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Si riaccendono i riflettori e si aprono i “gate”. Gli spalti, dopo sette anni, tornato a ospitare i tifosi. Il 24 marzo 2007, lo storico stadio di Wembley riapre i battenti dopo i lavori di ammodernamento con un’amichevole che rende omaggio al calcio. Gli azzurrini di Pierluigi Casiraghi affrontano l’Under 21 inglese in una partita finita 3-3 e segnata, su tutti, da un giovane attaccante: Giampiero Pazzini e la sua tripletta.  

Come Gianfranco Zola impresso nella partita giocata nel 1997, anche l’ex attaccante della Fiorentina marchia il suo nome sull’erba del prato inglese del nuovo Wembley, lo stadio più costoso mai costruito dopo lo Yankee Stadium con 1,5 miliardi di dollari (1,1 miliardi di euro), capace di ospitare 90.000 spettatori tutti con posto a sedere e secondo stadio per capienza in tutta Europa dopo il Camp Nou di Barcellona.

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Gli inglesi di Pearson si presentano con il tridente offensivo: Agbonlahor e Lita al fianco di Routledge. Casiraghi risponde con identico schieramento: davanti a Curci difesa composta da Potenza, Andreolli, Mantovani e Chiellini; centrocampo con Montolivo, e Padoin sulle fasce, al centro Nocerino. In avanti spazio alla fantasia del granata Rosina e la mobilità di Pazzini e Rossi.

Davanti a 60mila spettatori è l’Italia a sbloccare improvvisamente il punteggio dopo una manciata di secondi. Pazzini sfugge al controllo dei difensori inglesi e con una gran botta spedisce la sfera in fondo al sacco, firmando la prima storica rete nel nuovo stadio di Wembley. Alla mezz’ora gli inglesi riportano il punteggio in parità: perfetta parabola di Bentley su calcio di punizione e palla in rete nonostante il tentativo di Curci.

Al settimo della ripresa, sfortunata deviazione di Chiellini e palla per Routledge che da posizione defilata firma il vantaggio dell’Inghilterra. Un minuto dopo gli azzurri trovano subito il nuovo pareggio: pallonetto a scavalcare la difesa di Mantovani e deviazione al volo di Pazzini per il 2-2. Al 14′ gli inglesi tornano avanti con Derbyshire che infila Curci da due passi sfruttando un tiro di Milner sul secondo palo. Al 18′ spazio ai cambi da parte di Casiraghi che inserisce Lazzari, Coda, Lupoli e Criscito. Al 22′ Pazzini sulla destra raccoglie palla (contropiede di Lazzari, assist di Rosina), evita un difensore inglese, e batte Camp: per l’attaccante viola è una straordinaria tripletta. Al 35′ l’Italia manca la quarta rete: Pazzini, davvero incontenibile, calcia sporco a porta vuota. Poi viene sostituito: per lui standing ovation dal pubblico di Wembley.

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INGHILTERRA U21-ITALIA U21 3-3

INGHILTERRA U21: Camp; Rosenior (12’st Hoyte), Ferdinand, Cahill, Baines; Routledge (12’st Milner), Bentley (43’st Young), Reo-Cocker; Agbonlahor (1’st Derbyshire), Lita, Richardson (12’st Milner). In panchina: Alnwick, Hart, Cattermole, Huddlestone. Ct: Pearson.

ITALIA U21: Curci; Potenza (1’st Raggi), Andreolli, Mantovani (18’st Coda), Chiellini (18’st Criscito); Montolivo, Nocerino (18’st Lazzari), Padoin (1’st De Martino); Rosina, Pazzini (35’st Pellè), Rossi (18’st Lupoli). In panchina: Viviano, Paonessa, Dessena. Ct: Carisaghi.

Pelé disse che «Wembley è la cattedrale del calcio. È la capitale del calcio. È il cuore del calcio». Il verbo, da coniugare al presente o al passato è una scelta arbitraria del lettore se reputa il vecchio impianto chiuso nel 2000 differente da storia, fascino e continuità rispetto al nuovo stadium inaugurato nel 2007.

Quel che è certo è che Wembley rimane il tempio magico di Londra e del football globale. Il semplice giocarci è una medaglietta da portare con orgoglio sul petto. L’Italia qui ha vinto due volte e la seconda ha della magia in sé: 12 febbraio 1997 si giocava una gara valida per la qualificazione alla Coppa del Mondo dell’anno dopo in Francia. L’Italia fu inserita nel Girone 2 assieme a Inghilterra, Polonia, Georgia e Moldavia. I ragazzi di Cesare Maldini disputarono anche un buon torneo: sapevano che gli inglesi erano i concorrenti diretti per acciuffare il primo posto che significava qualificazione diretta senza passare dagli insidiosi pareggi.

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Nei giorni precedenti al match, i giornali inglesi, ormai abituati a vederlo giocare con la maglia del Chelsea, ammonirono severamente lo staff tecnico inglese: attenzione a Gianfranco Zola. Addirittura The Indipendent aprì in prima pagina con questo consiglio, corroborato dalle assenze in casa britannica del portiere Seaman, Gascoigne, Adams. e dalla maggiore solidità dell’Italia.

Il gioiello arriva al 19′: Ferrara recupera palla in difesa, serie fitta di passaggi finché Costacurta non trova uno spazio in profondità per scagliare il pallone. Sa bene che Magic Box sta facendo un movimento studiato più volte in allenamento, sa come trovarlo e riesce a dargliela sui piedi. Zola se l’allunga quanto basta per scaricare un destro di rara potenza sul palo difeso da Walker: gol e vittoria assicurata. Proprio lui, sette stagioni in Inghilterra e nominato come Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico dalla regina Elisabetta. Il giorno dopo i giornali inglesi non attaccarono la propria squadra ma elogiarono il talento di Oliena dichiarando la vittoria italiana come quella della “Fantasia al potere“. Ventiquattro anni dopo il gol decisivo di Fabio Capello  del 14 novembre 1973, l’Italia sconfisse l’Inghilterra a Wembley.

L’Italia chiuse a 18 punti, senza nemmeno una sconfitta, con 5 vittorie e tre pareggi, un solo gol subito e la memorabile vittoria a Wembley contro l’Inghilterra firmata dal guizzo dell’inglese Zola e dalla saracinesca umana Peruzzi. Ma non fu abbastanza: l’Inghilterra passò come prima avendo totalizzato 19 punti. Per gli azzurri fu fatale il pareggio in casa nello scontro diretto contro i Tre Leoni e, forse, ancor più i due 0-0 ottenuti in trasferta in Georgia e Polonia. Il pass per Francia ’98 arrivò dopo il doppio spareggio contro la Russia. 

Alcune persone tra staff, steward e qualche tifoso, avevano già un mezzo piede sul rettangolo di gioco. Tutti, ormai, pensavano fosse finita e che l’arbitro Gottfriend Dienst avrebbe fischiato la fine dell’incontro da un momento all’altro. Geoff Hurst, però, era l’unico che voleva continuare a giocare:

Ricordo di aver pensato: “Sono stanco, la partita è quasi finita, tiro la palla con tutta la forza che ho, tanto se va in mezzo alla folla, finché il raccattapalle recupera la palla, il match sarà sicuramente  terminato

Invece quella palla scagliata col piede sinistro – quello più debole – non schizzò via verso le stelle, ma a modo suo si innalzò nell’Olimpo dei Mondiali di calcio. Il portiere tedesco Hans Tilkowski venne trafitto per la quarta volta durante la partita, l’Inghilterra divenne campione del mondo vincendo 4-2 contro la Germania Ovest. E’ il Mondiale 1966, è il Mondiale giocato davanti alla regina Elisabetta II. E’ l’unico titolo intercontinentale alzato al cielo dai padri protettori del football e quel tiro di Hurst, quel gol cercato ostinatamente, nonostante 120′ di battaglia, gli consentirono di essere mezzo secolo fa e tutt’ora il primo e finora unico uomo a segnare una tripletta in una finale della Coppa del Mondo.

 

Gli eventi all’interno di una finale della Coppa del Mondo hanno “il vizio” di trascendere dal mondo del calcio per diventare momenti culturali iconici a pieno titolo. Ogni leggenda ha bisogno di un protagonista, in questa dal forte folklore britannico, abbiamo un cavaliere fedele al suo regno: Sir Geoff Hurst.

Sono passati da poco 50 anni dal 30 luglio 1966, quando, in un primo pomeriggio estivo, nello stadio simbolo di Wembley, l’Inghiterra alzò il trofeo davanti a quasi 97mila spettatori. L’hat-trick di Hurst (secondo i canoni dei puristi inglesi è la tripletta perfetta perché segnata di testa, di sinistro e di destro) è ancora oggi ricordato e venerato. Della sua impresa sportiva si tramandano di generazione in generazione i minuti dei gol segnati: due sono arrivati nei supplementari con l’ultimo, al 120′, che non è stato ancora eguagliato. Per dire, Mario Götze, l’ultimo ad aver segnato in una finale mondiale ha realizzato la rete decisiva per il trionfo tedesco al 113′.

Ma oltre ai minuti, a chi ha fatto l’assist, ancora oggi a creare grande dibattito e argomentazione è la seconda rete: «Geoff, ma la palla ha varcato la linea o no?». Nell’era moderna della Goal Line Technology o dell’Hawk-Eye, nella quale grazie alla tecnologia si vuole provare a governare il calcio e tutte le diatribe che si trascina con sè, la rete di Sir Geoff è da considerarsi a tutti gli effetti il primo celebre caso di “gol fantasma”: minuto 101, il terzino destro Cohen crossa la palla a mezza altezza, si fionda con il numero 10 proprio Hurst che controlla allontanandosi di qualche centimetro dalla porta avversaria e poi repentinamente si accartoccia su se stesso per concludere a rete. La sfera batte sulla traversa e rimbalza quasi perpendicolarmente: è gol? Ha superato interamente la linea? Dopo qualche secondo di incertezza con 97mila anime sospese nel vuoto, consultandosi con il guardalinee, l’arbitro indica il centrocampo.

A noi non interesserà mai fino in fondo conoscere la verità. E nemmeno Geoff, ormai alla soglia dei 76 anni, ci pensa più. Non gli si può certo dire di essere un “romantico” avendo venduto tutti i cimeli di quel Mondiale del 1966 che l’avrebbe dovuto vivere da comprimario essendo una riserva,  ma su una cosa sarà sempre convinto:

Ero al meglio della mia forma quando l’Inghilterra era al suo meglio: quello, dal 1965 al 1972, è stato il miglior periodo per il calcio oltremanica. Senza dubbio

L’urlo è rimasto strozzato in gola, nei sussulti finali del ritorno dei quarti di finale di Champions League. A un passo da un’incredibile rimonta contro il Tottenham, il Manchester City e tutti i suoi supporter hanno visto sfumare la qualificazione allo scadere: prima l’esultanza per il gol di Sterling, quello del 5-3, poi la decisione dell’arbitro di annullare la stessa rete dopo aver consultato il Var e aver confermato l’offside di Aguero da cui è partita l’azione.

Sfiniti i giocatori, Pep Guardiola e, ovviamente, i tifosi che non hanno mai smesso di incitare la squadra che, nonostante la cocente delusione, deve tirar su la testa immediatamente perché c’è una Premier League da portare a casa e anche una FA Cup.

E proprio in vista del match di Wembley contro il Watford, in programma il prossimo 18 maggio, la società della parte “blu” di Manchester ha deciso di premiare i propri tifosi e ringraziarli per il loro sostegno e supporto incondizionato: ogni giocatore della prima squadra pagherà uno dei 26 bus previsti in direzione Londra.

 

Circa 200 miglia ad andare e altrettante per ritornare nel nord dell’Inghilterra che non peseranno sul portafoglio dei sostenitori. Così, ancora una volta, si potrà ascoltare il canto di “Blue Moon” all’unisono: «Il sostegno dei nostri tifosi per tutta la stagione è stato a dir poco incredibile – ha evidenziato il capitano dei Citizens, Vincent Kompany – Dobbiamo ancora combattere tanto in questa stagione, questo è il nostro modo di dire grazie».

L’amichevole che si è svolta il 27 marzo tra Inghilterra e Italia a Wembley non è stata favorevole solo alla nazionale azzurra che è riuscita finalmente a rompere l’incantesimo del gol, ma anche agli inglesi.

Anzi, per la precisione ad un singolo inglese che quasi al termine della partita, indipendentemente dall’esito finale, era già ampiamente soddisfatto di come si sono svolte le cose in campo. Si tratta del nonno del calciatore Lewis Cook, che ha esordito in nazionale proprio in questo match.

L’esordio del nipote prima dei 26 anni per nonno Cook era una certezza, tanto da decidere nel 2014 di puntare la somma di 500 sterline su una scommessa allora data a quota 33. Deluso dagli esiti delle scorse partite, finalmente contro l’Italia il ct Southgate ha permesso al giovane di entrare in campo per sostituire al 70esimo minuto il compagno Lingard e ha regalato al nonno una vincita a molti zeri.

Festeggia dunque la famiglia Cook per un esordio in nazionale che possiamo definire col botto, dato che oltre a rappresentare la grande occasione per il giocatore, ha anche fatto sbancare al suo nonno la somma di ben 17.000 sterline che corrispondono a circa 19.000 euro!

Ma avere un’innata fiducia nel talento calcistico del proprio nipote non è una novità e il caso Cook non è il primo che è diventato famoso per aver fatto guadagnare da una scommessa fatta tempo prima.

Un episodio simile è legato anche alla figura di Rooney, giocatore dell’Everton, ex del Manchester United. In questo caso è lo zio che punta 250 sterline sul nipote, sicuro che nel Mondiale tedesco del 2006 avrebbe esordito in nazionale. La scommessa fu fatta nel 1998 e quando Rooney entrò in campo contro Trinidad e Tobago lo zio vinse la somma di ben 50.000 sterline. Il grande calciatore da allora ha regalato altre soddisfazioni alla sua famiglia e chissà che lo zio, amante del gioco d’azzardo, non abbia pensato di puntare ancora sul suo successo anche in futuro.

È ancora un nonno che punta tutto sul nipote nel caso di Harry Wilson, ma la cosa sconcertante è che la scommessa viene fatta quando il calciatore aveva soli 2 anni. Previdente e fiducioso, suo nonno sapeva, o almeno sperava, che un giorno il bambino avrebbe giocato nel Galles e puntò ben 50 sterline, che molti anni dopo, nel 2013, fruttarono ben 250 volte la posta giocata, quando Wilson esordì contro il Belgio nella sfida di qualificazione mondiale. 

E i padri? Anche loro non nascondono la fiducia nelle capacità del proprio figlio, se amante del pallone, e ben due casi diversi testimoniano come questa fiducia a volta sia davvero ben spesa. 

Nel 2006 è la volta della famiglia Kirkland: il padre dell’ex portiere del Liverpool, Chris Kirkland, insieme a 12 amici decise di puntare sull’esordio in nazionale del giocatore prima dei 30 anni e vinse la bellezza di 10.000 sterline.

Lo stesso fece anche il padre di Ryan Tunnicliffe, che quando il figlio entrò in campo nel 2012 in un turno della League Cup, vinse la somma di 10.000 sterline per averci scommesso ben 10 anni prima. Allora Tunnicliffe militava nel Manchester United, oggi è calciatore del Wigan.

Tante le scommesse che legano il pallone a parenti fiduciosi verso figli e nipoti calciatori. Non tutte si rivelano vincenti, è ovvio, ma quando succede fanno notizia e servono anche ad aumentare la fama del calciatore protagonista. Ecco perché siamo certi che per un po’ si sentirà parlare  di Lewis Cook. 

Antonhy Joshua conquista Wembley. Davanti a novantamila spettatori, sul ring montato al centro dello stadio londinese, il beniamino di casa ha vinto la grande sfida per la riunificazione delle corone iridate dei pesi massimi. Battuto il gigante ucraino Wladimir Klitschko per k.o. tecnico all’undicesimo round.

Il boxeur britannico di origini nigeriane, famoso in Italia per aver vinto l’Oro Olimpico a Londra 2012 contro il nostro Roberto Cammarelle, al termine di una finale dal verdetto alquanto discusso, passato professionista ha inanellato 19 successi su 19 match disputati e tutti per kappao. Niente da fare per un vecchio protagonista del ring come Klitschko, che perde nuovamente dopo la sfida di un anno e mezzo addietro con Tyson Fury che ha interrotto una serie di 64 successi su 68 incontri.

Negli ultimi anni il duopolio Messi-Cristiano Ronaldo ha ridotto l’assegnazione del Pallone d’oro a una sfida al limite della monotonia, provocando una certa disaffezione tra gli appassionati di calcio che vedono il prestigioso trofeo, assegnato su idea della rivista sportiva francese France Football, al pari di un Telegatto piazzato ogni anno a Mike Bongiorno. Scontato e anche un po’ banalizzato.
Dal 2010, ma solo fino al 2015 – complice un sentito fallimento della proposta- il riconoscimento si è fuso con il Fifa World Player of the Year, dando vita a un nuovo premio denominato Pallone d’oro Fifa, con votazione estesa non solo ai giornalisti sportivi provenienti da tutto il mondo, ma anche agli allenatori e capitani delle nazionali affiliate alla Federazione internazionale.

Una trovata tra il marketing e la personale “stima” dell’amico calciatore che, di fatto, non è piaciuta e ha ulteriormente accentuato l’accentramento del premio tra la star del Barcellona e quella del Real Madrid che si spartiscono il trofeo dal 2008 (Kakà è stato l’ultimo umano a vincerlo nel 2007).
Quest’anno si è tornati nella vecchia formula, ma forse, mai come negli ultimi anni il Pallone d’oro è stato vinto meritatamente da Cristiano Ronaldo che nell’anno solare 2016 ha messo in bacheca personale la Champions League con il Real Madrid e l’Europeo con il Portogallo. Impresa non esattamente alla portata di tutti.

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Eppure dalla sua nascita nel 1956, il Pallone d’oro si svincolava dalla conquista di altri trofei che in qualche maniera giustificasse l’assegnazione; semplicemente si votava il calciatore più forte dell’anno, con un solo limite: dal 1956 fino all’edizione del 1994, infatti, il regolamento imponeva che il giocatore dovesse essere di nazionalità europea per poter aspirare al titolo; dal 1995 questa distinzione è stata superata, potendo quindi concorrere al premio anche giocatori di nazionalità extra-europea, ma appartenenti a squadre europee; dal 2007 possono concorrere al premio, calciatori militanti in qualsiasi club della Fifa.

Nel 1956, anno della prima edizione, i giornalisti di 16 Nazioni europee assegnarono il pallone doro a Stanley Matthews, ala destra del Blackpool, davanti al madridista Alfredo Di Stéfano e al francese Raymond Kopa. Un riconoscimento, si dirà più avanti, alla sua lunga lunghissima carriera, alla sua impresa maggiore: conquistare coi The Tangerines (i mandarini) la prestigiosa FA Cup tre anni prima. Pelé disse di Matthews:

Ci ha insegnato il modo in cui il calcio deve essere giocato

Un attestato di stima che la dice lunga sull’impatto che l’ex nazionale inglese ha avuto sul calcio e, più in particolare, sul ruolo dell’ala. Soprannominato “The Wizard of football”, la carriera di Matthews abbracciò tre decenni, ma solo due distinti club: Stoke City (dal 1932 al 1947, e poi successivamente dal 1961 al 1965) e Blackpool (dal 1947 al 1961). Esordio a 17 anni, ultima partita da professionista cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni; un Pallone d’oro conquistato a 41 anni e due Mondiali con l’Inghilterra nel 1950 e 1954, giocando con la maglia dei Tre Leoni fino a 42 anni (nessuno lo ha ancora superato).

E’ il 2 maggio 1953 il suo giorno, la partita che è passata alla storia come la “finale di Matthews”. Nel prestigioso stadio di Wembley si giocava la finale di Fa Cup, il trofeo più antico del mondo, tra il Blackpool di Stanley e il Bolton, largamente favorito, che dopo soli 75 secondi, conferma i pronostici della vigilia passando in vantaggio e raddoppiando al 18′. Un gol del Blackpool nel primo tempo, illuse i mandarini che si ritrovarono subito sotto per 3-1 all’inizio della ripresa.
A Wembley ci fu record di affluenza, c’erano 100mila persone, molte solo per incoraggiare Matthews che, però, sulle gambe, era piegato in due dalla stanchezza. A 38 anni a inseguire gli avversari più giovani, a correre, dribblare e fare su e giù sulla fascia. Ma ecco la magia: al 69’ Stanley Matthews trascina la squadra alla rimonta, involandosi sulla destra e crossando in mezzo per Mortensen che segnò il 2-3. A un minuto dal 90esimo è ancora Mortensen a realizzare il 3-3, su punizione. Quando tutti erano con la testa ai supplementari, Matthews, mai domo,  ancora sulla fascia, scodellò un altro pallone, questa volta, a Perry che trasforma il 4-3 finale.

Hai 32 anni, pensi di riuscire a giocare un altro paio di stagioni?

E’ quello che disse Joe Smith, allenatore del Blackpool a Stanley Matthews nel 1947. Sei anni prima della finale di Fa Cup e nove anni prima del Pallone d’oro.

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