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Lui c’ha provato con forza e tenacia a non mollare. A riprendersi in mano il rugby, la sua vita, ricucendo le ferite e ricostruendosi una carriera, nonostante il parere negativo dei medici.
E’ tornato ad allenarsi a levarsi dalla testa quell’orribile incubo in cui è piombato una sera di novembre nel 2015. Ma alla fine Aristide Barraud si è dovuto arrendere e mollare il suo sport.

Il mediano francese d’apertura del Mogliano, club di rugby a 15 che milita in Eccellenza, il 13 novembre 2015 era a Parigi, non molto lontano il teatro Bataclan preso di mira dai terroristi che sparavo forsennatamente contro tutto e tutti.
In mezzo al caos e al sangue, anche lui fu colpito: i proiettili impazziti lo colpirono a un polmone e a un piede. Ha visto la morte in faccia, è stato tra i pochi fortunati a uscire vivo da quella strage, un mese di ospedale e poi la lenta e complessa rieducazione per tornare a giocare. Appena rientrato a casa, scrisse un messaggio di ringraziamento ai tanti sostenitori:

Giorno dopo giorno sto riprendendo il controllo della mia vita. Ho scoperto tutti i vostri messaggi di sostegno e d’amicizia. Vi devo la mia guarigione veloce, il vostro sostegno mi ha portato molto dal primo giorno. Secondo i dottori, devo la mia vita alla mia forza mentale e alla mia condizione fisica. Secondo me, la devo alla forza di mia sorella e dei miei amici che sono riusciti a tenermi sveglio

 

Da allora Barraud si è sottoposto a diverse operazioni, si è allenato, ha rivisto il campo solo per qualche corsa. A piccoli, ma decisivi passi, sembrava potesse ritornare al rugby giocato.
In realtà, qualche mese fa, ha capito che il suo fisico stava pian piano cedendo. Una decisione sofferta, amara, ma che non manca di speranza e voglia di vivere. Ancora.

 

Poche sere fa, mentre insieme ai compagni stava cucinando una delle usuali grigliate, ha espresso il desiderio di poter dire le stesse cose a tutti, una sola volta, raccontare la verità e poi lasciarsi tutto alle spalle per andare finalmente avanti. Nell’ultima partita dei suoi compagni davanti al pubblico di casa, ha battuto il calcio d’inizio salutando il pubblico modo suo.
In una lunga e commovente lettera sul sito della società, Aristide annuncia il suo ritiro, spiegando le difficoltà e i rischi degli ultimi mesi. Qui, riportiamo solo una parte:

Da tre mesi ho visto il mio corpo non accettare più lo sforzo fisico e inviarmi segnali negativi, troppi. Ho 28 anni, il mio corpo è a dir poco distrutto. Due mesi fa mi hanno diagnosticato ulteriori problemi causati dalle cure effettuate per tenermi in vita. Con tutti gli altri danni fisici subiti, non sono cose che posso trascurare ed ho iniziato ad aver paura per la mia vita. Tornando a giocare rischio oggettivamente la morte, e morire in campo, davanti ai miei amici e a chi mi vuole bene non mi sembra assolutamente una buona idea. Volevo arrivare fino in fondo, raggiungere l’obiettivo che pensavo fosse tornare quello di prima, ma evidentemente non mi ero reso conto di quanto fosse realisticamente impossibile. Ho lottato con tutte le mie forze e sono vivo, spaccato, distrutto, ma ancora in piedi ben saldo sulle mie gambe. Il rugby mi ha salvato la vita, l’idea di tornare a giocare mi ha salvato la vita. Mi ha tenuto lontano anche dall’incubo della follia. Però adesso devo ascoltare quello che il mio corpo mi sta dicendo da tempo, sono arrivato al limite e non intendo più oltrepassarlo. Tornerò, perché questo sport è la mia vita, ma lo farò quando starò davvero bene e potrò dare il meglio di me stesso per gli altri. Penso che un domani potrò essere utile a quelli che rappresenteranno il futuro di questo sport. Amo il rugby e amo la gente che lo vive con passione. L’Italia mi ha dato tantissimo e un giorno vorrei poter restituire quello che ho ricevuto. Ciao a tutti

Giovanni Sgobba

Un intero paesino di 9mila abitanti a fare il tifo per la loro beniamina dall’altra parte del mondo. E lei, nonostante i pronostici sfavorevoli, riesce a vincere. E’ la storia di Barbara Pozzobon, 23 anni, di Maserada sul Piave (in provincia di Treviso) che, caparbiamente, si è voluta mettere in gioco nella maratona acquaticaSanta Fe – Coronda.
In cosa consiste? Ben 57 km da percorrere nuotando nelle acque del fiume argentino Coronda, prima tappa del Fina Open Water Swimming Grand Prix 2017. Una competizione estenuante e prestigiosa, giunta alla 43esima edizione, riconosciuta e ammirata sia per la sua difficoltà che per la sua tradizione: a seguirla, infatti, c’erano circa 100mila spettatori.

Quella di Barbara è un’autentica impresa: tra bracciate e crampi dolorosissimi, la nuotatrice tesserata alla società Usd Hydros ha sbaragliato la concorrenza delle altre 15 donne in gara, tagliando per prima il traguardo con un tempo di 8 ore 53’ 42’’. Un debutto da sogno alla prima apparizione in Coppa del mondo di gran fondo: nella storia della “Santa Fe – Coronda” è il primo successo di una nuotatrice azzurra.

E pensare che Barbara nemmeno doveva esserci: gli organizzatori, infatti, a causa delle numerose richieste di partecipazione, l’avevano inserita tra le riserve per dare spazio a chi, in passato, aveva già disputato una gara nella Coppa del mondo. Dopo il forfait di un’atleta e le pressioni della Federazione italiana che si è esposta come garante, la nuotatrice ha ottenuto il pass per la maratona.

Certo che il viaggio in Argentina costa, costa davvero tanto. Come fare? Ecco che dietro al trionfo sportivo c’è anche il successo umano di un paese che ha spinto per vederla gareggiare, tanto da finanziarle il viaggio.
Barbara si è rivolta a un paio di aziende che, poi, autonomamente hanno organizzato un colletta coinvolgendo praticamente ogni abitante di Maserada. Sono arrivati a mettere insieme circa 2mila euro, una cifra sufficiente per pagare parte delle spese.
Ma non è tutto: come una finale Mondiale di calcio, i più “scalmanati” hanno provato a seguire la gara in diretta streaming dal bar del paese. La connessione non era il massimo, ma l’entusiasmo, quello sì, c’era tutto.