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La doppietta del capitano statunitense, che alla vigilia aveva battibeccato con il presidente Donald Trump, regola la Francia. Inutile il centro dell’1-2 di Renard all’81’. Ora sfida all’Inghilterra in semifinale il 2 luglio.

FRANCIA-USA 1-2

5′ e 65′ Rapinoe (U), 81′ Renard (F)

FRANCIA (4-2-3-1): Bouhaddy; Torrent, Mbock, Renard, Majri; Henry, Bussaglia; Diani, Asseyi, Le Sommer (82′ Asseyi); Gauvin (76′ Cascarino). Ct. Diacre

USA (4-3-3): Naeher; O’Hara, Dahlkemper, Sauerbrunn, Dunn; Ertz, Mewis (82′ Lloyd), Lavelle (63′ Horan); Heath, Morgan, Rapinoe (87′ Press). Ct. Ellis

Gli Stati Uniti superano le padrone di casa della Francia e diventano la seconda semifinalista del Mondiale femminile. La nazionale di Jill Ellis ha capitalizzato al meglio la doppietta di Megan Rapinoe, che vale il pass per sfidare il prossimo 2 luglio l’Inghilterra per un posto in finale. Tardiva la reazione francese con Renard.

Megan Rapinoe ha risposto alle polemiche con il presidente americano Donald Trump, che l’aveva criticata per per non aver cantato l’inno nazionale, con una doppietta. Che permette al capitano statunitense di raggiungere in vetta alla classifica cannonieri del Mondiale la compagna di reparto Alex Morgan e l’inglese Ellen White. Al 5′ c’è stato il piede della giocatrice numero 15 a calciare alle spalle di Bouhaddi da posizione defilata e firmare l’1-0, mentre il raddoppio Usa è stato firmato dalla Rapinoe raccogliendo un passaggio da destra della Healt e spedendo in rete il quinto centro personale nella competizione. Due gol festeggiati con l’inchino, a ricordare il gesto di protesta scelta dalla 33enne durante l’inno, quando come molti campioni del football americano, prima di alcune partite della sua squadra dei Seattle Reign, si era inginocchiata. Una doppietta da semifinale, che la zuccata di Wendie Renard per l’1-2 (assist della Thiney) non ha scalfito. Usa tra le prime quattro e capaci di confermare una tradizione che ha visto la nazionale statunitense superare per otto volte su otto i quarti di finale nei mondiali, inaugurata nel 1991.

 

La formazione degli Stati Uniti è sicuramente tra le favorite al prossimo Mondiale femminile in Francia e,  proprio nella nazionale americana, c’è una delle calciatrici più forti del mondo qual è la vicecapitana Alex Morgan.

L’attaccante dell’Orlando Pride, oltre a essere una prolifica marcatrice sul campo (ha segnato più di 100 reti con la sua nazionale), è altrettanto attiva in importanti iniziative fuori dal rettangolo verde.

La famosa rivista americana del Time ha voluto dedicarle la copertina con il titolo “The Equalizer” una lunga intervista.

Alex Morgan, 29 anni, di professione attaccante ed “equilibratrice”

La calciatrice ha sottolineato quanto fondamentale sia fare bene al Mondiale, specie perché gli Usa sono favoriti ma, altrettanto importante è l’impatto sociale. Alex Morgan da anni combatte per l’eguaglianza di genere al fine di ottenere il rispetto, l’attenzione e la retribuzione alla pari dei colleghi maschi. Il Campionato del Mondo può e deve essere una vetrina di riscatto.


Grazie alle sue iniziative, la punta americana è stata anche inserita nella nota lista delle donne più influenti del 2019 proprio dalla rivista Time. L’atleta rispecchia i tre criteri fondamentali per far parte del ranking: potenzialità della figura pubblica; influenza nel corso di eventi significanti; esempi morali di vita a cui ispirarsi.

 

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Thank you @time for including me as one of the 100 most influential people of 2019, what a dream!!

Un post condiviso da Alex Morgan (@alexmorgan13) in data:


Da sempre Alex Morgan, inoltre, si è detta lontana dalle politiche del presidente Donald Trump, soprattutto riguardo le scelte di separare le famiglie dei migranti al confine messicano. Per una serie di motivi la 29enne ha deciso di declinare l’invito del presidente alla Casa Bianca, in caso di vittoria del torneo.

Non solo lotta per pari diritti tra uomo e donna, Alex Morgan è anche una famosa scrittrice, autrice di libri per bambini della serie “The Kicks”, best sellers del New York Times. La collana racconta di una ragazza di 12 anni di nome Devin, che gioca per la squadra di calcio dei Kentville Kangaroos, nota come The Kicks.

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Un famoso numero della serie The Kicks

Nei libri ci sono tanti riferimenti al passato della calciatrice in cui si racconta come c’è stata la crescita calcistica della Morgan. Famoso è stato il primo libro della serie, “Saving the team”. Al suo interno c’è “una nota di Alex” indirizzata a sua madre quando aveva 8 anni. Quella nota è poi stata posta sul frigo da sua madre e il suo contenuto è diventata poi una ragione di vita.

Paradossale quanto ingiusto è quello che è successo alla nazionale iraniana poco prima di iniziare la sua quinta partecipazione al mondiale.

Invece di dedicarsi esclusivamente alla preparazione e agli allenamenti per il grande evento ormai prossimo, i giocatori di Carlos Queiroz sono stati costretti a recarsi in un negozio sportivo per comprare gli scarpini.

E inevitabilmente è la politica che influenza la dinamica degli eventi anche quando l’attenzione dovrebbe essere riservata soltanto al gioco e allo sport che i Mondiali vogliono offrire.

Trump contro il medio-oriente, Usa contro Teheran: la diatriba coinvolge anche la Nike, sponsor ufficiale della squadra, costretta a sospendere la fornitura delle calzature ai calciatori iraniani.

Le sanzioni decise dal governo Usa comportano che la Nike, in quanto azienda statunitense, non possa fornire in questo momento le scarpe ai giocatori della nazionale iraniana

Questo è quanto dice il comunicato dell’azienda sportiva per giustificare la sua decisione, che vale solo per le partite che la squadra gioca all’estero. Nulla vieta però ai diretti interessati di acquistare scarpe col noto marchio.

Ma resta comunque il disagio di doversi procurare l’attrezzatura poco prima di debuttare in campo e l’amarezza per un comportamento ingiusto che poteva essere evitato alla vigilia della competizione mondiale.

L’ira e la rabbia del ct iraniano è palese nelle sue parole di accusa:

Decisione ingiusta e dovrebbero scusarsi perché questa condotta arrogante contro 23 ragazzi è assolutamente ridicola e inutile. I giocatori si abituano al loro equipaggiamento sportivo e non è giusto cambiarlo una settimana prima di partite così importanti

Fortunatamente il problema non sussiste per le divise da gioco che, essendo fornite dall’azienda tedesca Adidas, non devono sottostare ad alcun tipo di restrizione.

Per la prima volta, anche nel calcio, gli iraniani devono fare i conti con la politica a causa di un embargo del presidente americano che mina la serenità della squadra e la mette in difficoltà, negandole quei privilegi che altri team possiedono, come la scarpa su misura, modelli diversi a seconda del campo e un cambio da usare dopo l’intervallo.

Accorato e giustificato, quindi, l’appello di Queiroz:

Siamo solo manager e calciatori, e non dovremmo essere coinvolti in queste questioni, stiamo chiedendo alla Fifa di aiutarci

Ma il debutto è ormai agli sgoccioli: l’Iran, con o senza l’aiuto della Fifa, scenderà in campo contro il Marocco venerdì 15 giugno alle ore 17.00.

Dal titolo di migliore giocatore del Mondiale Under-17 del 1999, di strada Landon Donovan ne ha fatta parecchia. Esploratore controcorrente ma con un filo invisibile che non l’hai portato lontano da casa sua. A trionfare, in Nuova Zelanda, fu come al solito il Brasile, ma gli occhi di attenti osservatori erano tutti puntati sul ragazzo piccolo e brevilineo nato ad Ontario il 4 marzo 1982. E’ il Bayer Leverkusen a strappare per primo il “sì” del giocatore che si affaccia nel calcio che conta, nel calcio europeo, invertendo la rotta di chi ha attraversato l’oceano Atlantico cinque secoli prima.

Parliamo del miglior marcatore nella storia della Nazionale statunitense, con 57 gol a pari merito con Clint Dempsey, e della Major League Soccer con 145 reti. Sì della Mls, il campionato a stelle e strisce che ci fa subito ben capire come l’esperienza nel Vecchio Continente non sia stata così trionfale e indimenticabile.
Sotto contratto con il club tedesco, Donovan viene girato più volte in prestito: prima ai San Jose Earthquakes e poi ai Los Angeles Galaxy, club che si cucirà sulla sua pelle condividendo gli anni migliori e vincenti. Acquistato definitivamente dal club, per Landon le porte e i porti dell’Europa non si sono mai chiusi: durante le sessioni di pausa del campionato americano, Donovan prova a lasciare il segno nel Bayer Monaco, ma soprattutto nel dicembre 2009 quando viene  ufficializzato il suo passaggio in prestito all’Everton.

Dopo il flop in Bundesliga, c’è la Premier League pronta a esaltarsi per un suo gesto, una sua giocata. L’americano è concentrato e motivato, ci sono i Mondiali del 2010 ad attenderlo e uno spirito di rivalsa, una voglia di invertire una narrativa scostumata contro gli americani che non sanno giocare a football.
Con il club blu di Liverpool, Donovan gioca 10 partite collezionando 2 gole quattro assist, venendo inserito nella formazione del mese e ribaltando la stagione fin lì negativa dell’Everton. Che si fa, si rimane? Il club inglese prova a rinnovare il prestito, ma l’esperienza inglese termina momentaneamente lì, prima di ripetersi nel dicembre 2011,  sempre con l’Everton, per giocare ancora una volta in prestito durante la pausa della Mls.

 

Icona in patria e apprezzato anche in Europa per i suoi lampi a sprazzi, Donovan nel 2014 annuncia il ritiro, per poi ripensarci nel 2016. Terminata la stagione, a inizio 2017, dice: «Non riesco nemmeno più ad inseguire mio figlio in giro per casa».
Il che vuol dire: è stato bello, io appendo le scarpe al chiodo. E così è sembrato per tutto l’anno, salvo poi di colpo lasciare nuovamente tutti sorpresi: il 13 gennaio 2018 viene tesserato dal Club Léon, squadra della massima serie messicana.  Landon Donovan ha ancora voglia di giocare a calcio e già che c’è lascia partire una bordata al Presidente americano, Donald Trump:

Mi sono innamorato della città, qui ci sono i tifosi migliori. Il Club Leon è una squadra storica e vincente. Io non credo nei muri, voglio andare in Messico, indossare il verde e vincere trofei. Ci vediamo presto!

Nella carriera sportiva del talento americano ritorna il Messico: sì perché Donovan (che ha partecipato a sei edizioni della Concacaf, vincendone quattro, a due Confederations Cup, e a tre Mondiali) nella Coppa del Mondo del 2002, quella in cui gli Stati Uniti vengono eliminati ai quarti di finale dalla Germania per 1-0 e a lui gli viene assegnato il riconoscimento come miglior giovane dei mondiali, proprio contro i messicani mette a segno la rete del 2-0, quella della sicura qualificazione – tra l’altro di testa, non il suo marchio di fabbrica.

 

Non male come colpo di coda per il 35enne dal volto di eterno Peter Pan. Ma non è tutto perché ai prossimi Mondiali in Russia lui ci sarà, seppur sotto differente veste: Donovan sarà infatti sarà nel team di FoxSport per commentare e analizzare i vari match.

Ancora una volta le strade tra lo sport e Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, si incrociano per motivi non certo piacevoli.

Stavolta il protagonista della vicenda è un campione del sollevamento pesi, Rostami, che si trova suo malgrado coinvolto in una situazione difficile che gli potrebbe costare la partecipazione ai prossimi Mondiali.

La competizione, che avrà luogo ad Anaheim, in California dal 28 novembre al 5 dicembre, si svolge nel suolo americano e ogni atleta deve sottostare, dunque, alle restrizioni imposte dal Presidente degli Stati Uniti. Sfortunatamente, in seguito ad eventi politici di un certo rilievo, è stato deciso da Trump che alcuni paesi non possono entrare in America.

Tra questi rientra anche l’Iran, terra d’origine del campione Rostami, al quale è stato negato il visto per poter partecipare alla rassegna iridata.

Kianoush Rostami è un grande atleta nella disciplina del sollevamento pesi: ha vinto l’oro nelle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 e mantiene il primato mondiale nella categoria 85 kg.

Parliamo quindi di un campione affermato che ha il diritto di gareggiare nella prossima competizione mondiale. Ma a Trump questi titoli sembrano non interessare, perché la black list che ha stilato personalmente non può avere eccezioni.

Rostami però non ci sta e si ribella a questa ingiustizia che lo costringe a guardare la gara da casa! Ecco tutta la rabbia nelle sue stesse parole, dove chiarisce le sue motivazioni a partecipare all’evento:

Io non penso alla politica, ma a vincere un’altra medaglia d’oro. Nel mio conto ho due milioni di dollari e ho detto agli americani che nel mio paese ho questi soldi. Poi ho aggiunto che sono il migliore e il più famoso sollevatore di pesi del mondo, e il primatista assoluto. Non voglio una green card, non m’interessa, sono orgoglioso di essere iraniano e voglio tornare nel mio paese. Io amo l’Iran, i nostri martiri e gli eroi di guerra

Non c’è dubbio su quale sia il suo pensiero, al quale sono seguite anche le azioni: Rostami è persino andato a Dubai per ottenere i documenti, ma ancora non è cambiato nulla.

Di fronte alle continue accuse e pressioni da parte dell’atleta iraniano il governo statunitense risponde in questo modo:

Siamo in continuo contatto con il Dipartimento di Stato attraverso il nostro comitato olimpico e spero che tutti gli atleti che hanno chiesto il visto d’entrata lo ottengano. E posso anche aggiungere che l’Iran sarà benvenuto, visto che nel nostro sport è uno dei miglior team del mondo

Insomma, da un lato c’è un visto negato per paura che l’atleta possa richiedere asilo politico e dall’altro c’è un paese che prende delle precauzioni di carattere politico e che chiede di avere pazienza. Il Mondiale, però, è alle porte e l’ansia di Rostami è del tutto lecita.

Vedremo come si evolveranno i fatti nei prossimi giorni e se l’atleta potrà provare a vincere un altro oro anche in questa nuova sfida mondiale.

Non è passato nemmeno un mese da quando è scoppiato il contrasto aperto tra il presidente americano Donald Trump e i membri di alcuni sport, a causa delle discordanze legate all’inno nazionale.

Tutto è nato quando per difendere delle minoranze etniche i giocatori del basket con l’Nba, del football con la Nfl e del baseball con la Mlb hanno deciso di inginocchiarsi durante l’inno. Uno dei primi a schierarsi era stato un ex giocatore, Colin Kaepernick, ed era appoggiato completamente anche da Roger Goodell, il commissario della Nfl.

Anzi, dalle sue stesse parole si leggeva una nota di rimprovero nei confronti del presidente d’America che tendeva a creare divisioni all’interno dello sport.

Infatti, durissima è stata la reazione del presidente contro queste manifestazioni sovversive che lui stesso ha giudicato irrispettose verso il paese. Le sue parole sono state molto chiare e decise e addirittura è arrivato ad invitare gli allenatori a licenziare i dissidenti.

Una polemica che ha assunto contorni sempre più sgradevoli con botta e risposta tra le autorità americane e alcuni team sportivi, coinvolgendo intere squadre, pronte ad inginocchiarsi ad ogni inizio partita.

Ad oggi cos’è cambiato? La Nfl ha ritrattato la sua posizione a favore dei giocatori che protestavano e ha iniziato ad appoggiare Trump.

Ecco le dichiarazioni di Goodell:

Come molti dei nostri fan, crediamo che tutti dovrebbero stare in piedi per l’inno nazionale. È un momento importante delle nostre partite – Vogliamo onorare la nostra bandiera e il nostro Paese, e i nostri tifosi se lo aspettano da noi

La notizia fa subito scalpore. Nessuno si aspettava questo cambio di rotta repentino, che, invece, è stato accolto da Trump con grande soddisfazione.

Probabilmente il commissario della Nfl ha deciso di sedare le polemiche che stavano diventando sempre più forti raggiungendo il culmine qualche giorno fa, quando il vicepresidente Mike Pence ha deciso di non rimanere nel campo di Indianapolis a causa del comportamento di molti giocatori che ancora una volta si sono messi in ginocchio mentre veniva suonato l’inno nazionale.

Sulla stessa scia, anche Jarry Jones, il proprietario del Dallas, ha minacciato la sua squadra di non fare giocare chi decideva di protestare in quel modo mancando di rispetto all’intera nazione di appartenenza. Comportamento alquanto strano visto che proprio qualche settimana fa era il primo ad inginocchiarsi in mezzo agli altri!

Sembra, quindi, che la questione stia finalmente trovando una soluzione che sicuramente non accontenta tutti ma fa felice il presidente Trump, che si è rasserenato e ha espresso i suoi elogi verso chi lo sta finalmente appoggiando in questo frangente:

Un grande plauso a Jerry Jones, proprietario dei Dallas Cowboys, che metterà in panchina chi non rispetta la nostra bandiera. In piedi all’inno o seduti in partita!

Anche stavolta Trump riesce ad assoggettare al suo volere anche chi, per amore dello sport o per paura di ritorsioni, si era messo contro di lui. Resta il fatto che nonostante sia in parte stato assecondato in questa questione dell’inno nazionale, in molti continuano a pensare che sia comunque giusto far sentire la propria voce contro le ingiustizie, in un modo o nell’altro. 

 

Ancora una volta il presidente americano Donald Trump è stato capace di mettersi nei guai con le sue stesse dichiarazioni. Stavolta, però, ad essere colpiti duramente sono gli sportivi, che hanno reagito subito con inni di protesta contro il presidente.
Gli sport chiamati in causa sono il basket con l’Nba, il football con la Nfl e il baseball con la Mlb, che hanno iniziato una lotta in cui non intendono affatto cedere, rischiando di far vacillare la posizione del politico che già di recente non gode più dei favori di tutti.

Tutto è iniziato il 22 settembre quando Trump, durante un comizio in Alabama, ha parlato dei giocatori neri di football che si inginocchiano per protesta durante l’inno nazionale prima delle partite, attaccandoli molto duramente. Ha detto che la protesta è una mancanza di rispetto per gli Stati Uniti e che sarebbe bellissimo vedere i proprietari delle squadre dire:

Portate quel figlio di puttana fuori dal campo, fuori, è licenziato

Già da un po’ di tempo, infatti, è in atto una forma di protesta a favore delle minoranze etniche che si esprime proprio nel momento in cui viene cantato l’inno nazionale. I giocatori si rifiutano di cantare e preferiscono rimanere in ginocchio per tutta la sua durata.
Le parole di Trump sono state molto forti: per lui è inaccettabile un comportamento simile e deve avere come conseguenza il licenziamento immediato del giocatore!

Com’era prevedibile la reazione è stata istantanea e forse ancora più grande di quanto il presidente stesso poteva immaginare. Gli sportivi sono tutti uniti nel mantenere attiva questa protesta che sta raggiungendo altissimi livelli e coinvolgendo atleti di punta, come Bruce Maxwell, della squadra degli Oakland Athletics, che è stato uno dei primi a mettersi in ginocchio mentre suonava l’inno americano.

 

Anche i giocatori di Nba non si tirano fuori da questa polemica, anzi possiedono un posto in prima fila dopo la revoca dell’invito di Trump alla casa Bianca, che doveva celebrare la vittoria del campionato dei Golden State Warriors. Pare che il presidente non abbia gradito le dichiarazioni dei giocatori in merito alla questione.
La manifestazione contro Donald Trump raggiunge il suo culmine quando nello stadio di Wembley, a Londra, i giocatori dei Jacksonville Jaguars e dei Baltimore Ravens hanno deciso di mettersi tutti in ginocchio, per sfidare il loro presidente.

Ma la protesta ha coinvolto proprio tutti: non solo gli atleti si sono inginocchiati, ma lo hanno fatto anche tutte le persone che fanno parte del loro team. L’idea di dare una lezione morale a Trump non è arrivata solo nello stadio londinese ma ha percorso un po’ tutti gli stadi che vedevano le loro squadre coinvolte in partite più o meno importanti.

Lo slogan che accomuna tutti è lo stesso:

…e ora licenziateci tutti!

Ma queste proteste non fanno che accrescere ora dopo ora le ire del Primo cittadino americano che non demorde, anzi ribadisce ancora una volta che questi giocatori sono irrispettosi e meritano di andarsene a casa.>
Il mondo dello sport è fortemente amareggiato per la situazione che si è venuta a creare, perché suo malgrado è stato coinvolto in una lotta di interessi politici che rischia di dividerlo. Al momento, però, si mostra molto unito contro un presidenzialismo rigido e discriminante che non intende accettare.