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Accadde Oggi: A Selma, il 17 marzo 1972 nasceva Mariel Margaret Hamm detta Mia, ex calciatrice statunitense, di ruolo attaccante, ritenuta la migliore calciatrice della storia

 

Per un breve infinito istante, sembrava che il tempo si fosse fermato nell’estate del 1999. In una calda giornata californiana, uno stadio stracolmo con oltre 90.000 tifosi rimase in silenzioso e immobile, carico di ansia e paure, mentre Brandi Chastain si preparava a prendere la rincorsa per calciare il rigore che avrebbe potuto consegnare la Coppa del Mondo al suo Paese, agli Stati Uniti, padroni di casa.

Era il 10 luglio e il Rose Bowl di Pasadena ribolliva di afa e sudore. Una partita infinita, quella contro la Cina, dopo lo 0-0 dei 90’ minuti e dei supplementari. La terza finale del Mondiale femminile si sarebbe decisa ai calci di rigore. Brandi Chastain, destro naturale, era stata allenata per calciare anche di sinistro ,e anche se non aveva mai tirato dagli 11 metri col suo piede debole, decise di andarci col sinistro. Aveva già alzato al cielo la prima storica Coppa del Mondo, nel 1991, e a lei toccava il quinto e ultimo rigore dopo che la cinese Liu Ailing aveva fallito il suo tentativo. Un’ultima esitazione, poi il tiro e il boato.

Before a packed and jubilant stadium, the U.S team received their gold medals.

Un ruggito travolse  Chastain: tutto il team della Nazionale femminile statunitense corse verso la propria eroina; lei si strappò la maglia, la sventò per aria prima di crollare sulle sue ginocchia. Quella, a sua insaputa, diventerà l’esultanza più iconica nel calcio femminile anche perché quella finale, a suo modo, segnerà il passo decisivo verso la crescita esponenziale di un movimento e di una credibilità agli occhi di tutto il mondo.

Risultati immagini per Brandi Chastain

Fu la finale di fine millennio e mai una folla così festante e voluminosa si era riunita precedentemente per un evento sportivo femminile. Non solo presenti allo stadio e durante tutto il Mondiale, ma per estensione quasi 40milioni americani videro quel match. Certo, lo sport ha corso tantissimo negli ultimi decessi, sono state raggiunte nuove vette e nuovi record, ma dopo 20 anni, l’eredità lasciata dalle “99ers” (come vengono chiamate in America le eroine del 1999) è ancora sotto gli occhi di tutti. Un’eredità che si è espansa oltre i confini patriottici e di cui ne ha beneficiato tutto il calcio e le donne stesse.

Alla fine degli anni ’90, il calcio femminile era nella  sua acerba formazione, stava sbocciando com’era evidente dalla mancanza di risorse economiche e copertura mediatica. Formata nel 1985, la Nazionale americana, partecipò al suo primo torneo in Italia, un quadrangolare che vedeva anche l’Inghilterra e la Danimarca, ma più che essere una squadra, più di sentire addosso il peso della maglia, era un agglomerato di atlete prim’ancora che calciatrici. Michelle Akers, forza del centrocampo di quell’epoca, ricorda che nonostante le strigliate del coach, fu solo quando iniziarono a subire cocenti sconfitte che l’orgoglio venne scalfito e decisero di impegnarsi e radicalizzare il calcio nella loro cultura.

Captain Carla Overbeck (4) raises the World Cup trophy aloft, elevating women's football to another level in the country.

I meriti furono, poi, di Anson Dorrance, che nel 1986, prese le redini della Nazionale femminile e instillò nelle giocatrici la massima filosofia possibile: era un sogno, una visione, vedere gli Stati Uniti arrivare in alto, essere la squadra migliore al mondo. Un seme piantato in ciascuna ragazza che come leggenda o mitologia è stato poi consegnato anche alle generazioni successive.

E proprio lavorando sulla generazione successiva, gli Usa hanno alzato per competenza e professionalità l’approccio al calcio. Così Mia Hamm, Kristine Lilly e Julie Foudy, appena adolescenti, furono invitate a prendere parte a una sessione d’allenamento e furono scelte al posto di colleghe decisamente più esperte. L’intuizione fu determinante e, con gli occhi del presente, ovvia: Kristine Lilly, con 354 presenze e 23 anni di militanza, è ancora la calciatrice con più presenze in Nazionale. E che dire di Mia Hamm? Ha vestito la casacca a stelle e strisce dal 1987 al 2004, segnando 158 in 276 partite, vincendo la Coppa del Mondo nel 1991 e 1999, aggiudicandosi l’alloro alle Olimpiadi di Atlanta 1996 e Atene 2004. Ritenuta la migliore calciatrice della storia, ha vestito per diciassette anni la maglia della Nazionale statunitense, ha vinto due FIFA Women’s World Player of the Year (2001 e 2002) ed è una delle sole due donne incluse nella FIFA 100, la lista dei migliori 125 calciatori di tutti i tempi.

Per far breccia nella cultura popolare e sdoganare pregiudizi, la Mattel, per promuovere e rilanciare il Mondiale del 1999, mise in commercio la Barbie “Soccer Teresa”, ispirandosi alla silhouette della stessa Hamm che, però, in campo giocava per un solo obiettivo: la sua grinta era pari alla sua umiltà e tutto quello che fecero di eroico era per migliorare il loro sport.

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Sia dentro che fuori dal campo, le “99ers” hanno mostrato al mondo di cosa erano capaci le atlete e, di riflesso, di cosa erano capaci le donne. Erano altruiste, autentiche e determinate a fare la differenza. Bill Clinton, al tempo presidente americano, era tra i 90.000 presenti e ospitando le vincitrici alla Casa Bianca, disse: «Il vostro successo avrà un impatto enorme, più di quanto le persone possano rendersene conto oggi e avrà un impatto di vasta portata non solo negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi».

US President Bill Clinton (L), First Lady Hillary Clinton (C) and daughter Chelsea Clinton with members of the U.S. Women's soccer team in the locker room.

Nella roulette dei calci di rigore, gli Stati Uniti trionfarono 5-4 e a determinare l’errore della cinese Liu Ailing fu il portiere Briana Scurry. Oltre a essere una delle primi giocatrici afro-americane professioniste, Scurry è stata anche una delle prime calciatrici apertamente gay e ha promosso campagne per l’uguaglianza di genere. Ha dato voce alla battaglia sulla discriminazione salariale ed è tra le pionieristiche fondatrici della WUSA, l’associazione di calcio femminile statunitense. A distanza di anni, la sua missione è ancora la stessa: «Anche se non giochiamo più, vogliamo fare tutto il possibile per progredire nel gioco e nell’uguaglianza in termini di diritti e di opportunità».

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Fonte: Cnn

Benvenuti allo show di Adam Rippon. Bello da vedere sul ghiaccio, ha dato un senso alle interviste post-esibizione e non la manda a dire a nessuno. Nemmeno a Mike Pence, vicepresidente americano. Perché Rippon è stato il primo atleta dichiaratamente gay a essersi qualificato per i Giochi Olimpici invernali di Pyeongchang 2018, in Corea del Sud, e perché è il primo storico sportivo a stelle e strisce ufficialmente omosessuale a conquistare una medaglia, quella di bronzo conquistata dagli Usa nel Team Event.

Americano e gay, come il connazionale sciatore freestyle Gus Kenworthy, qualificatosi due settimane dopo di lui, ma che a un’Olimpiade c’era già stato, nel 2014 a Sochi, vincendo l’argento. Entrambi, però, hanno fatto coming out nell’ottobre 2015 e, ora, tre anni dopo, lo dicono apertamente: è stato l’atto più liberatorio della loro esistenza. Rippon annuisce:

Dal momento in cui tutti hanno saputo, ho ricominciato a respirare liberamente

Qualcuno gli fa anche notare che a 28 anni, dopo due fallite qualificazioni a Vancouver 2010 e Sochi 2010, è il pattinatore più anziano al debutto nella storia dell’America dal 1936. Nathan Chen, per intenderci, suo collega e connazionale, è del 1999. Ma la saggezza scaltra di Adam è tutta qui:

In passato questa cosa forse mi avrebbe scoraggiato, ma mi ha davvero motivato perché è diverso e io amo essere diverso

Poi sul ghiaccio si lascia andare e nonostante l’etichetta di debuttante ha sorpreso più o meno tutti. Ha abbagliato il ghiaccio, conquistando il punteggio di 172,98 nella prova individuale maschile che inizialmente lo ha portato al secondo posto prima di scendere in terza posizione. Johnny Weir, ex olimpionico e opinionista sul canale americano NBC l’ha definito “magnifico”, “da incantesimo” trovando approvazione anche nell’ex pattinatrice Tara Lipinsky che ha ammesso di aver avuto i brividi. E poi Rippon sa essere spavaldo e sincero anche lontano dalla pista, trasmettendo una genuina empatia anche quando i giornalisti fanno domande di rito e un po’ banali. Lui ricorda la delusione, quattro anni fa, quando mancò la qualificazione, era con la sua amica e collega, Mirai Nagasu, e trangugiavano panini dalla disperazione. Ora sono entrambi sotto i riflettori mondiali, da tirare i pizzicotti per quanto sia fantastico e quasi inimmaginabile:

Quattro anni fa, io e Mirai siamo andati da In-N-Out (catena di fast food americana), abbiamo preso da mangiare, siamo tornati nella sua casa, siamo saliti sul tetto e abbiamo iniziato a mangiare e a mangiare perché eravamo tanto dispiaciuti e amareggiati per non essere alle Olimpiadi. Ma l’Olimpiade sa essere magica perché siamo qui, entrambi, e siamo anche compagni di camera nel ritiro. Le ho detto “eccoci qui, ce l’abbiamo fatta” e ci siamo abbracciati. E’ fantastico

 

Dear Little Adam #nationalcomingoutday ?️‍?

Un post condiviso da Adam Rippon (@adaripp) in data:

Un post condiviso da Adam Rippon (@adaripp) in data:

Di gesti liberatori, Adam ne ha compiuti parecchi. L’ultimo è uno schiaffo all’istituzione statunitense. Mike Pence è il capo della delegazione degli Stati Uniti in Corea del Sud, come detto è vicepresidente di Trump alla Casa Bianca ed è accusato di posizioni anti-gay, di aver ostacolato la comunità Lgtb e di aver sostenuto la validità della terapia di recupero per gli omosessuali.
Rippon ha rifiutato di incontrarlo e ha detto che non cambierebbe strada per salutare un uomo che si è battuto per sostenere la teoria secondo la quale i gay sono malati.

E se Pence ha scritto un tweet personale rivolto al pattinatore, dicendo di non credere alle fake news, Rippon si dimostra vincente anche lontano dal ghiaccio, glissando e dimostrando tanta, tantissima autoironia:

Un atleta gay non ha nulla di diverso da un atleta eterosessuale. La passione, la dedizione, il sacrificio e gli allenamenti sono esattamente gli stessi. Tutto uguale, insomma, tranne che noi abbiamo le sopracciglia molto più belle

Insomma, il sipario sul Rippon’s show si è appena alzato.