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Russia 2018

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La Federazione Russa è lo Stato più esteso al mondo: oltre 17 milioni di chilometri quadrati, con ben dieci fusi orari di differenza tra Kaliningrad e la Kamčatka; ed anche se l’organizzazione della 21a edizione dei campionati mondiali di calcio si è dimostrata finora impeccabile, è innegabile che l’immensità del territorio russo non potrà non influire sull’andamento del torneo.

La Coppa del Mondo avrà luogo in 11 città, mentre le partite si disputeranno in 12 diversi stadi; tra Kaliningrad, al confine con la Polonia, ed Ekaterinburg, nella Russia centrale, ci sono più di 2.000 chilometri di distanza, mentre da San Pietroburgo, la sede più settentrionale, fino a Sochi, quella più a sud, oltre 2.300.

La nazionale che nella fase a gironi percorrerà la distanza maggiore sarà il Perù: dopo il match di esordio contro la Danimarca a Saransk, i sudamericani dovranno volare ad Ekaterinburg, per affrontare la Francia ed infine a Sochi per disputare la partita di chiusura della prima fase contro l’Australia: un totale di oltre 8.000 chilometri in appena dieci giorni.

 

Le 11 città che ospiteranno i mondiali sono: Mosca, San Pietroburgo, Kalinigrad, Kazan’, Nižnij Novgorod, Samara, Volgograd, Saransk, Rostov sul Don, Soči ed Ekaterinburg.

Questi invece i dodici stadi: Lo Stadio Lužniki o Grande arena sportiva del complesso Olimpico Lužniki a Mosca, circa 81mila posti; lOtkrytie Arena nel villaggio di Tušino, sempre a Mosca, circa 47mila posti, che ospita le partite dello Spartak Mosca; la Zenit Arena a San Pietroburgo, circa 70mila posti, che ospita le partite dello Zenit San Pietroburgo; l’Arena Baltika a Kaliningrad, circa 35mila posti; la Kazan Arena a Kazan’ circa 45mila posti; lo Stadio Nižnij Novgorod nell’omonima città, circa 45mila posti; il Futbol’nyj stadion v Samare a Samara, circa 45mila posti; la Volgograd Arena a Volgograd, circa 45mila posti; la Mordovia Arena a Saransk, circa 45mila posti; la Rostov Arena a Rostov sul Don, circa 45mila posti; lo Stadio Olimpico Fišt a Soči, circa 40mila posti, dove si sono svolte le cerimonie di apertura e di chiusura delle Olimpiadi invernali del 2014 ed infine lo Stadio Centrale a Ekaterinburg, circa 45mila posti.

 

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Ragnar Sigurdsson è nato il 19 giugno 1986 a Reykjavik. I media gli riservano poche attenzioni, ma è una delle colonne portanti dell’Islanda dei miracoli. In Russia sarà uno dei giocatori con la militanza più lunga in nazionale, il settimo nella classifica di tutti i tempi. Ha vinto coppe e campionati in Danimarca e Svezia, prima di approdare nel campionato russo.
Difensore granitico dotato di una buona tecnica, avrebbe meritato una carriera in campionati di prima fascia. In nazionale ha segnato due goal pesantissimi che hanno segnato la storia del calcio islandese: suo il primo goal contro l’Inghilterra agli ottavi di Euro 2016, suo il terzo goal al 96′ nel 3-2 di Islanda – Finlandia, passaggio fondamentale per la qualificazione ai Mondiali.

LA CARRIERA DI RAGNAR SIGURDSSON NEI CLUB

2004-2006: Fylkir Reykjavík 38 (2)
2007-2011: IFK Göteborg 132 (11)
2011-2014: FC Copenhague 76 (4)
2014-2016: FK Krasnodar 114 (6)
2016: Fulham 18 (1)
2017-2018 → (prestito) Rubin Kazan 18 (0)
2018- → (prestito) FK Rostov 9 (0)

LA CARRIERA DI RAGNAR SIGURDSSON IN NAZIONALE

Presenze: 76
Goal: 3

Debutto: 22 agosto 2007, a Reykjavik, nell’amichevole fra Islanda e Canada terminata 1-1

CURIOSITÀ

Gli ottavi agli Europei di Francia contro l’Inghilterra hanno rappresentato il momento più alto della sua carriera. Oltre il suo goal, la sua prestazione era stata monumentale anche in fase difensiva. Ancora oggi abbiamo negli occhi l’intervento prodigioso con cui ha sradicato il pallone dai piedi di Jamie Vardy lanciato a rete.

Molti meno ricordano il suo goal contro la Finlandia nel pazzo 3-2 delle qualificazioni mondiali. Era una delle prime partite sulla strada di Russia 2018. Al 90′ l’Islanda era sotto per 1-2 e una sconfitta casalinga, in un girone competitivo, contro una delle squadre meno accreditate, avrebbe minato qualsiasi sogno di gloria. Il pareggio di Alfred Finnbogason al 91′ e soprattutto il suo colpo gobbo (ancora oggi dobbiamo capire con cosa abbia colpito la palla) al 95′, sono stati la chiave di volta di questo miracolo sportivo. Per chi soffre e gioisce per l’Islanda anche quando non attira le attenzioni del mainstream, è una piccola perla da custodire gelosamente in memoria.

Esiste un’altra curiosità e la trovate su Freezeland.it

Il conto alla rovescia prosegue e si avvia lentamente, ma inesorabilmente, verso lo zero: la ventunesima edizione dei campionati mondiali di calcio, organizzati dalla Russia e che si svolgeranno dal 14 giugno al 15 luglio, sta finalmente per prendere il via.

Se ne sono sicuramente accorti i moscoviti, travolti in questi giorni da una vera e propria invasione pacifica, rumorosa e colorata di tifosi di ogni età, lingua, cultura e ovviamente nazionalità e quindi fede calcistica.

Per le strade del centro della capitale russa, nelle principali piazze e nei luoghi di incontro più frequentati, oltre che nei pressi dei fan id center, è tutto un tripudio di carovane di tifosi, inni nazionali e cori da stadio, ma ciò che è più importante è la voglia di divertirsi e di fare festa che traspare da ogni singolo tifoso giunto qui a Mosca.

Sono insieme ad un collega italo-francese che seguirà Svezia-Corea del Sud a Nizhnij Novgorod il 18 giugno, quando mi imbatto in un gruppo di tifosi iraniani, non lontano dalla Piazza Rossa. Quando vengono a sapere che sono italiano, immediatamente esprimono il loro dispiacere per il fatto che l’Italia non sarà presente a questi mondiali:

È un vero peccato che l’Italia non si sia qualificata ai mondiali, comunque rimane una delle nazionali più importanti al mondo, ci sarebbe piaciuto vedere all’opera sopratutto Buffon.

Proseguo la mia camminata e alle spalle del Cremlino incontro tre tifosi brasiliani avvolti nella bandiera e con un in mano un modello della Coppa. Cantano, ballano ed in breve tempo diventano l’attrazione principale per giornalisti e semplici curiosi; dopo aver raccontato di aver volato per 30 ore da Rio de Janeiro a Mosca, uno di loro si rivolge ad una telecamera gridando:

Vinceremo noi la Coppa del Mondo! Forza Brasile! Brasile Campione!

I Mondiali non sono ancora iniziati l’obiettivo principale di questo evento planetario è già stato ampiamente raggiunto: trasformare ogni momento in un’occasione per gioire e divertirsi, all’insegna della condivisione e della lingua universale del tifo e della passione sportiva.

Troppo spesso siamo sommersi da quella bassissima retorica che punta il dito contro i calciatori perché, a detta loro, stupidi e talmente ricchi da restare al di fuori di tutto ciò che accade nel mondo. Ovviamente non è vero, anzi, sono molti i giocatori impegnati nel sociale ed altrettanti quelli che ancora percepiscono il valore di indossare una certa maglia, discorso che si amplifica quando si veste la casacca della propria nazionale, da sempre motivo d’orgoglio. Con l’incremento dei flussi migratori degli ultimi anni si sono venuti a creare molti casi nei quali un giocatore con la doppia nazionalità doveva prendere una decisione su quali colori indossare: la CNN ha intervistato Ghoddos, Zaha e Kompany per capire cosa ha determinato le loro scelte.

Nazionalità
Fonte foto: youtube.com

Fin da quando ero bambino ho posto sia la bandiera svedese che quella iraniana sopra il letto” esordisce così Saman Ghoddos, attualmente in forza all’Ostersunds. Le sue buone prestazioni nel 2017 gli sono valse la convocazione con la Svezia: il tecnico Andersson lo ha schierato nelle sfide amichevoli con la Costa d’Avorio e la Slovacchia, non compromettendo una sua futura decisione di vestire la maglia dell’Iran, nazione da dove provengono i suoi genitori. Ed è ciò che è avvenuto: “Il Ct Queiroz mi ha contattato dicendomi che gli piaceva il mio stile di gioco. Ai tempi non riuscivo a scegliere, la situazione era in equilibrio: amo entrambe le nazioni e credo di rappresentarle entrambe. L’Iran però si è mostrato realmente interessato a me e ciò ha fatto pendere l’ago della bilancia“. Ghoddos è stato decisivo per l’approdo degli asiatici al Mondiale e le sue prestazioni gli sono valse un posto nei ventitré che giocheranno la Coppa del Mondo in Russia.

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Fonte foto: saharareporterssport.com by Richard Heathcote/Getty Images

Un altro caso di doppia nazionalità è quello riguardante Wilfried Zaha che inizia dichiarando di non avere “alcun tipo di rimpianto“. La stella del Crystal Palace è nata in Costa d’Avorio ma all’età di 4 anni si è trasferito nel Regno Unito, come conferma egli stesso: “Tutto ciò che conosco riguarda l’Inghilterra“. La sua scelta iniziale fu di vestire la maglia dei Tre Leoni dove fece diverse presenze con l’Under 21 e un paio di amichevoli con la nazionale maggiore ma il rapidissimo esterno ha scelto la selezione africana: “Non ho ricevuto considerazione dall’Inghilterra per ben quattro anni, questo ha ovviamente influenzato la mia decisione. Gli ivoriani, invece, nonostante i miei ripetuti rifiuti iniziali hanno sempre cercato di portarmi dalla loro parte facendomi sentire importante“. Drogba ha avuto un ruolo importante in tutto ciò: l’ex centravanti del Chelsea ha ricordato a Zaha come è andato via dal suo paese natale non essendo nessuno e ci sarebbe tornato come eroe. Una favola che valeva la pena vivere.

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Fonte foto: eurosport.com

Il capitano del Manchester City, Vincent Kompany, si sente “100% belga e 100% congolese”. La sua scelta è stata quella di vestire la maglia della selezione europea ma secondo il difensore: “Spero che molte persone in Congo si sentano orgogliose delle mie prestazioni con la casacca del Belgio“.  Il centrale ha svelato un aneddoto particolare: “Nelle vie di Manchester associano me e Kevin (de Bruyne) al Belgio e a me questo fa piacere. Non bisogna mai rinnegare le proprie origini io rappresento la mia eredità familiare che attinge da tutte e due i paesi“.

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Arnór Ingvi Traustason è nato a Keflavík il 30 aprile 1993. Dopo l’esordio nella squadra della sua città, si trasferisce al Sandnes Ulf in prestito, ma è con gli svedesi del Norrköping che si afferma definitivamente. Quella in Svezia resta ancora oggi la sua esperienza migliore e l’Allsvenskan sembra essere la sua dimensione ideale, viste le poche fortunate avventure in Austria e in Grecia. Dall’inizio del 2018 è tornato in Scandinavia, al Malmö, dove sta vivendo con la sua squadra un periodo molto difficile. Dal 2009 nel giro delle nazionali giovanili, il centrocampista che all’occorrenza può giocare da ala nella nazionale maggiore conta solo 18 presenze, condite però da gol pesantissimi.

La carriera di Arnór Traustason nei club

2010-2013: Keflavík, 52 (10)
2012: Sandnes Ulf [prestito], 10 (0)
2014-2016: Norrköping, 56 (12)
2016-2017: Rapid Vienna, 22 (3)
2017: AEK Atene [prestito], 3 (0)
2018-oggi: Malmö

La carriera di Arnór Traustason in nazionale

Presenze: 18
Debutto: 13 novembre 2015 contro la Polonia, a Varsavia, in amichevole. Vittoria Polonia per 4-2.

Gol:
1) 13 gennaio 2016, Abu Dhabi (Zayed Sports City Stadium), contro la Finlandia, un gol. Vittoria Islanda per 1-0.
2) 24 marzo 2016, Herning (MCH Arena), contro la Danimarca, un gol. Vittoria Danimarca per 2-1.
3) 29 marzo 2016, Il Pireo (Stadio Geōrgios Karaiskakīs), contro la Grecia, un gol. Vittoria Islanda per 3-2.
4) 22 giugno 2016, Saint-Denis (Stade de France), contro l’Austria, un gol. Vittoria Islanda per 2-1.
5) 15 novembre 2016, Ta’ Qali (Ta’ Qali Stadium Nazzjonali), contro Malta, un gol. Vittoria Islanda per 2-0.

Curiosità

Nonostante ad uno sguardo superficiale la carriera di Arnór Traustason possa sembrare non un granché, il numero 21 della nazionale del ct Hallgrímsson si è già tolto delle belle soddisfazioni. Nel 2013 è stato votato come giocatore più promettente del campionato islandese (maschile), mentre nel 2015 riuscì a trascinare il suo Norrköping verso un inaspettato e clamoroso primo posto in campionato. Tra l’altro, è proprio lì in Östergötland che Traustason ha vinto il suo unico trofeo.

Tuttavia, il suo nome è legato inevitabilmente al momento emotivamente più trascinante della spedizione islandese a Euro 2016. Qualcuno ricorda l’esultanza folle, fino a perdere letteralmente la voce, che portò il nome di Gummi Ben alla ribalta mondiale? Forse lo ricordiamo tutti. Un momento bellissimo, il 2-1 all’Austria all’ultimo minuto di gioco permise all’Islanda di continuare il suo percorso, che poi avrebbe avuto una nuova apoteosi con la clamorosa eliminazione dell’Inghilterra. Ecco, se oggi tutto il mondo conosce quel “pazzo” di Gummi Ben, il merito è di Traustason, a cui va un affettuoso ringraziamento da parte di tutti noi!

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La Guerra del Fútbol tra El Salvador e Honduras spostò il conflitto tra le due nazioni su un campo da calcio. Le parole di Gilberto Yearwood, ripercorrono quei momenti e le gesta dell’Honduras ai Mondiali del 1982, in uno spezzone tratto dal libro “Cenerentola ai Mondiali di Matteo Bruschetta

«Tra vicini di casa, capita spesso di litigare. Honduras, il paese in cui sono nato, ed El Salvador non si sono mai troppo amati e l’apice della violenza si raggiunse alla fine degli anni Sessanta, in quella che il giornalista polacco Ryszard Kapuściński definì in un libro “La Guerra del Fútbol”. Nonostante sia durato quattro giorni, dal 14 al 18 luglio 1969, è stato uno dei conflitti più sanguinosi della seconda metà del Novecento, con quasi seimila morti e oltre quindicimila feriti.

Tutto ebbe inizio nel 1960 quando gli USA, che avevano grande influenza in America Centrale, promossero la nascita del Mercado Común Centroamericano, un’area di libero scambio tra Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Honduras ed El Salvador. Ciò permetteva alle multinazionali USA di coltivare grandi piantagioni, soprattutto di banane, e avere manodopera a basso costo. Anche i cinque stati centramericani trassero dei benefici, per uscire dalla cronica arretratezza della loro agricoltura. Honduras era il paese tecnologicamente meno evoluto, El Salvador il più sviluppato e di conseguenza qui gli investimenti furono maggiori, permettendo una crescita economica e demografica.

El Salvador divenne presto lo stato più popoloso dell’America Centrale, dopo il Messico. Un aumento sproporzionato per un paese così piccolo, che si trovò ad avere problemi di disoccupazione. Temendo una rivolta contadina, il governo salvadoregno decise di chiedere aiuto all’Honduras, dove le condizioni erano opposte: arretratezza agricola e tanti chilometri quadrati di terre incolte. Nel 1967 i due Stati firmarono una convenzione bilaterale sull’immigrazione. Oltre 300.000 campesiños salvadoregni varcarono il confine e avviarono la coltivazione delle terre inutilizzate.

Il massiccio esodo non fu, però, ben accolto dagli agricoltori honduregni, già scesi in piazza per protesta. In Honduras la dittatura di Oswaldo López Arellano era appoggiata da USA e latifondisti, quindi non si potevano redistribuire le terre in mano a multinazionali e grandi proprietari terrieri. La via più semplice era confiscare la terra agli immigrati, in barba agli impegni presi. Nell’aprile 1969, un provvedimento del Ministero dell’Agricoltura honduregno decretava la confisca delle terre e l’espulsione di 300.000 campesiños salvadoregni. Era un grave illecito internazionale e le relazioni diplomatiche tra i due Stati si fecero tesissime.

In questo clima di tensione, Honduras ed El Salvador dovevano affrontarsi per le qualificazioni ai Mondiali di Messico 1970. La gara d’andata era in programma l’8 giugno 1969 a Tegucigalpa. Non fu semplice per El Salvador venire a giocare da noi. La notte della vigilia, centinaia di persone si radunarono sotto il loro albergo per impedir loro di dormire e il giorno dopo, mentre andavano allo stadio, sgonfiarono le ruote del loro pullman. La partita la vinse Honduras 1-0, con un gol all’ultimo minuto. A El Salvador la sconfitta non fu presa bene, una 18enne di nome Amelia Bolanos, figlia di un generale dell’esercito, si sparò un colpo di pistola al cuore, tanta era la delusione.

Lo stesso clima d’intimidazione, se non peggiore, ci fu nella partita di ritorno del 15 giugno a San Salvador. I tifosi di casa presero di mira l’Hotel Intercontinental, dove riposavano i nostri giocatori, con lancio di sassi, stracci puzzolenti, topi morti, uova marce e bombe artigianali, tanto da costringerli a rifugiarsi sul tetto. Il giorno dopo, la nostra nazionale fu accompagnata allo stadio a bordo di carri armati dell’esercito. Sul campo non ci fu storia: finì 3-0 per i salvadoregni. Tre gol e tre morti: due tifosi honduregni e l’accompagnatore della nazionale di Honduras, un ragazzo salvadoregno, ucciso a sassate dalla folla, non appena lasciò l’hotel.

Al tempo, non c’era la regola dei gol in trasferta e fu necessario un ulteriore spareggio in campo neutro, il 27 giugno all’Azteca di Città del Messico. El Salvador vinse 3-2 ai supplementari e, al termine della partita, ci furono scontri tra tifosi honduregni e salvadoregni nelle strade adiacenti all’Azteca. La sera stessa, il governo di Honduras ruppe le relazioni diplomatiche con El Salvador, la guerra era ormai alle porte e iniziò tre settimane dopo.La “Guerra del Fútbol” la ricordo bene, così come la sconfitta contro El Salvador. Fu la prima delusione calcistica della mia vita. Avevo tredici anni e frequentavo la scuola “La Salle”, a San Pedro Sula, la città in cui sono nato e cresciuto. Giocavo scalzo per strada, nel barrio Suyapa, quando il signor Nicolás Chaín mi vide e mi raccomandò al Real España, allenato da José de la Paz Herrera, conosciuto da tutti come Chelato Uclés. Fu lui che mi lanciò titolare in prima squadra a diciassette anni. Non potete immaginare la soddisfazione di vedere scritto sui giornali il mio nome: Gilberto Yearwood. Per la mia forza bruta ben presto mi soprannominarono “el Vikingo”, anche se i miei antenati erano africani. Giocavo al centro della difesa di una squadra che in tre anni vinse due campionati nazionali. Chelato Uclés non guardava la carta d’identità dei giocatori, il portiere titolare era un altro ragazzino, due anni più piccolo di me: Julio César Arzú.

Nel 1977 siamo stati entrambi convocati in nazionale giovanile, per la prima edizione del Mondiali Under-20 in Tunisia. Eravamo un equipazo: io, “Tile” Arzú, Héctor “Pecho de Aguila” Zelaya, Ramón “Primitiva” Maradiaga, Anthony “Cochero” Costly, Prudencio “Tecate” Norales, Armando “el Cañón” Betancourt, che aveva segnato undici gol nel girone di qualificazione disputato a Porto Rico. Tutti ragazzi che avrebbero fatto la storia del calcio honduregno.

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Hólmar Örn Eyjólfsson è nato a Sauðárkrókur il 6 agosto 1990. Cresce in una famiglia di sportivi, e già durante l’infanzia ha alcune esperienze con il Tindastóll e l’HK, club col quale esordirà tra i “grandi” nel 2007. Dopo un provino sfortunato col Bayern Monaco, nel 2008 firma con il West Ham, ma il club inglese non gli farà giocare nemmeno un singolo minuto. Nel 2011, dopo tre anni passati in prestito qui e lì, approda comunque in Germania, dove col Bochum conquisterà una promozione in massima serie e riceverà anche la chiamata della nazionale maggiore. Nel 2014 arriva a Trondheim, dove con la maglia del Rosenborg dominerà in lungo e in largo il calcio norvegese. Dopo un passaggio nel 2017 in Israele con il Maccabi Haifa, attualmente milita nel Levski Sofia. Con appena 9 presenze, è uno dei giocatori meno utilizzati in assoluto tra i convocati di Hallgrímsson.

La carriera di Hólmar Örn Eyjolfsson nei club

1995-1997: Tindastóll (giovanili)
1997-2007: HK (giovanili)
2007-2008: HK, 19 (0)
2008-2011: West Ham, 0 (0)
2009: Cheltenham Town [prestito], 4 (0)
2010: Roeselare [prestito], 9 (0)
2011-2014: Bochum, 45 (1)
2014-2017: Rosenborg, 65 (4)
2017-2018: Maccabi Haifa, 16 (0)
2017-2018: Levski Sofia [prestito], 17 (1)
2018-oggi: Levski Sofia

La carriera di Hólmar Örn Eyjolfsson in nazionale

Presenze: 9
Debutto: 30 maggio 2012 contro la Svezia, a Göteborg, in amichevole. Vittoria Svezia per 3-2.

Gol:
1) 11 gennaio 2018, Sleman (Stadion Maguwoharjo), contro l’Indonesia XI*, un gol. Vittoria Islanda per 6-0.

*L’Indonesia XI non va confusa con la nazionale indonesiana vera e propria. Infatti, la prima è una semplice selezione dei migliori giocatore del campionato indonesiano, la seconda invece è la rappresentante ufficiale del paese nelle competizioni FIFA.

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Tra le tante meravigliose storie dei Mondiali c’è sicuramente quella della Svezia ad USA 1994, capace di arrivare terza ed uscita in semifinale contro il Brasile, vincitore della competizione. Tra le leggende di quella squadra non si può non menzionare Roland Nilsson, difensore nativo di Helsingborg e perno della formazione del Goteborg che vinse la Coppa Uefa, oltre ad essere secondo per numero di presenze con la maglia della nazionale. Una carriera gloriosa che ha raggiunto il suo momento più alto proprio nella kermesse statunitense dove arrivò la medaglia di bronzo al termine della finalina stravinta contro la Bulgaria.

Nilsson
Fonte foto: svenskafans.com

Nilsson ha concesso una lunga intervista in esclusiva ai microfoni della Fifa ricordando i bei momenti del 1994 e facendo il punto sulle ambizioni della Svezia verso Russia 2018. Nel corso della sua carriera ha partecipato a due Mondiali giocando tutti i 930 minuti a sua disposizione. “La prima esperienza, quella del 1990 in Italia, è stata difficile. Tornavamo a giocare la Coppa del Mondo dopo dodici anni, molte cose non andarono per il verso giusto. Abbiamo imparato dai nostri errori: già ad Euro ’92 disputammo una buona competizione, più passava il tempo più eravamo pronti e maturi per USA ’94. Tutta la nostra preparazione era focalizzata sul nostro calcio, non ci siamo distratti, è stato un periodo fantastico: l’atmosfera, gli stadi, i campi mi portano alla mente dei ricordi così belli“.

La partita che ricordo con più gioia è il quarto di finale con la Romania (2-2; 5-4 d.c.r.). Nei tempi supplementari eravamo sotto 2-1 e con un uomo in meno: il nostro spirito combattivo è uscito fuori proprio in quel momento e Kennet Andersson ha realizzato il gol del pareggio (su assist proprio di Nilsson). Ai calci di rigore le parate di Ravelli ci hanno salvato: è stato incredibile“. Ha continuato l’ex difensore della nazionale che poi è uscita contro il Brasile in semifinale: “Nella fase a gironi avevamo pareggiato ma loro erano uno squadrone. Abbiamo giocato per mezz’ora in inferiorità numerica ma siamo riusciti a non concedere nulla tranne un piccolo spiraglio ad un attaccante magnifico come Romario che ci ha puniti“.

Riguardo i Mondiali che verranno, Nilsson ha poi aggiunto: “Oggi vale esattamente quello che valeva allora: è fondamentale iniziare bene, la Svezia deve battere la Corea del Sud. La squadra è buona, lavora sodo e si è qualificata brillantemente ai playoff contro l’Italia. Sappiamo che sarà difficile fare quello che noi abbiamo fatto nel 1994 ma con un po’ di fortuna possono farcela”.

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Birkir Bjarnason è nato ad Akureyri il 27 maggio 1988. Inizia a giocare nelle giovanili del KA ma, nel 1999, la famiglia si trasferisce in Norvegia; il percorso del giovane Birkir prosegue quindi nelle giovanili dell’Austrått prima e del Figgjo poi. Nel 2006 si trasferisce al Viking. Nel 2008 arriva l’esordio nella massima serie norvegese con la maglia del Bodø/Glimt, dove il giovane islandese è stato girato in prestito. Seguono tre stagioni di alto livello al Viking (86 presenze e 15 gol) che fanno cadere l’attenzione dei belgi dello Standard Liegi sul biondo centrocampista. La stagione in Jupiter Legaue non è brillantissima (20 presenze tra campionato e coppe senza gol) e l’anno dopo il centrocampista si trasferisce in Italia, al Pescara. Gli abruzzesi, tornati in Serie A dopo diversi anni, lo cedono poi al Basilea. Attualmente in forza all’Aston Villa, Bjarnason conta ben 65 presenze in nazionale.

La carriera di Birkir Bjarnason nei club

2006-2011: Viking, 102 (16)
2008: Bodø/Glimt [prestito], 22 (5)
2012-2013: Standard Liegi, 16 (0)
2012-2013: Pescara [prestito], 24 (2)
2013: Pescara, 1 (0)
2013-2014: Sampdoria, 14 (0)
2014-2015: Pescara, 35 (10)
2015-2017: Basilea, 42 (14)
2017-oggi: Aston Villa, 27 (3)

La carriera di Birkir Bjarnason in nazionale

Presenze: 65
Debutto: 29 maggio 2010 contro Andorra, a Reykjavík, in amichevole. Vittoria Islanda per 4-0.

Gol:
1) 27 maggio 2012, Valenciennes (Stade du Hainaut), contro la Francia, un gol. Vittoria Francia per 3-2.
2) 12 ottobre 2012, Tirana (Stadiumi Qemal Stafa), contro l’Albania, un gol. Vittoria Islanda per 2-1.
3) 7 giugno 2013, Reykjavík (Laugardalsvöllur), contro la Slovenia, un gol. Vittoria Slovenia per 4-2.
4) 10 settembre 2013, Reykjavík (Laugardalsvöllur), contro l’Albania, un gol. Vittoria Islanda per 2-1.
5-6) 26 marzo 2015, Astana (Astana Arena), contro il Kazakistan, due gol. Vittoria Islanda per 3-0.
7) 14 giugno 2016, Saint-Étienne (Stade Geoffroy-Guichard), contro il Portogallo, un gol. Pareggio per 1-1.
8) 3 luglio 2016, Saint-Denis (Stade de France), contro la Francia, un gol. Vittoria Francia per 5-2.
9) 6 ottobre 2017, Eskişehir (Yeni Eskişehir Stadyumu), contro la Turchia, un gol. Vittoria Islanda per 3-0.

Curiosità

Senza alcun dubbio il nome di Birkir Bjarnason è legato alla curiosa quanto clamorosa polemica che nacque tra i tifosi del Pescara e la federazione islandese. Era il 9 giugno 2015, quando gli abruzzesi si giocavano col Bologna la finale del play-off per ritornare in Serie A. Pur essendo pedina fondamentale per la sua squadra, però, Bjarnason quella partita non la giocò mai, perché nel frattempo era stato convocato dalla sua nazionale.

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Come vi avevo accennato nel precedente post, vivo in Austria dove lavoro sia all’interno di un ostello che come guida turistica. Ora provate a ricordarvi: durante l’Europeo del 2016, l’Islanda aveva due risultati su tre per superare il Gruppo F e accedere agli storici ottavi dove avrebbe incontrato l’Inghilterra. E indovinate contro chi giocava l’ultima gara del girone da dentro o fuori? Ebbene sì proprio contro gli austriaci che dovevano necessariamente vincere per passare il turno.

Io me lo ricordo quel giorno storico, quel 22 giugno del 2016. L’Islanda passa subito in vantaggio, poi l’Austria prima sbaglia un rigore e poi trova il pareggio dopo un’ora di gioco. Dovevamo trattenere il fiato e l’euforia, poi in contropiede, al 94’, il gol del 2-1 di Traustason che ha mandato in paradiso la piccola isola…e ha mandato in ospedale il nostro giornalista che stava facendo la radiocronaca.

E quindi ci tocca l’Inghilterra agli ottavi. Ci toccano gli ideatori del football. In Italia, secondo l’ultimo censimento Istat, vivono 140 islandesi; in Austria molto probabilmente ce ne sono anche di meno e a Vienna, anche come turisti, se ne vedono pochi: zero durante le guide turistiche, un paio l’anno prenotano una camera dell’ostello. Il 27 giugno del 2016, nella piazza del municipio di Vienna c’erano, boh, tutti gli islandesi che vivono in Austria. Ma tutti! E tutti, euforici e chiassosi, davanti al maxischermo piazzato per l’occasione.

 In un attimo, guardandomi attorno, pensavo di essere altrove, a Reykjavik o su per lì; scuotendo la testa a destra e a sinistra la partita si era capovolta: non giocavo più in trasferta, ma in casa! Non ho aspettato un istante e subito ho fatto amicizia con in miei “connazionali” e tra questi ce n’era uno che conosceva personalmente l’ambasciatore islandese in Austria che stava guardando il match in un soppalco, una zona vip esclusiva e riservata a pochi.

E io ero tra questi! Birra gratis (anche il cibo, ma passa in secondo piano), però, non volevo tradire chi era in piazza così sono sceso; la situazione, diciamo, era concitata, la partita non era per deboli di cuore: nella settimana della Brexit,  Sigurdsson e Sigthorsson ribaltano il vantaggio di Rooney su rigore dopo appena 4 minuti.

Io ho vissuto il match storico dell’Islanda nella terra nemica e ho potuto esultare come non mai. Ma c’è di più: mi hanno anche intervistato. Sì, un’emittente austriaca – che non doveva essere la massima rappresentazione della gioia in quel momento – ha intervistato me. Tra tutti gli islandesi e pseudo tali! Esiste un video che potete vedere qui.