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Rimmel è una delle cose più immense della musica italiana. L’album e l’omonima canzone che racchiudono l’arte poetica di Francesco De Gregori, videro la luce nel 1975.
Franco Baresi aveva 15 anni e, già al tempo, era soprannominato “Piscinin” prima di cedere spazio e gloria al più pomposo nomignolo di “Kaiser Franz” in onore di Franz Beckenbauer. Il paragone regge e reggerà nel corso dei decenni calcistici: Franco Baresi, genio, anticipo, tackle, purezza e scorza. Tra i più completi liberi nella storia.

Anzi no. Completo tecnicamente, incompleto e incompiuto per quello che tanto ha dato al mondo del pallone e tanto poco ha ricevuto. Pallone ingrato. Dalle pagine chiare e ricche di trionfi con il Milan, legato sempre e per sempre (altra citazione di De Gregori) ai rossoneri, alle pagine scure della Nazionale.
Dalle pagine chiare di un Mondiale, quello del ’94, che l’ha visto leader anche fuori dal campo, con il recupero record in 20 e poco più giorni dall’infortunio al menisco, alle pagine scure del triste epilogo americano. Il sogno americano frantumato dagli 11 metri.

Franco Baresi, l'ultimo difensore

Il capitano della Nazionale allenata da Arrigo Sacchi si infortunò nella sfida contro la Norvegia. Era appena la seconda partita del girone. Che si fa, si torna a casa? Nemmeno per scherzo.
Decise di operarsi immediatamente, a meno di 24 ore dall’infortunio. Voleva rientrare a tutti i costi sperando in un successo dietro l’altro dei suoi compagni di squadra. A 34 anni si è saggi e stolti abbastanza per fare di tutto pur di acciuffare l’ultimo treno della vita: un Mondiale con la fascia di capitano.
Dopo sette giorni dall’operazione lasciò la clinica, senza stampelle e raggiunge il ritiro degli azzurri. «Un miracolo», dissero gli altri strabuzzando gli occhi.

Franco non crede ai miracoli, ma li sa fare (ancora De Gregori): in difesa è il leader, elegante, ordinato, deciso e sportivo. Dopo l’operazione non aveva bisogno di allenarsi, che gli serviva? Conosceva Sacchi, Maldini, Costacurta e Tassotti. Blocco Milan sinergico e amici di tante sfide.
Rimesso in piedi e in ottime condizioni fisiche e muscolari, non così scontato se si gioca a luglio, il 17, in un clima umido che sbalzava i gradi oltre i 40°.

Franco Baresi, un nome e un numero: 6 per sempre

La finale contro il Brasile è una delle sue migliori partite si sempre. Con il numero sei sulle spalle, annienta gli attaccanti verdeoro da Romario a Bebeto. Solo i crampi lo buttano a terra, ma al 120’ dopo i supplementari e prima dei calci di rigore.
Visto i continui rimandi a De Gregori, sarebbe lineare dire che non è da questi particolare che si giudica un giocatore. Vorremmo, quasi con paterna consolazione ripeterlo ancora oggi, dopo più di 20 anni, a Franco Baresi. Sussurrargli parole dolci e di conforto dopo il tiro, travolto dalla stanchezza, calciato alto, oltre la traversa.

E’ un eroe fragile, un eroe incompiuto e forse anche per questo è eterno nei ricordi degli appassionati. Perché si è dimostrato umano. Una divinità che, a 34 anni, dopo aver recuperato in meno di un mese da un infortunio serio, dopo i rigori falliti e la coppa del Mondo alzata dal Brasile, si è lasciato andare in un genuino pianto.
La Gazzetta dello Sport gli diede 9. A un passo dalla perfezione.

La prima volta di un giocatore squalificato tramite prova tv, l’ultima partita di Mauro Tassotti con la maglia azzurra, lui che, al Mondiale Usa del 1994, ci arriva a 33 anni quasi per caso, alla sua ultima possibilità, chiamato perché il ragazzotto conosce i dettami di mister Sacchi e di lui ci si può fidare. Una storia strana quella del terzino del Milan con l’Italia che lui ha già in mente di abbandonare dopo l’esperienza negli Stati Uniti: in azzurro non era riuscito a trovare spazio quando, nel fior della sua carriera, macinava chilometri e marcava attaccanti nella difesa del Milan. Lo trova a fine carriera, ma, conoscendo gli esiti drammatici e beffardi di quel Mondiale perso ai rigori contro il Brasile, forse era meglio non arrivarci. Perché Italia – Spagna, match dei quarti di finale, è per tutti la gomitata di Tassotti al giovane Luis Enrique.

Un pomeriggio afoso, quello del 9 luglio 1994 al Foxboro Stadium di Boston, un catino rovente che ospita il quarto di finale tra Spagna e Italia. Chi vince incontra la Bulgaria in semifinale. E’ un match aperto a tutti e tre i risultati possibili: l’Italia di Arrigo Sacchi gioca un ottimo primo tempo e passa meritatamente in vantaggio al 25’ con la rete del centrocampista Dino Baggio; il secondo tempo è altalenante, sale la Spagna guidata da Javier Clemente che trova il pareggio, al 58’, con un fortunato tiro deviato di Caminero. Le Furie Rosse sfiorano anche il gol del sorpasso in più di un’occasione, ma prima dei supplementari, è l’altro Baggio, il fantasista Roberto, a superare Goicoechea, a tre minuti dal 90’, per siglare il definitivo 2-1.

Squadre stanche, spossate dal caldo e da una sfida sfibrante, la mente non comanda più il corpo che reagisce d’impulso, di stimoli esterni. Così in pieno recupero e in piena area di rigore, con il pallone che sta per giungere proprio in quella zolla di campo, Mauro Tassotti, tenendo a bada Luis Enrique, commette un’autentica sciocchezza assestando una decisa gomitata sul viso dell’asturiano che stramazza a terra. Attimi di attesa, tutti aspettano il fischio dell’arbitro ungherese Puhl che, invece, lascia proseguire il gioco. Il 24enne spagnolo, colmo di ira e con il naso sanguinante, si alza furioso, il colpo c’è stato e solo il replay spiega con esattezza la dinamica. Il match finirà di li a poco e così anche il Mondiale di Tassotti: il terzino del Milan verrà squalificato per otto giornate grazie alla prova televisiva. L’Italia è in semifinale, lui con la testa già a casa. In un’intervista anni e anni dopo dirà:

Purtroppo è una cosa che è diventata parte integrante della mia carriera. Ho fatto una stupidata. Una grossa stupidata di cui ero già pentito un minuto dopo…Nella carriera di un calciatore ci sono episodi fortunati ed episodi sfortunati. Non potrai mai sapere come andrà a finire un’entrata su un avversario. Di sicuro non c’era premeditazione, è stata una cosa istintiva

Fa caldo, fa davvero tanto caldo al Rose Bowl di Pasadena, California. Italia Brasile, Usa ’94, è il 17 luglio 1994. La Fifa ha obbligato l’orario infernale di mezzogiorno, in piena estate. L’umidità toglie il respiro, il sole battente acceca la ragione. Fa molto caldo anche in Italia, dove un intero Paese si è fermato per vedere l’atto conclusivo del Mondiale americano. Si gioca alle ore 20, da Palermo a Milano passando da Roma. A reti unificate su Raiuno, la pay tv è agli albori e la Nazionale significa Bruno Pizzul (quel giorno in coppia con Carlo Nesti). In radio ci sono Sandro Ciotti e Riccardo Cucchi.

L’Italia è arrivata alla finale incerottata, stremata. Barese recuperato all’ultimo dopo l’intervento al menisco. Roberto Baggio, autentico trascinatore con Nigeria, Spagna e Bulgaria, con un ginocchio ko. Beppe Signori schierato terzino sulla fascia da Arrigo Sacchi. In avanti Massaro, dietro la cerniera milanista con il capitano rossonero e Paolo Maldini, sulla fasce Mussi e Benarrivo. In porta Pagliuca. E’ una Nazionale molto milanese e poco juventina, presente solo con i due Baggio, il divin Codino e Dino. Di contro il Brasile di Bebeto e Romario, Dunga e Taffarel, Branco e Mazinho. Il vate di Fusignano contro Carlos Alberto Parreira.

La partita

La partita è bloccata, noiosa, impaurita. Il caldo frena qualsiasi tentativo di spettacolo. Baggio, che in campo cammina, appare spento. Massaro spreca una buona occasione, un giovane Cafu sostituisce l’infortunato Jorginho. Copia incolla per Apolloni con Mussi. Branco cerca la sortita su punizione, ma nulla accade. Anche il secondo tempo va avanti stancamente. Alla mezz’ora ci prova dai 30 metri Mauro Silva, onesto centrocampista di ripiegamento del Deportivo La Coruña. Un tiro apparentemente innocuo per Pagliuca che però sottovaluta il pericolo. Il pallone gli sfugge, rimbalza per terra, sembra poter superare la linea di porta.

Il palo

Italia e Brasile trattengono il respiro. Paura e delirio avvolte in un attimo. Il pallone dopo il rimbalzo sbatte sul palo e torna in possesso del portiere italiano. Pagliuca lo recupera, ma riconoscente torna indietro. Un bacio su quel montante di legno che lo aveva aiutato. Lo aveva salvato dalla gogna eterna. “La papera di Pagliuca decide la finale”, erano pronti i titolisti. Invece dovranno attendere i supplementari e poi i rigori. Gli errori di Baresi e Massaro, il tiro al cielo di Baggio. Pagliuca para il penalty di Marcio Santos, ma non basta. Il primo Mondiale finito ai rigori lo vince il Brasile. Lo aveva deciso anche un palo baciato dal pallone. E da Pagliuca.

Il calcio, si sa, è uno sport magico. Per il calcio si gioisce e ci si dispera, si esulta e si soffre. Basta un gol del proprio beniamino o una parata decisiva del portiere della squadra avversaria perché le emozioni degli appassionati esplodano in un senso o nell’altro, sempre all’estremo, come forse non accade in nessun altra manifestazione sportiva. Ma, a volte, nel calcio accadono tragedie assurde ed incomprensibili, che restano impresse nell’anima dei tifosi come un ospite indesiderato che non ci pensa neanche a togliere il disturbo.

È il caso di questa storia: la storia di un calciatore, un ottimo calciatore, uno di cui avremmo sicuramente sentito parlare parecchio, che avrebbe avuto una carriera di sicuro successo e che, almeno in parte, l’ha avuta, prima che venisse stroncata definitivamente nel modo più assurdo che si possa immaginare. Sì perché la vita – e la carriera – di questo giocatore è terminata a soli 27 anni fuori da una discoteca di Medellin il 2 luglio 1994 spezzata dai colpi esplosi da una mitraglietta. Stiamo parlando di Andrès Escobar, che oggi avrebbe compiuto 50 anni.

UN POTENZIALE CAMPIONE

Andrés Escobar Saldarriaga nasce il 13/03/1967 a Calasanz, quartiere nord-occidentale della città di Medellín, nel cuore della Colombia andina.

Realtà non facile quella in cui Escobar cresce: il narcotraffico fra gli anni 70 e 80 è una realtà radicata con cui convivere e finirci invischiato è più di un rischio per un giovane di quegli anni.
Ma Andrès è diverso, si diploma e persegue quello che è il suo vero sogno: diventare un calciatore professionista. Sin da ragazzino si distingue come ottimo difensore grazie all’eleganza e l’efficacia degli interventi e queste doti gli permettono, appena ventenne, di diventare titolare inamovibile e simbolo della squadra principe della sua città: l’Atletico Nacional di Medellin.
Ma Escobar non è solo un giovane terzino, roccioso ed affidabile. E’ un giocatore ed uomo onesto, che gioca pulito senza eccedere con l’aggressività degli interventi. Ed è questa prerogativa che gli farà guadagnare il soprannome di El Caballero del Futbol (Il cavaliere del calcio).

Le sue prestazioni gli fanno ben presto ricevere le attenzioni del selezionatore della Nazionale colombiana, Francisco Maturana, che già nel 1988 lo convoca in Nazionale, venendo immediatamente ripagato della fiducia con l’unica rete internazionale di Escobar, peraltro in un palcoscenico di lusso: lo stadio di Wembley, dove la Colombia affronta l’Inghilterra in una partita valida per la Stanley Rous Cup.
Anche a livello di club, Escobar si toglie grosse soddisfazioni, con il suo Nacional che è protagonista di una cavalcata trionfale nella Copa Libertadores del 1989 fino alla vittoria ai calci di rigore contro l’Olimpia di Asunción.
Ed è proprio grazie a questa vittoria che il Nacional contenderà la Coppa Intercontinentale all’imbattibile Milan degli olandesi, venendo sconfitto solo grazie ad una perla di Chicco Evani su punizione all’ultimo minuto dei supplementari, dopo una partita ostica e gagliarda. Escobar è il più fiero alfiere di quella squadra e le sue indubbie doti lo portano addirittura, secondo parte della stampa, nel radar dello stesso Milan, salvo poi accasarsi allo Young Boys.
Ma il difensore colombiano probabilmente non digerisce con facilità il freddo clima bernese. Nel giro di pochi mesi, torna nella natia Medellín, consacrandosi definitivamente come eroe dei tifosi. Con la squadra della sua città, dove concluderà la breve carriera, riesce ad aggiudicarsi anche il campionato nazionale nel 1991.
In quegli anni Escobar fa parte della selezione colombiana forse più forte di tutti i tempi, una squadra che annoverava tra le sue fila fenomeni, ingestibili, del calibro di Valderrama, Higuita e Tino Asprilla, e un mix di giocatori di assoluto valore quali “El Tren” Valencia e Leonel Alvarez e giovani di ottima prospettiva quali Harold Lozano, Ivan Valenciano e Faryd Mondragon.
Addirittura, nelle qualificazioni ad USA ‘94, l’undici di Maturana riesce nell’impresa di imporsi per 5-0 a Buenos Aires, rifilando così uno schiaffo storico alla più quotata Selección argentina.

IL DISASTRO DI USA ’94

Ed è anche per questo che c’è grande attesa attorno alla Colombia ai blocchi di partenza di USA ’94. La Colombia sembra essere pronta per un mondiale storico e anche l’urna sforna delle avversarie più che abbordabili per Los Cafeteros: Romania, Svizzera e USA.
Ma l’avversario più ostico per quella Colombia è…la Colombia. I sudamericani sembrano in vacanza, non giocano con convinzione e vengono presi a pallate prima dalla Romania di Raducioiu e Hagi e poi dai padroni di casa, prima di vincere inutilmente con la Svizzera. Tutti a casa.
Ed è proprio contro gli USA che va in scena il dramma di Andrès: al minuto 35 il difensore, nel tentativo di ribattere un cross filtrante, colpisce male in scivolata e deposita il pallone alle spalle di Oscar Cordoba. E’ forse il fotogramma più famoso di quei Mondiali.

Gli esiti della disastrosa campagna a stelle e strisce non tardano ad arrivare: la stampa è furiosa e il rientro in patria di Maturana e soci non è certo leggero. Fin qui tutto normale.
Ma nessuno, nemmeno in quella Colombia fuori controllo ed in costante guerra civile, poteva pensare che una “catastrofe” calcistica potesse tramutarsi in una tragedia umana come quella che fu.

FINE DELLA STORIA

Il 2 luglio 1994, Andrés sta cercando di dimenticare le delusioni sportive e si gode la frizzante serata di Medellìn con la sua ragazza. Una normale serata estiva, almeno così sembra.
Si, perché c’è chi non ha dimenticato l’autogol di una settimana prima, qualcuno che aveva scommesso sul passaggio del turno dei Cafeteros: l’ex guardia giurata Humberto Muñoz Castro che, all’uscita di una discoteca, si avvicina al giocatore ed esplode sei (o dodici secondo alcuni) colpi di mitraglietta verso di lui. Fine della storia.
La fidanzata di Escobar sosterrà in seguito che l’omicida abbia urlato “Goooool!”, come nello stile delle telecronache calcistiche sudamericane. Secondo altri testimoni, il killer urla invece “Grazie per l’autogol!” mentre fa fuoco.
Dopo la tragedia, i compagni di squadra di Escobar, per paura di ulteriori ritorsioni, vengono sottoposti ad un regime di massima sicurezza. Il racconto dell’assurdo.

Ma in questa assurda storia c’è una speranza, una nota lieta. Ed è la consapevolezza che la fama del Caballero ha saputo resistere al tempo e che il suo ricordo è ancora vivo nel cuore dei tifosi colombiani, che ancora oggi intonano cori in onore del loro idolo. Ma questo non è sufficiente per accettare che si possa morire per un autogol.

 

Il palcoscenico del Mondiale è anche un modo per mettere in mostra non solo le abilità calcistiche e atletiche dei calciatori che ne prendono parte.

Tra le spettacolari quanto bislacche “sceneggiate” ci sono le capigliature che alcuni giocatori hanno messo in mostra durante un Campionato del Mondo.

Tra i goleador più forti di tutti i tempi c’è Bobby Charlton, il quale nel 1966 ha trascinato la nazionale dei Tre Leoni alla vittoria del primo e sinora unico Mondiale. Il bomber inglese durante il torneo (svoltosi in Inghilterra). I suoi gol hanno fatto la storia così come la sua stempiatura. Capelli al vento durante i match hanno fatto sì che Charlton diventasse un  calciatore famoso non solo per i gol messi a segno.

Continuando a parlare di stempiatura, come non citare l’ivoriano Gervinho a Brasile 2014. Come Bobby Charlton la stempiatura è evidente ma l’africano, durante tutta la sua carriera, ha cercato di mascherarla. Spesso però tale trucchetto non è servito e anche durante un match di campionato di Serie A con la Roma è andata di scena una gaffe clamorosa.

Alternativa è stato anche il look messo in mostra da Trifon Ivanov, difensore bulgaro a Usa 1994. Con grande autostima si è presentato con una capigliatura stile Benicio Del Toro nel film “Wolfman”. Forse per incutere paura agli avversari?

Un altro inglese, ma al Mondiale 1990, che si è mostrato al mondo intero con un look shock è stato Chris Waddle a Italia ’90. Capello corto nella parte superiore e lungo nella parte posteriore, non certo un bel vedere.

Sempre in Italia, anche il tedesco Rudi Voeller ha mostrato un capello lungo capello riccio con il solito baffo che lo ha sempre contraddistinto anche a Roma.

Restando in tema “riccio” e a Italia ’90 come non citare i due colombiani Rene Higuita e Carlos Valderrama. Capelli biondi stile afro per il numero 10, capelli lunghi e folta chioma per il portiere.

Tra gli italiani è doveroso citare le treccine di Roberto Baggio a Usa ’94. Addirittura i barbieri italiani in quel periodo sono andati letteralmente in crisi a causa della numerosissima richiesta dei ragazzini ad avere lo stesso look del Divin Codino.

Dalle treccine di Baggio al “triangolo” di Ronaldo. Il Fenomeno si è presentato con un look veramente particolare, quanto impresentabile, al fischio d’inizio della finale del 2002 contro la Germaia. Solo qualche mese fa è stato svelato il segreto di quella capigliatura. Ronaldo sapeva che non era al 100% e i giornalisti continuavano a parlare della sua condizione fisica. A quel punto la punta brasiliana decise di tagliare i capelli in quel modo così che i giornalisti abbiano iniziato a parlare d’altro.

Oh e a proposito dei Mondiali del 2002 in Corea e Giappone e di Germania…a voi il patriottismo di Christian Ziege. I colori della nazionale e un taglio da Mohicani. Cosa volere di più?

Tra le tante meravigliose storie dei Mondiali c’è sicuramente quella della Svezia ad USA 1994, capace di arrivare terza ed uscita in semifinale contro il Brasile, vincitore della competizione. Tra le leggende di quella squadra non si può non menzionare Roland Nilsson, difensore nativo di Helsingborg e perno della formazione del Goteborg che vinse la Coppa Uefa, oltre ad essere secondo per numero di presenze con la maglia della nazionale. Una carriera gloriosa che ha raggiunto il suo momento più alto proprio nella kermesse statunitense dove arrivò la medaglia di bronzo al termine della finalina stravinta contro la Bulgaria.

Nilsson
Fonte foto: svenskafans.com

Nilsson ha concesso una lunga intervista in esclusiva ai microfoni della Fifa ricordando i bei momenti del 1994 e facendo il punto sulle ambizioni della Svezia verso Russia 2018. Nel corso della sua carriera ha partecipato a due Mondiali giocando tutti i 930 minuti a sua disposizione. “La prima esperienza, quella del 1990 in Italia, è stata difficile. Tornavamo a giocare la Coppa del Mondo dopo dodici anni, molte cose non andarono per il verso giusto. Abbiamo imparato dai nostri errori: già ad Euro ’92 disputammo una buona competizione, più passava il tempo più eravamo pronti e maturi per USA ’94. Tutta la nostra preparazione era focalizzata sul nostro calcio, non ci siamo distratti, è stato un periodo fantastico: l’atmosfera, gli stadi, i campi mi portano alla mente dei ricordi così belli“.

La partita che ricordo con più gioia è il quarto di finale con la Romania (2-2; 5-4 d.c.r.). Nei tempi supplementari eravamo sotto 2-1 e con un uomo in meno: il nostro spirito combattivo è uscito fuori proprio in quel momento e Kennet Andersson ha realizzato il gol del pareggio (su assist proprio di Nilsson). Ai calci di rigore le parate di Ravelli ci hanno salvato: è stato incredibile“. Ha continuato l’ex difensore della nazionale che poi è uscita contro il Brasile in semifinale: “Nella fase a gironi avevamo pareggiato ma loro erano uno squadrone. Abbiamo giocato per mezz’ora in inferiorità numerica ma siamo riusciti a non concedere nulla tranne un piccolo spiraglio ad un attaccante magnifico come Romario che ci ha puniti“.

Riguardo i Mondiali che verranno, Nilsson ha poi aggiunto: “Oggi vale esattamente quello che valeva allora: è fondamentale iniziare bene, la Svezia deve battere la Corea del Sud. La squadra è buona, lavora sodo e si è qualificata brillantemente ai playoff contro l’Italia. Sappiamo che sarà difficile fare quello che noi abbiamo fatto nel 1994 ma con un po’ di fortuna possono farcela”.

Un’impresa incredibile ed irripetibile e, per questo, degna degli Oscar dei Mondiali di Calcio. L’impresa del calciatore che non ti aspetti, di un onesto mestierante del pallone che seppe non solo uscire inaspettatamente dall’oblìo, ma addirittura elevarsi a “Migliore Attore Protagonista” nella massima competizione mondiale a livello di Nazionali. La cinquina Mundial di Oleg Salenko ad Usa ’94.

Gli inizi

Oleg Anatovlevic Salenko da Leningrado, classe 1969, a livello giovanile sembrava un prospetto di sicuro avvenire: nel 1989, si era distinto per prestazioni di assoluto livello durante il Mondiale Under 20 disputato in Arabia Saudita con l’allora Unione Sovietica, chiudendo da capocannoniere con cinque reti, nonostante la prematura uscita dei sovietici ai quarti di finale contro la Nigeria.
La sua carriera non aveva poi avuto l’esplosione sperata e il talento russo era rimasto a vivacchiare nel campionato ucraino fino al 1992 quando, con la dissoluzione dell’URSS, si trasferì in Spagna, al Logrones, dove in 2 stagioni mise insieme 23 reti. Insomma, un attaccante di discreto livello, abbastanza prolifico, ma adatto a realtà di piccolo cabotaggio.

Il Mondiale americano

Anche per questo ad Usa ’94, il 25enne Oleg rappresentava una seconda scelta per il CT Sadyrin: pur venendo da una stagione positiva in Liga, i titolari inamovibili erano i più quotati Radchenko del Racing Santander e Yuran del Benfica.
Si prospettava un breve Mondiale da comprimario, con la Russia inserita in un girone di ferro con Brasile, Svezia e Camerun e già quasi eliminata dopo le sconfitte con il Brasile (2-0), all’esordio, e con la fortissima Svezia (3-1 con gol proprio di Salenko su rigore) di Kenneth Andersson.

Ma spesso è in queste situazioni di stallo che un evento può cambiare la storia: Yuran non recupera e non è arruolabile per la decisiva gara con il Camerun: si spalancano quindi per Salenko le porte della titolarità e lo sgusciante attaccante non vuole farsi sfuggire l’occasione.

Contro i Leoni d’Africa Oleg è una furia: segna 5 gol e la Russia vince con un tennistico 6-1.
E poco importa se la vittoria è inutile e i sovietici escono nella fase a gironi: si tratta di un exploit incredibile, che permette al russo di entrare nella storia dei Mondiali come unico calciatore ad avere segnato una cinquina in una sola gara e di vincere la classifica cannonieri del Mondiale in coabitazione con Hristo Stoichkov.

Un record pazzesco, capace di mettere in sordina l’altro evento da guinness che si verificò in quella partita: il gol della bandiera per il Camerun venne infatti realizzato da Roger Milla, che diventò il giocatore più anziano a segnare nella massima competizione internazionale con i suoi 42 anni e 39 giorni.

Ma non fu l’unico record che Salenko fu capace di timbrare quel giorno. Diventò infatti anche il primo capocannoniere dei Mondiali sia a livello Under 20 che con le nazionali maggiori.

Il declino

Sembrava un nuovo inizio, un segnale che lasciava presagire fasti importanti anche per il prosieguo della carriera di un giocatore ancora giovane e nel pieno della sua maturità calcistica. Nulla di tutto questo: grazie all’impressione destata, Salenko viene immediatamente ingaggiato dall’ambizioso Valencia ma il suo acquisto si rivela un bluff: 7 gol in tutta la stagione e cessione ai Rangers con i quali, se possibile, l’avventura, anche a causa di continui problemi fisici, è ancora più disarmante e lo porta a girovagare senza meta in Turchia, ancora in Spagna e infine in Polonia, fino al ritiro dopo una mesta annata al Pogon Stettino.
Un’inesorabile parabola discendente che lo portò nuovamente ai margini della Nazionale dove, dopo quella cinquina, racimolò la miseria di altre 6 partite senza mai andare a segno, per uno score totale di 8 presenze e 6 gol.
Ma quel che conta e che rimarrà ai posteri è quanto fu in grado di inventarsi in quel torrido pomeriggio americano, nell’occasione più importante, che lo rese indimenticabile agli occhi degli appassionati e che gli permette di diritto di essere considerato ancora oggi l’emblema degli eroi nascosti, il simbolo della rivincita dei Carneadi. Forse questo può valere quanto una carriera di successo?

Ricorre oggi l’ottantesimo compleanno di uno dei più grandi telecronisti calcistici della storia italiana che, con la sua voce calda e familiare, è entrato nei salotti di tutta Italia accompagnando le più forti emozioni legate al calcio italiano fino agli albori degli anni 2000. Buon compleanno Bruno Pizzul.

LA CARRIERA

Nativo di Udine, Pizzul tentò la carriera di calciatore con le maglie di Pro Gorizia, Catania, Ischia e Udinese, senza troppa fortuna, puntando poi sull’istruzione, fino alla laurea in giurisprudenza, e sul lavoro di giornalista, intento che lo portò a partecipare con successo ad un concorso nazionale per radio-telecronisti rivolto ai giovani laureati del Friuli.

Dal 1969 in RAI, Pizzul si è subito distinto per le spiccate doti comunicative e per una voce dal timbro inconfondibile che gli permise di diventare, in breve tempo, una delle voci di punta della televisione pubblica. Nella sua carriera fu voce narrante di grandi imprese sportive ma, purtroppo, anche di gravi fatti di cronaca. Senza dubbio il momento più difficile della sua carriera si ebbe infatti in occasione della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool del 29 maggio 1985, quando si trovò a dover commentare e vivere in prima persona la strage allo Stadio Heysel. Una tragedia immane senza dubbio impossibile da dimenticare.

Innumerevoli le vittorie a livello di squadre di club che Pizzul ebbe il piacere di commentare, a partire da quella del Milan nella Coppa delle Coppe contro il Leeds United il 16 maggio 1973, quando, nella finale di Salonicco, l’11 del “paron” Rocco ebbe la meglio sui Peacocks grazie ad una rete di Chiarugi. Indimenticabile la sua telecronaca nella mitica finale di Atene nella Champions League ‘93/’94 quando il Milan di Capello surclassò il Barcellona di Cruyff con un perentorio 4-0 grazie a Massaro (2), Savicevic e Desailly.

LA NAZIONALE

Lo stesso purtroppo non si può dire per la Nazionale: Bruno Pizzul fu infatti voce ufficiale delle gare dell’Italia dal 1986 al 2002, “partecipando” a ben 5 Mondiali (Messico ’86, Italia ’90, Usa ’94, Francia ’98, Giappone – Corea 2002) e diventando di diritto un’icona della Nazionale. Un’icona ma non di certo un amuleto. Attivo subito dopo la gloriosa spedizione al Mundial ’82 e dimissionario subito prima dell’impresa di Berlino nel 2006. A pensarci bene, sembra uno scherzo.

Nella splendida cavalcata ad Usa ’94, Pizzul accompagnò i sentimenti degli italiani incollati al televisore, dalla gioia inaspettata nella vittoria soffertissima con la Nigeria, grazie alle magie di Baggio,all’esaltazione derivata dalle vittorie su Spagna e Bulgaria fino al grido strozzato dei sogni infranti con quel rigore alle stelle dello stesso Divin Codino.

Altrettanto amara la spedizione europea del 2000 dove gli Azzurri, in finale contro la Francia di Zidane, dopo il meritato vantaggio di Delvecchio, dovettero sottostare prima alla dura legge della Zona Cesarini, con il gol di Wiltord all’ultimo respiro, poi alla tirannica regola del Golden Gol, con la rete di Trezeguet a spezzare ogni nostra velleità e a consegnare la coppa agli odiati cugini d’oltralpe.

Ma poco importa. Bruno Pizzul si è guadagnato un posto sicuro nel cuore di tutti gli sportivi, appassionati di calcio e non, grazie alle sue telecronache competenti e mai banali e la sua voce coinvolgente e rassicurante. Non resta che augurargli Buon Compleanno sperando, magari, di poterlo risentire in onda in vista dei suoi 80 anni.

Ben 51 anni fa nasceva, in una cittadina del profondo Veneto a due passi da Vicenza, quello che, a detta di molti, è stato il più cristallino talento che il nostro calcio abbia saputo plasmare nel Dopoguerra, un calciatore che con la sua eleganza di tocco e di movenze sapeva far apparire semplice anche il più complesso esercizio di tecnica, che ha saputo essere decisivo con il proprio club e con la Nazionale, riuscendo a raggiungere nel 1993 il massimo riconoscimento a cui un calciatore possa ambire: il Pallone d’Oro. Nasceva Roberto Baggio.

Le sue gesta sono state capaci di un unire forte un paese, l’Italia, sicuramente più propenso a dividersi nelle opinioni e nei comportamenti, dove si reputa forte chi critica più aspramente, chi si dimostra più sprezzante ed offensivo.Si può facilmente ammettere che Baggio sia stato l’idolo senza maglia.

Con Roberto Baggio tutto questo non era possibile: lui era il calcio, non potevi non amarlo. Al più, potevi sentirti tradito come da una compagna che ti ha lasciato senza apparente motivo ma a cui sei comunque legato, come accadde ai tifosi della Fiorentina quando, nella stagione 90/91, Roby passò alla corte dell’odiata Juventus di Gigi Maifredi per 16 miliardi di lire e il cartellino di un altro dei prospetti più interessanti del calcio di quegli anni, Renato Buso. A Firenze ci furono proteste di piazza contro la Presidenza Pontello e scontri che mai si erano visti per la cessione di un giocatore ma il troppo amore può portare anche a questo, ad andare oltre le righe.

Il suo nome è inscindibilmente legato a due eventi: la vittoria del Pallone d’Oro 1993 e il Mondiale di Usa ’94.

IL PALLONE D’ORO 1993

Il 1993 è un’annata dorata per il fenomeno di Caldogno: Baggio, nonostante la miriade di infortuni già patiti nel corso della sua giovane carriera, riesce infatti ad essere decisivo per la conquista della Coppa Uefa da parte della Juventus con tanto di doppietta nella finale di andata contro il Borussia Dortmund.
Quell’anno non ce n’è per nessuno: Roby vince il Pallone d’Oro davanti a Dennis Bergkamp e Eric Cantona, il Fifa World Player e l’Onze d’Or guadagnandosi un posto indelebile nella storia del calcio.

Ma il suo mito è sicuramente annodato alle sue clamorose prestazioni al mondiale americano dove risollevò dalle proprie ceneri un’intera Nazionale portandola ad un passo dalla più clamorosa delle vittorie Mondiali.

USA ‘94

 I mondiali di calcio, in quel ‘94 sarebbero stati disputati in America. Mossa, riuscita, voluta dalla Fifa per provare ad appassionare al “soccer” un popolo abituato a sport più sedentari come il baseball o il football americano.
La Nazionale di Sacchi arrivava negli States nell’occhio del ciclone della critica e con il morale sotto i tacchi dopo l’indimenticabile sconfitta 2-1 con il Pontedera in un’amichevole di preparazione, che aveva messo sulla graticola l’Arrigo nazionale e tutti i suoi fedelissimi.

E di certo i risultati del primo girone eliminatorio non autorizzavano a pensieri sereni visto che gli Azzurri superarono il turno per il rotto della cuffia come migliore terza grazie ad una sudatissima vittoria con la Norvegia, dopo una sconfitta con l’Eire e prima di un pareggio risicato (1-1 gol di Massaro) con il Messico.
Proprio contro i colossi scandinavi si assisteva al punto più basso della campagna statunitense di Baggio. Gli azzurri iniziano contratti e la Norvegia ci crede. Al 21’ Mussi sbaglia il fuorigioco, Leonhardsen si invola verso la porta e viene steso da Pagliuca: rosso inevitabile. Sacchi, preferendo la corsa di Signori alla creatività di Baggio, lo richiama in panchina.
Fortunatamente in squadra – guarda il caso – c’è un altro Baggio, Dino, che al 69’ trova la giusta incornata e scaccia l’incubo.

Agli ottavi c’è la Nigeria, squadra giovane e dinamica, che ha destato una grande impressione mettendo in mostra alcune perle assolute, come J.J. Okocha, Finidi George e Oliseh. Gli africani partono forte e vanno in vantaggio con Amunike, restiamo in 10 per il protagonismo del pessimo arbitro Brizio Carter e non ci sono scintille di reazione.

La partita sembra finita e sepolta, la Nazionale pronta alla giubilazione, all’esonero cruento Sacchi, alla decapitazione Matarrese. Sembra già tutto deciso, ma nessuno ha fatto i conti con due fattori che hanno poco di terreno: la Regola del 12 e un marziano di nome Roberto Baggio.
Mussi vince un rimpallo e fornisce a Baggio la palla della vita: Pareggio all’ultimo respiro. E’ qui che il “Divin codino” ci fa capire la sua grandezza: riesce a far sbottonare un rigido Sandro Ciotti che, durante la radiocronaca, esclamò un «Santo Dio, era ora!» che mette ancora i brividi.
Nei supplementari, Benarrivo si invola in area e viene steso: Roby insacca dal dischetto e portiamo a casa un’insperata qualificazione ai quarti.

Da quel momento in poi è storia nota: Roby si sblocca e, con prestazioni ai limiti dell’umano con Spagna (gol vittoria) e Bulgaria (doppietta d’autore), ci porta quasi da solo a Pasadena dove purtroppo il finale, al cospetto dell’eterno nemico Brasile, è quello che tutti ricordiamo. Davanti a Taffarel la tensione anestetizza Baresi, Massaro e proprio Baggio e la Coppa del Mondo va a Brasilia.

Ma tant’è: non è certo da un calcio di rigore che si giudica un giocatore. Baggio è stato la delizia degli allenatori che hanno avuto la fortuna di poterlo annoverare tra le fila delle loro squadre grazie al suo talento cristallino e alla sua capacità di determinare nei momenti decisivi. Qui sta la grandezza del calciatore. Certo, come tutti i geni, il suo temperamento era solo apparentemente remissivo, prova ne siano gli screzi avuti con Arrigo Sacchi e, ancor più, con Marcello Lippi, ma la sua professionalità e la sua dedizione alla causa sono sempre rimaste intatte. Qui sta la grandezza dell’uomo.

Roberto Baggio è stato una perla preziosa, una stella del firmamento calcistico.
A questo punto, che si può dire di fronte a un campione di queste dimensioni nel giorno del suo cinquantesimo compleanno? Forse la semplicità è la soluzione migliore: Buon compleanno Divin Codino. E grazie di tutto.