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Fila numero 15, posto 164. Allo stadio Mestalla, casa del Valencia. Vicente Navarro Aparicio, classe 1928, ha sempre visto la partita lì.  Una vita passata a tifare Valencia, tanto appassionato che quando è diventato cieco ha continuato ad andare allo stadio. Con suo figlio, che gli raccontava quello che succedeva in campo. Vicente a Mestalla si sedeva sempre nello stesso posto, e da questa primavera il suo seggiolino è occupato per sempre: il Valencia nell’anno del centenario ha deciso di rendere omaggio a lui, ai non vedenti e soprattutto alla passione dei tifosi. Il posto 164 della fila 15 della tribuna centrale è occupato da una scultura in bronzo che ritrae un uomo con bastone mentre guarda la partita. È lui, Vicente Navarro Aparicio. Che quando è morto nel 2016 era il socio numero 18 per anzianità del Valencia.

Vicente era un operaio della Campsa. Era nato nel 1928 già con problemi alla vista, poteva vedere solo da un occhio. Nel 1985, quando aveva 54 anni, a causa di un distacco della retina ha perso la vista nell’unico occhio che poteva usare e si è affiliato alla Once, l’associazione che si occupa dei non vedenti raccogliendo denaro attraverso la lotteria.  È morto nel 2016, e per tutti questi anni ha sempre continuato ad andare a Mestalla col figlio. Quando divenne completamente cieco decise solo di cambiare posizione: dal Settore 16, più lontano, passò alla Tribuna Centrale, per essere più vicino al prato e sentire meglio la gara.

Vicente aveva un orologio che schiacciando un bottone diceva l’ora: tutti tifosi del Valencia che sedevano accanto a lui gliela chiedevano continuamente mentre passavano i minuti della gara, lui schiacciava e mezza tribuna sapeva quanto mancava alla fine.

La scultura sarà il simbolo che rappresenterà, per l’eternità, tutti coloro che hanno provato, provano e proveranno per sempre l’emozione che comporta tifare per il Valencia

Al Genoa scriverei una canzone d’amore, ma sono troppo coinvolto

Questa frase è apparsa domenica 8 gennaio 2017, sulle maglie del Genoa nella sfida contro la Roma, durante il 19esimo turno di Serie A. Una frase di Fabrizio De André per un progetto che ha visto, nelle domeniche successive, citazioni di personaggi famosi legati alla storia e alla tradizione rossoblù.
Ma quelle parole del cantautore ligure ben dimostrano l’attaccamento verso la maglia del Genoa, un attaccamento così viscerale dal fermarlo a scrivere brani, strofe o componimenti. Lui che ha tessuto poesie su tanti argomenti, non è riuscito a scrivere nulla sua squadra amata.

Faber, nato a Genova il 18 febbraio 1940 e morto a Milano l’11 gennaio 1999, non aveva mai nascosto il suo amore per il Genoa, ma forse, solo dopo la sua morte è stato più chiaro capire la sua vera essenza: «Ho una malattia», disse una volta il cantautore durante un suo concerto. Silenzio, stupore e preoccupazione. Poi appoggiò la chitarra, prese una lunga sciarpa dai colori rosso e blu e aggiunse: «Si chiama Genoa».

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Perché è vero: la squadra del cuore accompagna l’esistenza di ogni vero tifoso. Ti prende da bambino per motivi che sfuggono dalla logica, per i colori della maglia, per il giocatore preferito, perché è la squadra della tua città. Fabrizio rimase ammanicato nel 1974, la prima volta in uno stadio, a Marassi per un Genoa – Torino, spinto dal padre Giuseppe e dal fratello Mauro che simpatizzavano per i “Granata”. Forse per puro antagonismo, decise di schierarsi contro suo padre e suo fratello.

Nel libro “Il Grifone fragile – Fabrizio De André, storia di un tifoso del Genoa”, uscito nel 2013 e scritto da Tonino Cagnucci, emergono sfumature particolari e romantiche della passione del cantautore. Sfogliando suoi vecchi diari, appunti e agende vengono annotati episodi fantastici: da piccolo Fabrizio chiese, in una letterina a Gesù Bambino, tra un vestito da cow boy e i soldatini, la maglia del Genoa.
Più grande, invece, annotava con una scrittura meticolosa le formazioni della squadra, la classifica del campionato, i marcatori, i possibili diffidati.
Confessò, inoltre, in una intervista che durante il periodo del rapimento in Sardegna nel 1979, uno dei suoi giorni peggiori fu quando sentì alla radio che i rossoblù avevano perso a Terni.

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Se allo stadio Olimpico, quando gioca in casa la Roma, echeggiano le note dell’inno scritto e cantato da Antonello Venditti, romanista verace, sotto la “Lanterna” non è così con De André: «L’inno non lo faccio perché non mi piacciono le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord».
Magia e sentimenti si intrecciano nella vita del cantautore, nato nell’ultima settimana in cui il Genoa è primo in classifica nella sua storia, a quel punto del campionato.

Dalla nascita alla morte, sempre legato alla fede rossoblù: Fabrizio De André s’è fatto cremare assieme a un naso da clown e alla sciarpa del Genoa. In tutta la sua vita da musicista non l’hai mai nominato: questo gesto lega per sempre il cantautore poeta e genoano alla sua eterna squadra. Perché non è una blasfemia dire che De André sia stato un tifoso di calcio…del Genoa.

Ha bruciato Koulibaly con uno scatto nello stretto, e scusate già se è poco, si è portato sul destro, non il suo piede, e ha battuto Ospina con un tiro rasoterra, infimo, che è passato sotto le gambe del portiere del Napoli. Momo Salah è stato ancora una volta devastante e trascinatore del Liverpool in Champions League: il suo gol al 34’ del primo tempo ha tenuto fino alla fine, grazie anche alla prodezza dell’altro ex-Roma, Alisson, decisivo al 92’ su Milik. E’ l’1-0 che ha dato alla squadra inglese il passaggio del turno agli ottavi, castigando la squadra di Ancelotti a una cocente eliminazione e al terzo posto che vuol dire Europa Leauge.

Ad Anfield erano presenti 52.015 tifosi, la maggior parte dei quali ovviamente fedeli ai colori “reds” e tra questi, mentre lo stadio esulta all’unisono al gol dell’egiziano, ce n’è uno sui cui le telecamere indugiano: è un ragazzo non vedente venuto allo stadio col cugino. Quest’ultimo lo abbraccia e non la smette di urlare per la felicità.

Poi gli si avvicina all’orecchio e gli racconta l’azione che ha portato al gol dell’1-0, l’assolo travolgente di Mohamed Salah. E’ la passione che supera i confini, si incunea nel sangue di chi vive per serate magiche come queste.

 

Diceva di avere più presenze di Cafù nella Seleçao. Sì, perché se il pendolino di Roma e Milan ha collezionato 142 gettoni con la maglia verdeoro, c’era chi, seppur non in campo, ha seguito ovunque il Brasile. La sua vita in quasi 160 partite viste negli stadi di tutto il mondo. E se i Pentacampeão si chiamano così per aver vinto cinque Mondiali, lui Clovis Acosta Fernandez, di Coppe del Mondo ne ha viste dal vivo ben sette.

Aggiungete pure altrettante edizioni della Copa America, quattro Confederation Cup ed una Olimpiade. Da Italia ‘90 a Brasile 2014, un percorso che gli ha permesso di respirare l’aria di 66 stati diversi: globetrotter di quel tifo puro e incontaminato, empatico a vederlo solo in viso.

Voi, noi tutti Clovis ce lo ricordiamo: i suoi occhi romantici e innamorati, i suoi baffoni grigio setola e il suo cappello gaucho pieno zeppo di spille racimolate in giro per il globo, da vero mandriano del Sudamerica. E le sue lacrime la notte del Mineirazo, la notte della tragedia di una nazione che alleva bambini che sanno prima controllare un pallone che parlare. Nella disfatta del 7-1 contro la Germania, noi Clovis l’abbiamo visto per l’ultima volta abbracciare teneramente la riproduzione del trofeo mondiale che coccolava da lustri lungo le sue avventure e consegnarla a una piccola tifosa tedesca dicendo, con gli occhi luminosi e umidi: «Non è semplice cedervela, ma ve la meritate. Portatela in finale». Il gesto più dolce nella notte più amara.

E’ nel solco generazionale che si cuce la storia, è il pallone che continua a girare, è il calcio che tenacemente fa venire i brividi e la pelle d’oca. Aveva cominciato nel 1970, a quindici anni, quando era rimasto incantato da quelle stesse casacche giallo-oro che dominarono ai Mondiali del Messico, quello delle prime volte, delle prime partita in tv a colori. Lì decise che avrebbe seguito il Brasile per tutta la vita, ma ci riuscì solo nell’edizione del 1990, in Italia. Ha venduto la sua macchina, una trebbiatrice, la moto e poi l’orologio, per accumulare un gruzzolo onesto per essere lì con la sua squadra a Usa ‘94, Francia ’98, Corea e Giappone 2002, Germania 2006 e Sudafrica 2010.

E quando la telecamera inquadrava Clovis il mondo sembrava più mite, era come se la nostra vita per 90 minuti venisse appagata da quelle scorie di ingiustizia che ci trasciniamo nell’ordinario. Clovis era la nostra coperta di Linus, la nostra sicurezza.
Ma i tempi verbali di questo racconto sono al passato perché il “Gaucho de Copa” se n’è andato nel settembre 2015, a 60 anni, per un cancro che l’ha tartassato per nove lunghi anni. In un ospedale di Porto Alegre che da tre anni sorride un po’ di meno. Fino all’ultimo con il suo cappello da cowboy del sud, carta d’identità per ricordare le sue origini.

Ma quel cappello vive ancora e il racconto cambia declinazione verbale e guarda al presente e al futuro. In Russia il cappello c’è e che anche una nuova Coppa del Mondo e dei nuovi baffi, più leggeri e più neri. Frank e Gostavo, i figli del tifoso leggendario, hanno deciso di intraprendere un nuovo viaggio che è un po’ un percorso di vita, un passaggio di consegne nella famiglia Fernandes.
Il posto sull’aereo rimane vuoto e quando gioca il Brasile, inconsciamente, speriamo di rivedere quei baffi paternali in tribuna. Le lacrime del suo ultimo Mondiale che scendevano lungo i profondi solchi delle sue guance rugose e un tempo paffute, sono un’ingiustizia di questa vita terrena.  E’ quella punta di malinconia, essenza stessa della bossa nova. E di tutto il Brasile.