, di sicuro non gli sarebbe piaciuto.
Se vuoi conoscermi devi giocare a calcio contro me e i the Wailers