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Italians si occupa, per l’appunto, di italiani all’estero e noi di Mondiali.it ci siamo focalizzati sui quei sportivi che “difendono” il tricolore in terra straniera.

Oggi vogliamo raccontarvi la storia di chi ha esaltato l’azzurro italiano tanti anni fa e ha radicalizzato il calcio italiano sul territorio americano.

Si tratta del club calcistico del Brooklyn Italians Soccer Club, squadra con sede nella metropoli New York nell’omonimo quartiere di Brooklyn. Il team ha una storia di quasi 70 anni, in effetti è stata fondata nel 1949 da un folto gruppo di migranti italiani del secondo dopoguerra, capitanati dal signor John DeVivo. Attualmente il club milita in NPSL, National Premier Soccer League (quarta divisione nazionale americana).

La dirigenza di questa bella società ha voluto raccontarci qualche pillola della sua grande storia.

Fondata nel ’49 come sono state gettate le prime basi?

Dopo il secondo conflitto mondiale, sono stati tantissimi gli italiani che sono venuti in America a cercar fortuna e lavoro. Alcuni di questi immigrati italiani formarono prima un club sociale, e poi dal club sociale crearono una vera e propria squadra di calcio che sfidava sia altre squadre italiane di club sociali, altri team di altre nazionalità d’origine come: tedeschi, ungheresi, irlandesi, ecc…

Sono ancora in vita alcuni italiani ideatori del club?

Certo! Due degli storici fondatori: Carmelo Ullo e Jerry Valerio sono ancora pienamente attivi nel nostro ambiente, regolarmente vengono a farci visita nei campi di allenamento e durante i match di campionato.

Come si è sviluppata la società nel corso degli anni?

Ora la dirigenza del club è molto più piccola, con i vari soci che si spostano in New Jersey e in altri quartieri periferici. Attualmente la maggior parte del nostro lavoro è con la nostra sezione giovanile della squadra di calcio. Tuttora contiamo oltre 500 bambini di età compresa tra 4-18 a giocare a calcio. Vogliamo farli crescere con la cultura calcistica. Tuttavia ora non c’è più quella concezione di pura italianità presente in squadra, ma ci è piaciuto aprire anche ad altre culture ed etnie.

Ci sono storie particolari di immigrati che hanno preso parte della fondazione del club?

Nel corso della storia del nostro club ci sono state tantissime situazioni diverse e particolari. Ultimamente abbiamo avuto alcuni giocatori haitiani, di 13 e 15 anni, fuggiti da Haiti in cerca di una vita migliore. Il terremoto del 2010 e la carestia del piccolo Paese hanno costretto molte persone a scappare via. Questi due ragazzini sono venuti ad allenarsi con le nostre squadre giovanili e li abbiamo messi sotto contratto. Abbiamo poi scoperto che dormivano da senzatetto nel Prospect Park e quindi abbiamo cercato di aiutarli, prima ospitandoli per poi trovar loro una famiglia che li adottasse.

Nel corso della storia, dal punto di vista calcistico, quali sono stati e quali sono gli obiettivi della squadra?

Lo scopo primario per il club giovanile è quello di fornire innanzitutto un luogo sicuro per i bambini di Brooklyn per imparare l’educazione e giocare insieme. Quindi, vogliamo aiutare i nostri ragazzi ad andare all’università con gli allenatori del college.
Dopodiché, vogliamo offrire opportunità ai giocatori che sono abbastanza bravi da giocare a livello professionistico. Lo facciamo attraverso il passaggio alla nostra prima squadra, in cui molti giocatori che hanno fatto bene, hanno poi intrapreso carriere professionali di successo.
L’obiettivo della nostra prima squadra è quello di far diventare la squadra composta al 50% da giovani laureati di Brooklyn italiani entro il 2025. Nella nostra ultima partita, abbiamo finito la partita con sei giocatori attuali o ex giocatori della squadra giovanile sul campo, che è qualcosa di cui siamo molto orgogliosi. La nostra prima squadra sta andando molto bene e, inoltre, abbiamo anche la squadra di età media più giovane del campionato.

Avete dei gemellaggi con altre squadre italiane ed europee?

Sì, abbiamo una partnership con il West Ham United in Inghilterra e il Chievo Verona in Italia. Verona sta organizzando un campo per i nostri giocatori.

Fa piacere vedere giocatori come Giovinco, Pirlo, Donadel giocare in MLS?

Sì, è sempre bello vedere grandi giocatori italiani giocare in America dove possiamo vederli e lasciarci insegnare qualcosa. Soprattutto ci piace osservare Sebastian Giovinco che è nel pieno della sua carriera e potrebbe ancora giocare per uno dei migliori club d’Europa.

Crede che la società possa crescere negli anni?

La squadra di calcio del club sta andando sempre meglio ogni giorno. La dirigenza deve essere sempre all’altezza e il progetto è quello di ottenere un maggior numero di genitori di giocatori giovanili coinvolti nel club n modo che ciò possa incrementarne la stabilità finanziaria.

Cosa si aspetta in un futuro prossimo? Sia da parte sua che da parte del club?

Per il club, abbiamo l’obiettivo di avere il 50% della nostra prima squadra composta da giovani laureati entro il 2025. Continueremo a crescere e migliorare i nostri team e giocatori, rafforzando la nostra filosofia e metodologia ogni anno. Per me, non sono sicuro di cosa riserva il futuro. Sono convinto che se lavori duro oggi, domani ci sarà il successo. Mi piacerebbe lavorare in Italia un giorno in futuro.

Dario Sette

Dopo l’addio di Andrea Pirlo al New York City e al calcio giocato, un altro Italians trapiantato negli Stati Uniti ha deciso di chiudere il capitolo professionale che lo legava a un club americano.

Stiamo parlando dell’allenatore, Alessandro Nesta, che ha appunto annunciato di lasciare il Miami Football Club, club che lo ha lanciato come allenatore. Nesta è già pronto per rilanciarsi in altre sfide.

Il grande ex difensore, campione del Mondo 2006, ha deciso dunque di imbattersi in nuove avventure calcistiche un po’ com’è stato da calciatore con il sorprendente passaggio dalla Lazio al Milan.

La decisione di lasciare il timone del Miami Fc è maturata dopo la dolente sconfitta nei playoff di Nasl (la Serie B americana) contro il New York Cosmos. Fatale è stato l’errore dal dischetto di Trafford. L’amarezza per mister Nesta è stata difficile da mandar giù anche perché la sua squadra ha dominato in tutta la stagione (tanto da alzare i trofei di Spring e Fall season).

In un post sui suoi canali social ha voluto ringraziare la società, i calciatori e soprattutto i tifosi che hanno sempre supportato la squadra.

L’avventura americana per Sandro Nesta è iniziata prima da calciatore nel 2012, quando accettò la proposta di giocare a Montreal in Canada per il campionato di Major League Soccer.

Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo è il suo vecchio compagno di squadra al Milan e in Nazionale, Paolo Maldini, che gli da l’incarico nel 2015 di guidare la squadra statunitense, in quanto è uno dei proprietari del club.

La prima stagione si chiude con un settimo posto, la seconda vede la squadra protagonista che però cede proprio sul più bello, contro quella che fu la squadra di Pelè e di un altro storico Italians, Giorgio Chinaglia.

Ora per l’ex difensore azzurro attende una nuova chiamata per rimettersi in gioco e provare a dimostrare che solo la sfortuna non gli ha dato la possibilità di guidare alla vittoria finale la sua squadra.
Chissà che qualche club europeo non ci faccia un pensiero?

Dario Sette

Sembrava fosse come un abete, un pino o comunque un albero sempreverde, ma purtroppo la fine di una grande carriera è arrivata anche per Andrea Pirlo. Un 2017 che si porta via dai campi da calcio dopo Francesco Totti, Kakà, Xabi Alonso e Philipp Lahm, anche un altro campionissimo.

Domenica sera l’ultima gara disputata con il New York City in una semifinale di ritorno di Eastern Conference che ha visto la squadra newyorkese battuta contro i Columbus Crew.

Qualche ora prima dell’ultima apparizione ha ribadito che:

A 38 anni è giusto dare spazio ai ragazzi. No, non sono arrabbiato. Anzi do una mano agli altri e all’allenatore

L’ingresso all’89esimo minuto è stata più che altro una passerella per quello che è stato un fenomeno dentro e fuori dal campo. Un calciatore che si è fatto amare da tutti gli appassionati di calcio, in Europa ma anche negli Stati Uniti. In effetti nonostante con la squadra americana non siano arrivati i risultati che si speravano, il pubblico e la società non ha fatto che ringraziare quel calciatore che in silenzio, ha sempre fatto parlare con i piedi. L’esperienza estera gli ha permesso di vivere a New York e di dedicarsi anche ad altre attività che in Italia era impensabile poter fare.

Negli Stati Uniti si è fatto apprezzare ovviamente per le sue doti tecniche che, nonostante l’età lo hanno reso celebre durante le partite di Major League Soccer.

Poco dopo l’ultimo match ha voluto ringraziare tutti coloro che l’hanno sostenuto durante la parentesi al New York, ma anche a tutti coloro che lo hanno accompagnato in questi 23 anni di carriera.

Ultima partita in MLS. Visto che la mia avventura al NYFC è giunta alla fine vorrei dire poche parole. Volevo ringraziare tutti per la gentilezza e il supporto che mi hanno mostrato in questa incredibile città. Grazie agli incredibili fans, grazie a tutto lo staff e a tutti quelli che lavorano dietro le quinte, grazie ai miei compagni di squadra. Non solo la mia avventura a NY finisce ma anche la mia avventura come giocatore di calcio, per questo vorrei cogliere l’occasione per ringraziare la mia famiglia ei miei figli per il sostegno e l’amore che mi danno sempre, ogni squadra in cui ho avuto l’onore di giocare, tutti i compagni di squadra con cui ho giocato, tutte le persone che hanno reso la mia carriera così incredibile e ultimi ma non per ordine di importanza, tutti i tifosi da ogni parte del pianeta che mi hanno sempre mostrato supporto. Sarete sempre nel mio cuore!

L’avventura americana inizia il 6 luglio 2015, quando viene ufficializzato il suo passaggio a titolo gratuito al New York City. Dopo 20 stagioni in Serie A decide di cambiare aria e provare un’avventura oltreoceano. L’esordio in Mls avviene il 26 luglio, entrando al 56′ del match tra New York City e l’Orlando City del suo ex compagno al Milan, Kakà.

Tuttavia, per il primo gol americano del Maestro (è stato più volte chiamato così in Usa), c’è d’attendere un anno. In effetti il 18 giugno 2016, nella vittoria casalinga sui Philadelphia Union, segna su punizione (marchio di fabbrica Pirlo) il suo primo gol in Major League Soccer.

Anche la società che lo ha accolto nel 2015 ha voluto ringraziarlo in maniera ufficiale dedicandogli una copertina.

#GrazieMaestro ? #NYCFC

Un post condiviso da New York City FC (@nycfc) in data:

Ora che gli scarpini verranno appesi si dedicherà alla famiglia e al golf (sua passione coltivata in Usa). L’idea di vederlo su una panchina è ancora lontana dato che gli deve scattare la scintilla. A lui non è ancora scattata.

Dario Sette

È atterrato a Toronto in una fredda giornata di febbraio nel 2015 ma, sin dai primi passi, ha capito che l’avventura in Canada sarebbe stato qualcosa di speciale. In effetti è così. Da subito Sebastian Giovinco si è ambientato in un campionato diverso da quello italiano. Un’altra cosa però ha portato via dal calcio italiano , oltre al talento: la voglia di vincere!

In una lettera commovente, il numero 10 del Toronto Fc ha voluto descrivere i suoi tre anni nella città canadese che lo ha accolto come un campione e lo venera come un divinità.

“Sono arrivato a Toronto da quasi tre anni e ci sono due cose che devo ancora vedere. Una sono le Cascate del Niagara. E ci andrò, alla fine. Ma prima, c’è qualcos’altro che voglio vedere. Che devo vedere: il Toronto FC che vince la MLS. L’anno scorso ci siamo andati abbastanza vicini, ma andarci vicino non è abbastanza. Vengo dall’Italia e lì ho giocato per la maggior parte della mia carriera. E in Italia abbiamo detto questo: è come andare a Roma e non vedere il Papa. Ora, non voglio confrontare il titolo della MLS con una visita in Vaticano o altro, ma …. Non sono venuto fin qui per non vedere Toronto vincere un campionato. Questo è tutto.

Ricordo il primo campo che ho calcato a Torino da bambino. Non c’era erba, solo sporcizia e linee di gesso che mi avrebbero polverizzato in qualsiasi momento con una caduta o una scivolata sbagliata. Su questo terreno difficile, se fossi caduto, è probabile che mi sarei rotto qualcosa. Ma quel campo era tutto quello che avevamo. Non c’era un grande cinema o un centro commerciale nella nostra città. Niente. Potevi giocare a calcio o … potevi giocare a calcio. Solo su quel terribile campo. Ma senza esso, non avrei iniziato a giocare a calcio. Non ero come gli altri bambini italiani che sognavano di giocare in Serie A. Non l’ho nemmeno guardato tanto in televisione. Per lo più rimanevo in giro con mia madre. Lavorava al piccolo bar che mio zio ha possedeva. Ma poi, ci sarebbe stato quel campo.

Passavo tutto il tempo con i miei amici. A volte vorrei guardare i ragazzi che giocano a calcio su quel campo. Alcuni squadre regionali. Un giorno, la squadra locale stava giocando a una partita 7 contro 7 e mancava un giocatore. All’epoca avevo solo sei o sette anni e i ragazzi della squadra erano molto più vecchi. Penso fossero disperati perché – visto che ero l’unico in giro – mi hanno buttato dentro.

E subito avevo capito: tutto sarà diverso per me. Giocare a calcio … mi ha reso felice. È stato divertente. Mi ha aiutato a crearmi nuovi amici. Quando sono tornato a casa quel giorno ho detto a mio padre della squadra e che volevo continuare a giocare per loro. Il giorno dopo sono tornato. E il giorno dopo pure.Ho iniziato come centrocampista, mi piaceva fare assist. Ma poi ho capito che l’unica cosa che mi rendeva più felice di fare un assist per un gol, era farlo. Per me, i gol erano la cosa più importante: è come vincere.

Divenne una specie di scuola per me. Ho passato tutto il tempo ad allenarmi con questa squadra: si chiamava San Giorgio Azzurri. Avrei giocato ovunque potevo, in una piazzola, nei parchi cittadini, e anche nel piccolo appartamento della mia famiglia con il mio fratellino, Giuseppe. Era un piccolo posto per noi quattro. C’era solo una camera da letto, quella per miei genitori, i capi. Io e mio fratello abbiamo dovuto dormire nel salotto. Durante la giornata giocavamo a calcio contro pareti di casa. Mia madre impazziva.

Almost the same @giuseppegiovinco

Un post condiviso da Sebastian Giovinco (@sebagiovincoofficial) in data:

Non avevamo molto. Vivevamo a sole 15 miglia dallo Stadio delle Alpi, ma non abbiamo mai comprato i biglietti per guardare la Juventus. Sicuramente non potevamo permetterci di comprare qualsiasi cosa. Ricordo che mio padre, che era un duro lavoratore, ha dovuto risparmiare un intero anno per comprarmi i miei primi scarpini da calcio. Scarpette, scarpini, qualunque cosa: non mi importava. Essere sul campo era l’unica cosa che contava.

Dopo un anno con la mia squadra, uno scout della Juventus mi ha invitato a giocare per le giovanili del club. Probabilmente sembra folle, ma fu così veloce. Un giorno stai giocando per la tua piccola squadra locale e poi ti chiama un club di Serie A. Almeno questo è stato per me. Un giorno un signore si è presentato, ha parlato con me e mio padre, e il giorno successivo facevo parte del vivaio della Juve.

Vivevo vicino al centro sportivo, sono quindi rimasto nella casa dei miei genitori. Ogni mattina mio padre mi portava al campo con la sua piccola Renault 5. Quindi tornava a casa, prendeva mia madre e la lasciava al bar dove lavorava. Alla fine della giornata, prendeva la mamma e la portava a casa in modo da poter preparare la cena mentre finivo l’allenamento. Vi giuro che ha fatto così tanti chilometri su quella piccola Renault che avrebbe dovuto cambiare auto ogni due anni.

Mio padre non era un fan del calcio. È stato un tifoso del Milan in quanto veniva da Milano, ed era la squadra più forte in quegli anni. Ma non ha mai giocato o visto una partita di calcio su un televisore. Quindi lui era contento di vedermi giocare alla Juventus finché io sarei stato felice di farlo.

Ma per un po’ non fui felice. Quando avevo circa 15 o 16 anni avevo tempo solo per giocare. E molte volte tornando a casa, salivo in macchina e piangevo. Un giorno, papà fermò la macchina. “Seba,” disse, “non ti voglio riportare lì domani.” Lo guardai in faccia, asciugandomi le lacrime: “Perché?” “Perché non ti porto qui per piangere.” Ho pensato per un momento: ok, non ho intenzione di piangere. Devo solo lavorare sodo. E vincere. Cosa che, onestamente, era tutto ciò che si aspettava il club. Niente lacrime. Zero. C’è questa mentalità alla Juventus. È abbastanza semplice ….Vincere. Ti insegnano il rispetto e il vincere con rispetto. Ma alla fine della giornata, conta solo una cosa. Aver vinto. Quella mentalità mi è stata inculcata dal momento in cui sono arrivato alla Juve. Vincere e basta.

E quando ho compiuto 17 anni avevo la possibilità di firmare il mio primo contratto ufficiale con la Juventus. Da quando ero piccolo, mio padre veniva con me. Avevo bisogno che mio padre venisse con me per firmare la carta per un nuovo appartamento. Era una delle prime cose che ho comprato per la mia famiglia: una stanza per tutti.

Ricordo la prima volta che ho fatto un passo sul campo allo stadio. Non era niente di simile a quello del mio primo campetto. Stavo giocando accanto a Del Piero, stavo servendo Trezeguet. Sono stato orgoglioso di aver lavorato per tornare in Serie A dopo solo una stagione. Non credo che avrei avuto l’opportunità di giocare tanto se non fossi stato in Serie B. Ma la promozione non era qualcosa di cui si parlava molto. Come ho detto, c’è solo una cosa che conta alla Juventus. E non importa come sia fatto. E per me, come sempre, tutto ciò che contava era che io fossi in campo.

Ma dopo qualche anno, sapevo che non avrei avuto più molti minuti in campo con la Juventus. Sono andato in giro per l’Italia con un paio di prestiti, e mentre il mio contratto alla Juve giungeva al termine ho iniziato a pensare di trasferirmi in MLS. Toronto fu il club che mi raggiunse e il colloquio tra le parti fu abbastanza veloce. Quindi, da quel momento c’era solo una squadra di cui mi importava: Toronto Fc. Entro due o tre giorni abbiamo raggiunto un accordo. Sarei venuto a giocare a Toronto.

La prima volta che sono arrivato a Toronto è stato nel febbraio 2015. E quando il mio aereo è atterrato … beh … diciamo solo che il freddo è la cosa che mi ricordo di più di quel giorno. Quello, e le centinaia di tifosi che sono venuti ad accogliermi in aeroporto.

E ho imparato due cose da quel momento:
1) che una giacca di Canada Goose mi terrà sempre al caldo (la squadra me ne diede una il giorno in cui ho atterrai);
2) che i tifosi di Toronto Fc saranno sempre accanto a noi.

Non credo di sapere quanto fosse bella questa città. È strano. È una sensazione strana. Ho giocato per altri club in altre città, e so non è facile spostare la propria vita, la propria carriera. Non è facile arrivare in un nuovo posto e avere i tifosi che ti accolgono. Ma a Toronto mi sono sentito subito a casa. Tutti volevano fare una sola cosa. Vincere. E lo abbiamo fatto.

Nel 2015, la mia prima stagione qui, abbiamo fatto la postseason per la prima volta nella storia del team. Ma credo che ci fosse un altro ostacolo davanti a noi. Dopo aver conquistato il nostro posto ai playoff, abbiamo festeggiato troppo. Abbiamo perso i nostri ultimi due match di campionato. E poi siamo stati eliminati nel primo round dei playoff a Montreal.

Vedi, c’è questa altra parte della mentalità della Juventus che penso che dobbiamo imparare qui a Toronto. Si vince oggi, si smette di festeggiare oggi e si passa avanti.

Quella sconfitta contro Montreal, però, è stata per me un’emozione. Volevo dimostrare qualcosa alla squadra, alla città. Volevo mostrare perché sono qui e cosa potevamo fare. Tutti hanno imparato da quella partita. Era una sorta di inizio di un viaggio per la nostra squadra. Abbiamo pensato che potevamo farcela nel 2016. Abbiamo imparato da Montreal nei playoff ma poi lo abbiamo rifatto in finale.

Ma, quella finale. Voglio dire, cosa puoi dire veramente su di essa? Se devo essere onesto, ho avuto questa sensazione un paio di giorni prima. Non lo so, c’era solo qualcosa dentro la mia mente che mi diceva che le cose non sarebbero andate per il verso giusto. Ho parlato con un paio di miei familiari e amici di questa cosa. E tentarono di scuotermi per il giorno della finale. Abbiamo avuto le nostre opportunità, ma non siamo riusciti a finirla. Non ho potuto finirla. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se non fossi uscito dal campo per crampi. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se avessi fatto questo o quello. Ma credo sia la stessa cosa di se vinci o perdi … devi andare avanti. Devi andare avanti.

Così abbiamo fatto i piccoli cambiamenti qua e là che dovevamo fare. Ed eravamo già abbastanza forti, per il semplice fatto che abbiamo due grandi giocatori:

C’è Michael Bradley. E ‘il nostro leader sul campo e nello spogliatoio. E dopo tutto quel tempo passato a giocare a Roma anche il suo italiano è abbastanza buono (forse anche meglio del mio!). Ma la cosa più importante è che lui sta dando consigli ai giovani e ci carica tutti prima di una partita.

E c’è poi Jozy. E ‘il mio uomo. È divertente, nel mio primo anno in MLS nessuno conosceva il mio stile di gioco, così potevo mettere a segno tanti gol quando i compagni mi servivano in area. Il secondo anno, immagino che gli avversari mi siano stati più attaccati. Sono stato coperto un po ‘di più. Ma quei ragazzi, come Jozy, si sono allenati per migliorare. E lo hanno fatto. Non lo so, io sento questo legame naturale con lui sul campo. Non abbiamo lunghe conversazioni prima di una partita. Andiamo là fuori e sappiamo dove l’altro sta andando.

Immagino che non sto veramente chiacchierando molto con nessuno, davvero. Forse è una cosa linguistica. Ma poi ci sono ragazzi che dimostrano sul campo il loro parlare. Del Piero era molto simile. E quando non parlo, ascolto. Sto ascoltando i nostri tifosi. Sarò onesto: ancora non capisco molti dei cori (sto imparando!), ma sento quando il mio nome viene cantato dalla folla al BMO. L’ho sentito. E lo sento.

Chiama la nostra stagione un ritorno, una storia di redenzione, qualunque cosa tu voglia. Siamo stati in cima tutto l’anno. Ma non siamo soddisfatti. E dopo ogni vittoriafermiamo i festeggiamenti e andiamo avanti. E non ci fermeremo finché non lo vedremo: uno scudetto a Toronto. E poi – dopo che ci vedrò sollevare la Coppa del MLS – so cosa farò.

Inoltre, sento che il lato canadese delle cascate del Niagara è molto più bello.”

Grande Seba!

Dario Sette

Continua il viaggio di “Italians” alla ricerca di sportivi italiani che militano all’estero in attività sportive e campionati culturalmente diversi da quelli europei.

Torniamo in Nord America per riparlare di calcio. Ebbene sì nel campionato soccer di Mls, precisamente in Canada, non ci sono solamente fenomeni italiani come Giovinco, Mancosu e Donadel, ma tra i pali del Vancouver Whitecaps milita il milanese Paolo Tornaghi.

Portiere cresciuto nelle giovanili dell’Inter e in assoluto il primo italiano a firmare con una squadra di Major league soccer, lo ha fatto nel 2012 con i Chicago Fire.

In Italia, purtroppo, non ha avuto una carriera facilissima. Le esperienze in prestito dall’Inter in Lega Pro (Como e Rimini) non hanno sortito in Paolo Tornaghi quella situazione di stabilità anche a causa di infortuni.

Da lì il progetto di volare oltreoceano, firmando un contratto con il Chicago Fire e la stagione successiva con il Vancouver Whitecaps dove ora è un pilastro dello spogliatoio.

Come sta andando la tua esperienza a Vancouver?

Sono alla quarta stagione nei Whitecaps. Direi che dopo i primi anni di soddisfazioni (playoff Mls e vittoria Canadian Cup), quest’anno abbiamo fatto un po’ più fatica. Per fortuna siamo arrivati fino alla semifinale di Concacaf Champions League a febbraio, che è stata un traguardo storico per il club.

Come mai hai scelto di volare in America?

Dal 2010-2011 ho iniziato a pensare concretamente di fare un’esperienza all’estero. Ho vissuto da dentro il fallimento del Rimini in Lega Pro, con le grandi difficoltà che comporta per un calciatore e forse poi il lungo infortunio per pubalgia che ho avuto mi ha caricato ancora di più. Nel gennaio 2012 si fecero avanti i Chicago Fire che cercavano un portiere da affiancare al titolare che sarebbe stato impegnato spesso con la nazionale Usa per le Olimpiadi. Ho preso i guanti e sono partito.

Cresciuto nelle giovanili dell’Inter, difficilmente poi si sfonda nel calcio che conta. Che cosa si deve fare per entrare nel giro delle grandi squadre?

Vuoi per il ruolo, vuoi per la situazione nel post Mourinho, all’Inter regnava tanta confusione a quel tempo. Mi era molto chiaro che le mie opportunità le avrei dovute cercare altrove. Sono pochi coloro che ce l’hanno fatta (Balotelli, Bonucci, Destro e Santon). Direi che già a livello Primavera bisogna veramente imporsi tra i 4-5 migliori giocatori dell’intero campionato. Ovviamente ci vogliono qualità, umiltà ma anche tanto impegno e una buona dose di fortuna.

Come sono i rapporti nello spogliatoio?

La nostra squadra rispecchia molto la città dal punto di vista multietnico. Siamo il club con più stranieri Il fatto che ci sono molti sudamericani sento meno la nostalgia dell’Italia. I nordamericani fanno da collante tra i vari stranieri ed è grazie a loro che il gruppo è unito.

Come si vive a Vancouver?

Vancouver è una città molto vivibile e multietnica, in cima a tante classifiche mondiali per qualità della vita. In inverno non fa freddissimo ma devi avere con te sempre l’ombrello (ride, ndr). Molti qui fanno sport invernali ma chiaramente a me non è permesso. Per fortuna con l’arrivo dell’estate ci si può rilassare in spiaggia, camminare o andare in bicicletta nei grandi parchi cittadini o per il lungomare. Grazie alle tante culture presenti, anche i ristoranti sono particolari e di qualità. Seguo anche altri sport come l’Nba e il Football.

Com’è stato l’ambientamento in America?

L’impatto con gli Usa è stato imponente dato che non sono venuto qui come turista. Ai tempi poi i Chicago Fire non mi diedero una grossa mano ad adattarmi e dovetti arrangiarmi da solo ad esempio per trovare casa. Ci sono stati episodi anche goffi come la difficoltà ad abituarsi a dormire senza oscurare le finestre. Qui sono abituati a non avere persiane e le prime notti sono state da incubo con il sole negli occhi come ti sveglia. Nel mio primo appartamento, inoltre, la lavanderia era in comune a tutto il palazzo, come succede in molti edifici americani, non si contano le volte che ho dimenticato il bucato nella lavatrice per tutta la notte o anche fino alla sera dopo (ride, ndr).

Come valuta attualmente il livello del campionato Mls?

Il livello è cresciuto molto e si sta sviluppando sempre più. Direi che una grossa mano l’hanno data i tanti giocatori sudamericani che, non essendo ancora pronti per il calcio europeo, passano prima in Mls. Poi certo, giocatori come Giovinco, Villa, Drogba e Pirlo fanno il 70% della fase offensiva di una squadra, facendo gol e creando occasioni in ogni partita.

C’è qualche sogno che non hai ancora realizzato?

Beh si certo tantissimi. Quello sicuramente più grande, che ho potuto assaporare da ospite quando ero aggregato alla prima squadra all’Inter è quello di giocare una partita di Champions League. Per un giocatore sarebbe il top sentire l’inno direttamente in campo.

Hai sempre avuto una propensione nel fare il portiere o c’è stato qualcuno o qualcosa che ti ha spinto per caso a stare tra i pali?

Ho iniziato all’età di 7 anni come attaccante nella squadra del mio paese, Cormano. Durante un esercizio di tiri in una porta vuota bisognava andare a recuperare il proprio pallone appena calciato nella rete. Io, dopo aver calciato e recuperato il mio, mi fermai nella porta aspettando il tiro del mio compagno. Quattro tiri parati e l’allenatore mi chiese se volevo fare il portiere e da li iniziò tutto.

Tra le varie esperienze estere quale ti ha soddisfatto di più a livello professionale e umano?

Sia a Chicago che qui a Vancouver ho vissuto belle stagioni. L’esordio con i Fire davanti a 60mila spettatori è stato emozionante. Lo staff aveva grande fiducia in me. In Canada invece vivo bene anche per i bellissimi rapporti umani coltivati con i compagni e le loro famiglie e per la vita nella città.

Hai intenzione di rientrare in Italia?

Facendo questo mestiere non si può porre limiti al futuro. Io non escludo veramente niente pensando al prosieguo della mia carriera. Dopo quasi 6 anni cosi lontano dall’Italia e dall’Europa sono sincero che sento la mancanza di tanti aspetti e se dovesse capitare un’opportunità ci penserei veramente su. Ma se ciò non dovesse succedere andrò avanti insieme a tutta la Mls in questa incredibile crescita del calcio americano.

Il portiere ha voluto salutare i nostri lettori…


Dario Sette