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Guai a chiamarle vecchie glorie, soprattutto se in campo ci sanno ancora fare. Anche se uno ha 41 anni e l’altro ben 52. Siamo a Yokohama, capoluogo della prefettura di Kanagawa è la città più popolosa del Giappone, con oltre 3 milioni e mezzo di abitanti, dopo Tokyo. Del più anziano, Kazuyoshi Miura, ci troviamo annualmente ad aggiornare il libro delle statistiche per longevità professionista; l’altro è appena arrivato nella squadra nipponica che milita in J2 League, la seconda divisione del paese, e il suo nome è Shunsuke Nakamura.

 

Sì, proprio lui, il fantasista dal sinistro letale e dolce, tre stagioni nella Reggina, con 87 partite, 12 gol e un assist, che condivide con Miura l’esperienza in Italia, un passato al Genoa con 20 match giocati e una rete realizzata in un derby della Lanterna, poi però perso dal Grifone per 3-2. E ora, assieme, costituiscono la coppia d’attacco più anziana nella storia del calcio: insieme fanno 93 anni!

Il trequartista 41enne ha un passato di tutto rispetto alle spalle: nato nel 1978 (per intenderci, cinque mesi dopo Gigi Buffon), la sua carriera era cominciata nel 1997 in Giappone. Nel 2002 il trasferimento per 2 milioni di euro alla Reggina, dove è rimasto fino al 2005, anno del passaggio al Celtic Glasgow – 2 gol e 3 assist in Champions League – poi il trasferimento all’Espanyol e, nel febbraio 2010, il ritorno in patria dove è un vero e proprio idolo anche per i 24 gol in 98 partite con la maglia della Nazionale.

Se il ragazzo è un idolo, Miura, 89 match e 55 gol con la maglia del Sol Levante, è una leggenda vivente: nato nel 1967, lo stesso anno di Caniggia, Baggio e Zamorano per dire, Kazuyoshi è cresciuto col tarlo del calcio, una passione che lo rodeva dentro al punto da indurlo a compiere una scelta radicale già all’età di 15 anni. Affascinato dal calcio brasiliano, dai miti di Pelé prima, Zico e Socrates poi, ha deciso, ragazzino, di mollare tutto e partire da solo proprio per il Brasile. E non gli è andata male visto che ha giocato nel Palmeiras e nel Santos del suo primo idolo.

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Negli anni 90, poi, è stata la volta dell’Europa, prima al Genoa, nel cui attacco faceva coppia con Tomas Skuhravy, e poi alla Dinamo Zagabria. Nel ’99 è tornato in Giappone ma, inquieto come un ragazzino, nel 2005 ha fatto una puntata in Australia – qualche partita nel Sidney – giusto per poter dire, chissà, di aver giocato in quattro continenti diversi.

Nel 2017, poi, si è tolto la soddisfazione di battere lo storico record di sir Stanley Matthews segnando una rete all’età di 50 anni e 14 giorni. Quello per il momento è anche il suo ultimo gol, ma attenzione perché a gennaio l’ultimo samurai ha rinnovato il contratto per un altro anno.

A volte i traguardi più clamorosi vengono raggiunti dai personaggi meno probabili, atleti che lavorano nell’anonimato, lontano dai riflettori come eroi nascosti per poi, quando meno te l’aspetti, rubare la ribalta ai campioni più blasonati con un vero colpo di teatro.
Questa è la storia di un recordman. Ma non di un fenomeno affermato e osannato dal mondo intero, che può vantare contratti a cifre stratosferiche con top teams o sponsor di grido. E’ la storia di Kazuyoshi Miura, il recordman che non ti aspetti.

E’ di pochi giorni fa la notizia che Kazuyoshi Miura è diventato il più anziano giocatore ad aver giocato una partita di calcio professionistico. Il bomber giapponese, a 50 anni e sette giorni ha guidato l’attacco del Yokohama FC nell’incontro con il V-Varen Nagasaki, valido per la J-League 2, il secondo livello del campionato nipponico.
Un record incredibile, la cui portata si può comprendere se si pensa che, fino a quel giorno, apparteneva da ben 52 anni ad una pietra miliare del calcio mondiale come Stanley Matthews, il primo pallone d’oro della storia, il quale a 50 anni e 5 giorni giocò la sua ultima partita con la maglia dello Stoke City.

UNA VITA DA RECORD

Ma se la si guarda a ritroso, la storia di Miura ha un che di leggendario sin dall’inizio, quel qualcosa che la rende magica, aldilà del reale.
Kazu se ne va dal Giappone ancora giovanissimo, a 15 anni, spostandosi nel lontanissimo Brasile per cercare fortuna nel mondo del pallone. Una scelta sicuramente estrema, ma che ricalca alla perfezione le orme del campione che in quegli anni sta infiammando i sogni dei ragazzini del Sol Levante: Oliver Hutton di Holly e Benji.


Miura la stoffa ce l’ha. Viene ingaggiato dal Club Atletico Juventus di San Paolo dove si fa le ossa per 4 anni fino a passare al più blasonato Santos (sì, quello di Pelè e, più di recente, Neymar), cambiando però casacca ogni anno fino al 1990 quando, visto che la carriera non decolla nonostante la vittoria del campionato Paranaense del 1990 con il Coritiba, decide di tornare in patria, al Verdy Kawasaki di Tokio.


In Giappone la classe di Kazu è un lusso e le sue prestazioni stuzzicano vari club, tra cui il Genoa del Presidente Spinelli, che lo acquista nell’estate del 1994. Ecco il primo record di Miura: è il primo calciatore giapponese a giocare in Serie A, l’ariete che spiana la strada al mercato orientale in Italia che poi vedrò l’arrivo nel Belpaese dei vari Nakata, Morimoto, Nakamura, Nagatomo, Honda e soci.

E poco importa che la sua stagione sia da dimenticare: 21 presenze ed un solo gol, ma dal valore molto particolare, perché realizzato nel derby della Lanterna contro la Sampdoria (poi però vinto dai blucerchiati per 3-2). Nel suo piccolo, forse, un record anche questo.

Dopo questa parentesi italiana, Kazu torna in patria dove continua a fare le fortune dei propri compagni, concedendosi qualche gita fuori porta, prima alla Dinamo Zagabria e poi all’FC Sidney, lasciando però magri ricordi di sé.

LEGGENDA

In patria, invece, Miura è leggenda, sia al livello di club che di nazionale, di cui è il secondo miglior marcatore della storia con ben 55 reti in 89 partite e con cui ha vinto la Coppa d’Asia nel 1992 ma con il rimpianto di non aver mai partecipato ad un Mondiale. Ed ovviamente detiene un altro record: quello del marcatore più anziano nella storia del campionato giapponese, risultato raggiunto il 7 agosto 2016, quando segnò contro il Cerezo Osaka.

Viene da chiedersi quale sia il segreto di questo tranquillo cinquantenne che non ci pensa neanche a farsi da parte dopo ben 32 stagioni da professionista. Probabilmente la risposta è racchiusa nelle parole dello stesso Miura durante l’intervista di rito al superamento dell’ultimo record della sua incredibile vita:

“Sinceramente, non mi sento di aver battuto una leggenda. Avrò anche superato Matthews come longevità della carriera, ma non posso concorrere con lui, con i suoi numeri e il suo passato. Mi piace il calcio, e la mia passione non è cambiata. Non sono più giovane, faccio fatica fisicamente, ma sono ancora felicissimo se la mia squadra vince o se riesco a giocare bene. Finché mi divertirò, continuerò a giocare”.

Umiltà, passione e cultura del lavoro: la ricetta vincente.

Michele De Martin

Negli ultimi anni il duopolio Messi-Cristiano Ronaldo ha ridotto l’assegnazione del Pallone d’oro a una sfida al limite della monotonia, provocando una certa disaffezione tra gli appassionati di calcio che vedono il prestigioso trofeo, assegnato su idea della rivista sportiva francese France Football, al pari di un Telegatto piazzato ogni anno a Mike Bongiorno. Scontato e anche un po’ banalizzato.
Dal 2010, ma solo fino al 2015 – complice un sentito fallimento della proposta- il riconoscimento si è fuso con il Fifa World Player of the Year, dando vita a un nuovo premio denominato Pallone d’oro Fifa, con votazione estesa non solo ai giornalisti sportivi provenienti da tutto il mondo, ma anche agli allenatori e capitani delle nazionali affiliate alla Federazione internazionale.

Una trovata tra il marketing e la personale “stima” dell’amico calciatore che, di fatto, non è piaciuta e ha ulteriormente accentuato l’accentramento del premio tra la star del Barcellona e quella del Real Madrid che si spartiscono il trofeo dal 2008 (Kakà è stato l’ultimo umano a vincerlo nel 2007).
Quest’anno si è tornati nella vecchia formula, ma forse, mai come negli ultimi anni il Pallone d’oro è stato vinto meritatamente da Cristiano Ronaldo che nell’anno solare 2016 ha messo in bacheca personale la Champions League con il Real Madrid e l’Europeo con il Portogallo. Impresa non esattamente alla portata di tutti.

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Eppure dalla sua nascita nel 1956, il Pallone d’oro si svincolava dalla conquista di altri trofei che in qualche maniera giustificasse l’assegnazione; semplicemente si votava il calciatore più forte dell’anno, con un solo limite: dal 1956 fino all’edizione del 1994, infatti, il regolamento imponeva che il giocatore dovesse essere di nazionalità europea per poter aspirare al titolo; dal 1995 questa distinzione è stata superata, potendo quindi concorrere al premio anche giocatori di nazionalità extra-europea, ma appartenenti a squadre europee; dal 2007 possono concorrere al premio, calciatori militanti in qualsiasi club della Fifa.

Nel 1956, anno della prima edizione, i giornalisti di 16 Nazioni europee assegnarono il pallone doro a Stanley Matthews, ala destra del Blackpool, davanti al madridista Alfredo Di Stéfano e al francese Raymond Kopa. Un riconoscimento, si dirà più avanti, alla sua lunga lunghissima carriera, alla sua impresa maggiore: conquistare coi The Tangerines (i mandarini) la prestigiosa FA Cup tre anni prima. Pelé disse di Matthews:

Ci ha insegnato il modo in cui il calcio deve essere giocato

Un attestato di stima che la dice lunga sull’impatto che l’ex nazionale inglese ha avuto sul calcio e, più in particolare, sul ruolo dell’ala. Soprannominato “The Wizard of football”, la carriera di Matthews abbracciò tre decenni, ma solo due distinti club: Stoke City (dal 1932 al 1947, e poi successivamente dal 1961 al 1965) e Blackpool (dal 1947 al 1961). Esordio a 17 anni, ultima partita da professionista cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni; un Pallone d’oro conquistato a 41 anni e due Mondiali con l’Inghilterra nel 1950 e 1954, giocando con la maglia dei Tre Leoni fino a 42 anni (nessuno lo ha ancora superato).

E’ il 2 maggio 1953 il suo giorno, la partita che è passata alla storia come la “finale di Matthews”. Nel prestigioso stadio di Wembley si giocava la finale di Fa Cup, il trofeo più antico del mondo, tra il Blackpool di Stanley e il Bolton, largamente favorito, che dopo soli 75 secondi, conferma i pronostici della vigilia passando in vantaggio e raddoppiando al 18′. Un gol del Blackpool nel primo tempo, illuse i mandarini che si ritrovarono subito sotto per 3-1 all’inizio della ripresa.
A Wembley ci fu record di affluenza, c’erano 100mila persone, molte solo per incoraggiare Matthews che, però, sulle gambe, era piegato in due dalla stanchezza. A 38 anni a inseguire gli avversari più giovani, a correre, dribblare e fare su e giù sulla fascia. Ma ecco la magia: al 69’ Stanley Matthews trascina la squadra alla rimonta, involandosi sulla destra e crossando in mezzo per Mortensen che segnò il 2-3. A un minuto dal 90esimo è ancora Mortensen a realizzare il 3-3, su punizione. Quando tutti erano con la testa ai supplementari, Matthews, mai domo,  ancora sulla fascia, scodellò un altro pallone, questa volta, a Perry che trasforma il 4-3 finale.

Hai 32 anni, pensi di riuscire a giocare un altro paio di stagioni?

E’ quello che disse Joe Smith, allenatore del Blackpool a Stanley Matthews nel 1947. Sei anni prima della finale di Fa Cup e nove anni prima del Pallone d’oro.

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