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Rimmel è una delle cose più immense della musica italiana. L’album e l’omonima canzone che racchiudono l’arte poetica di Francesco De Gregori, videro la luce nel 1975.
Franco Baresi aveva 15 anni e, già al tempo, era soprannominato “Piscinin” prima di cedere spazio e gloria al più pomposo nomignolo di “Kaiser Franz” in onore di Franz Beckenbauer. Il paragone regge e reggerà nel corso dei decenni calcistici: Franco Baresi, genio, anticipo, tackle, purezza e scorza. Tra i più completi liberi nella storia.

Anzi no. Completo tecnicamente, incompleto e incompiuto per quello che tanto ha dato al mondo del pallone e tanto poco ha ricevuto. Pallone ingrato. Dalle pagine chiare e ricche di trionfi con il Milan, legato sempre e per sempre (altra citazione di De Gregori) ai rossoneri, alle pagine scure della Nazionale.
Dalle pagine chiare di un Mondiale, quello del ’94, che l’ha visto leader anche fuori dal campo, con il recupero record in 20 e poco più giorni dall’infortunio al menisco, alle pagine scure del triste epilogo americano. Il sogno americano frantumato dagli 11 metri.

Franco Baresi, l'ultimo difensore

Il capitano della Nazionale allenata da Arrigo Sacchi si infortunò nella sfida contro la Norvegia. Era appena la seconda partita del girone. Che si fa, si torna a casa? Nemmeno per scherzo.
Decise di operarsi immediatamente, a meno di 24 ore dall’infortunio. Voleva rientrare a tutti i costi sperando in un successo dietro l’altro dei suoi compagni di squadra. A 34 anni si è saggi e stolti abbastanza per fare di tutto pur di acciuffare l’ultimo treno della vita: un Mondiale con la fascia di capitano.
Dopo sette giorni dall’operazione lasciò la clinica, senza stampelle e raggiunge il ritiro degli azzurri. «Un miracolo», dissero gli altri strabuzzando gli occhi.

Franco non crede ai miracoli, ma li sa fare (ancora De Gregori): in difesa è il leader, elegante, ordinato, deciso e sportivo. Dopo l’operazione non aveva bisogno di allenarsi, che gli serviva? Conosceva Sacchi, Maldini, Costacurta e Tassotti. Blocco Milan sinergico e amici di tante sfide.
Rimesso in piedi e in ottime condizioni fisiche e muscolari, non così scontato se si gioca a luglio, il 17, in un clima umido che sbalzava i gradi oltre i 40°.

Franco Baresi, un nome e un numero: 6 per sempre

La finale contro il Brasile è una delle sue migliori partite si sempre. Con il numero sei sulle spalle, annienta gli attaccanti verdeoro da Romario a Bebeto. Solo i crampi lo buttano a terra, ma al 120’ dopo i supplementari e prima dei calci di rigore.
Visto i continui rimandi a De Gregori, sarebbe lineare dire che non è da questi particolare che si giudica un giocatore. Vorremmo, quasi con paterna consolazione ripeterlo ancora oggi, dopo più di 20 anni, a Franco Baresi. Sussurrargli parole dolci e di conforto dopo il tiro, travolto dalla stanchezza, calciato alto, oltre la traversa.

E’ un eroe fragile, un eroe incompiuto e forse anche per questo è eterno nei ricordi degli appassionati. Perché si è dimostrato umano. Una divinità che, a 34 anni, dopo aver recuperato in meno di un mese da un infortunio serio, dopo i rigori falliti e la coppa del Mondo alzata dal Brasile, si è lasciato andare in un genuino pianto.
La Gazzetta dello Sport gli diede 9. A un passo dalla perfezione.

Se non è stata una “maggioranza bulgara”, poco c’è mancato: 142 voti su 155 disponibili, un’annata da incorniciare per giocate e gol e con la Coppa Uefa alzata davanti ai musi lunghi dei tedeschi del Borussia Dortmund. Il 28 dicembre 1993, Roberto Baggio vince il Pallone d’oro. Con la Juventus, il Divin Codino si afferma e si consacra nel panorama calcistico internazionale. Il riconoscimento della rivista francese France Football non lascia dubbi: nessuno può eguagliare il talento italiano. Alle sue spalle, distaccati, l’olandese Dennis  Bergkamp, che quell’estate passerà dall’Ajax all’Inter, e l’istrionico francese Eric Cantona, idolo tra i tifosi del Manchester United.

Dopo la convincente vittoria della Juventus per 3-1, nell’andata della finale di Coppa Uefa contro il Borussia Dortmund al Westfalenstadion, è lo stesso calciatore nato a Caldogno a ironizzare, dopo avere segnato una doppietta, sulla sua possibilità di alzare il trofeo dorato: «Il Pallone d’oro io a Baggio lo darei».
Con il 3-1 all’andata e il 3-0 al ritorno a Torino, quei pochi scettici si convincono della strepitosa annata del talento con il numero 10 cucito sulle spalle. Del resto, i numeri della stagione 1992-1993 parlano chiaro, chiarissimo: in Serie A, Baggio gioca 27 partite e realizza 21 rete, il suo rendimento migliore dopo la rinascita a Bologna nel 1997-1998 dove segnerà 22 marcature. Letale anche in Coppa Uefa con 6 gol in 7 gettoni.

Attorno ai suoi tocchi, alle sue giocate e al suo talento, la Juventus vuole ricucire i suoi successi, smarriti dopo l’addio di un altro fuoriclasse come Michelle Platini. Ma il Milan di Fabio Capello sfugge e, nonostante, il ricco bottino di segnature di Baggio (solo Signori fece meglio con 26 reti), la Juventus concluderà quarta con 39 punti, meno 11 rispetto al Milan. Unica pacata consolazione per il Divin Codino è la splendida rete che segna a San Siro, nella “Scala del calcio”, proprio ai rossoneri:

E’ in Europa, come detto, che la Juventus e Baggio trovano gloria: è proprio il fantasista ad aprire le marcature europee del club torinese nel 6-1 del primo turno contro i ciprioti dell’Anorthosis Famagosta. Poi un digiuno che si interrompe in semifinale, quando, contro il Paris Saint Germain, tira fuori tutta la sua classe segnando una doppietta nella vittoria per 2-1 all’andata e per 1-0 in terra transalpina. Da antologia i due gol segnati a Torino:

Alla premiazione del Pallone d’oro, Roberto Baggio disse:

Il Pallone d’oro è una cosa mia: sono sicuro che se scendeste in strada a chiedere ai tifosi cosa vorrebbero che vincessi vi risponderebbero lo scudetto, se sono juventini; il Mondiale, se non lo sono. Infatti i miei veri traguardi sono questi, come per un attore è bello vincere l’Oscar, ma è molto meglio se il pubblico apprezza il suo film

Il Mondiale negli Stati Uniti è, forse, il più grande rammarico nella carriera di Baggio e dei tanti tifosi che, in lui, avevano riposto speranze di successo. Dopo una stagione da protagonista, con la Juventus che è riuscita a issarsi al secondo posto, dietro sempre al Milan, nel 1994 Baggio trascinò l’Italia, praticamente da solo, in una storica finale contro il Brasile. Ma quel pomeriggio avverso, furono i rigori a strozzare le grida di gioia.
Il Divin Codino, però, non si è mai dato per sconfitto: al Milan, tra alti e bassi, non ha espresso tutta la sua grazia. E’ rinato a Bologna, è diventato leggenda a Brescia.

In una lettera rivolta ai giovani e ai suo figli, durante una serata del festival di Sanremo nel 2013, si intuisce perché è arrivato fin là, avendo il rispetto di tifoserie e avversi rivali. E’ stato e, forse lo è tutt’ora, il più grande calciatore italiano – e uomo- di sempre:

La lettera di Roberto Baggio indirizzata ai giovani 14-02-2013 (Sanremo 2013) from dioddo on Vimeo.

Roberto Baggio avrà una storia a lui dedicata su Netflix. Non sarà un documentario ma un film vero e proprio, un biopic. Non si sanno ancora durata e data di uscita, si parla del 2020 o 2021, ma per ora basta l’annuncio: la pellicola si chiamerà “Il Divin Codino”, sarà diretto da Letizia Lamartire, regista pugliese classe ’87 che con Netflix ha già lavorato per la serie Baby e a interpretare il delicatissimo ruolo di Baggio sarà il 26enne abruzzese Andrea Arcangeli, capelli biondi, occhi chiari e uno sguardo che ricorda molto quello dell’ex campione azzurro

Il film coprirà i 22 anni di carriera di Baggio, dagli esordi nel Lanerossi Vicenza all’ultimo step della sua immensa carriera a Brescia, senza dimenticare ovviamente le esperienze in maglia azzurra. Non si parlerà però solo di campo ma si analizzerà anche l’uomo che con il suo carattere introverso e la sua semplicità è riuscito a conquistare il cuore di tutti i tifosi. Lo stesso Roberto Baggio seguirà di persona l’intera realizzazione della pellicola e la regista Lamartire ha detto:

E’ la storia di un uomo umile con un talento smisurato che con le sue giocate ha cambiato il calcio italiano. Racconteremo anche il percorso di una persona che attraverso le sofferenze personali ha raggiunto grandi trionfi in campo

La storia sarà tratta dal libro di Raffaele Nappi che parla di “un ragazzino prodigio, con 220 punti interni di sutura e un menisco perforato a 17 anni. La storia di chi davano tutti per spacciato, e si è ritrovato con un Pallone d’oro tra le mani. Questa è la storia di scontri, tafferugli, incendi in nome di un calciatore. È la storia di un’estate italiana, di piazze e di feste, di bandiere e di vespe, di monaci e di cacciatori. Questa è la storia dell’uomo che non ha nemici. Questa è la storia di una generazione. Questa è la storia di un campione. Questa è la storia di Roberto Baggio”.

Il Divin Codino è una delle sette pellicole che nasceranno dall’accordo fra Netflix e Mediaset: non resta che sedersi in poltrona e aspettare con un pizzico di pazienza l’uscita di questi prodotti italiani che andranno prima su Netflix e poi, a distanza di 12 mesi, su Canale 5.

La prima volta di un giocatore squalificato tramite prova tv, l’ultima partita di Mauro Tassotti con la maglia azzurra, lui che, al Mondiale Usa del 1994, ci arriva a 33 anni quasi per caso, alla sua ultima possibilità, chiamato perché il ragazzotto conosce i dettami di mister Sacchi e di lui ci si può fidare. Una storia strana quella del terzino del Milan con l’Italia che lui ha già in mente di abbandonare dopo l’esperienza negli Stati Uniti: in azzurro non era riuscito a trovare spazio quando, nel fior della sua carriera, macinava chilometri e marcava attaccanti nella difesa del Milan. Lo trova a fine carriera, ma, conoscendo gli esiti drammatici e beffardi di quel Mondiale perso ai rigori contro il Brasile, forse era meglio non arrivarci. Perché Italia – Spagna, match dei quarti di finale, è per tutti la gomitata di Tassotti al giovane Luis Enrique.

Un pomeriggio afoso, quello del 9 luglio 1994 al Foxboro Stadium di Boston, un catino rovente che ospita il quarto di finale tra Spagna e Italia. Chi vince incontra la Bulgaria in semifinale. E’ un match aperto a tutti e tre i risultati possibili: l’Italia di Arrigo Sacchi gioca un ottimo primo tempo e passa meritatamente in vantaggio al 25’ con la rete del centrocampista Dino Baggio; il secondo tempo è altalenante, sale la Spagna guidata da Javier Clemente che trova il pareggio, al 58’, con un fortunato tiro deviato di Caminero. Le Furie Rosse sfiorano anche il gol del sorpasso in più di un’occasione, ma prima dei supplementari, è l’altro Baggio, il fantasista Roberto, a superare Goicoechea, a tre minuti dal 90’, per siglare il definitivo 2-1.

Squadre stanche, spossate dal caldo e da una sfida sfibrante, la mente non comanda più il corpo che reagisce d’impulso, di stimoli esterni. Così in pieno recupero e in piena area di rigore, con il pallone che sta per giungere proprio in quella zolla di campo, Mauro Tassotti, tenendo a bada Luis Enrique, commette un’autentica sciocchezza assestando una decisa gomitata sul viso dell’asturiano che stramazza a terra. Attimi di attesa, tutti aspettano il fischio dell’arbitro ungherese Puhl che, invece, lascia proseguire il gioco. Il 24enne spagnolo, colmo di ira e con il naso sanguinante, si alza furioso, il colpo c’è stato e solo il replay spiega con esattezza la dinamica. Il match finirà di li a poco e così anche il Mondiale di Tassotti: il terzino del Milan verrà squalificato per otto giornate grazie alla prova televisiva. L’Italia è in semifinale, lui con la testa già a casa. In un’intervista anni e anni dopo dirà:

Purtroppo è una cosa che è diventata parte integrante della mia carriera. Ho fatto una stupidata. Una grossa stupidata di cui ero già pentito un minuto dopo…Nella carriera di un calciatore ci sono episodi fortunati ed episodi sfortunati. Non potrai mai sapere come andrà a finire un’entrata su un avversario. Di sicuro non c’era premeditazione, è stata una cosa istintiva

Ben 51 anni fa nasceva, in una cittadina del profondo Veneto a due passi da Vicenza, quello che, a detta di molti, è stato il più cristallino talento che il nostro calcio abbia saputo plasmare nel Dopoguerra, un calciatore che con la sua eleganza di tocco e di movenze sapeva far apparire semplice anche il più complesso esercizio di tecnica, che ha saputo essere decisivo con il proprio club e con la Nazionale, riuscendo a raggiungere nel 1993 il massimo riconoscimento a cui un calciatore possa ambire: il Pallone d’Oro. Nasceva Roberto Baggio.

Le sue gesta sono state capaci di un unire forte un paese, l’Italia, sicuramente più propenso a dividersi nelle opinioni e nei comportamenti, dove si reputa forte chi critica più aspramente, chi si dimostra più sprezzante ed offensivo.Si può facilmente ammettere che Baggio sia stato l’idolo senza maglia.

Con Roberto Baggio tutto questo non era possibile: lui era il calcio, non potevi non amarlo. Al più, potevi sentirti tradito come da una compagna che ti ha lasciato senza apparente motivo ma a cui sei comunque legato, come accadde ai tifosi della Fiorentina quando, nella stagione 90/91, Roby passò alla corte dell’odiata Juventus di Gigi Maifredi per 16 miliardi di lire e il cartellino di un altro dei prospetti più interessanti del calcio di quegli anni, Renato Buso. A Firenze ci furono proteste di piazza contro la Presidenza Pontello e scontri che mai si erano visti per la cessione di un giocatore ma il troppo amore può portare anche a questo, ad andare oltre le righe.

Il suo nome è inscindibilmente legato a due eventi: la vittoria del Pallone d’Oro 1993 e il Mondiale di Usa ’94.

IL PALLONE D’ORO 1993

Il 1993 è un’annata dorata per il fenomeno di Caldogno: Baggio, nonostante la miriade di infortuni già patiti nel corso della sua giovane carriera, riesce infatti ad essere decisivo per la conquista della Coppa Uefa da parte della Juventus con tanto di doppietta nella finale di andata contro il Borussia Dortmund.
Quell’anno non ce n’è per nessuno: Roby vince il Pallone d’Oro davanti a Dennis Bergkamp e Eric Cantona, il Fifa World Player e l’Onze d’Or guadagnandosi un posto indelebile nella storia del calcio.

Ma il suo mito è sicuramente annodato alle sue clamorose prestazioni al mondiale americano dove risollevò dalle proprie ceneri un’intera Nazionale portandola ad un passo dalla più clamorosa delle vittorie Mondiali.

USA ‘94

 I mondiali di calcio, in quel ‘94 sarebbero stati disputati in America. Mossa, riuscita, voluta dalla Fifa per provare ad appassionare al “soccer” un popolo abituato a sport più sedentari come il baseball o il football americano.
La Nazionale di Sacchi arrivava negli States nell’occhio del ciclone della critica e con il morale sotto i tacchi dopo l’indimenticabile sconfitta 2-1 con il Pontedera in un’amichevole di preparazione, che aveva messo sulla graticola l’Arrigo nazionale e tutti i suoi fedelissimi.

E di certo i risultati del primo girone eliminatorio non autorizzavano a pensieri sereni visto che gli Azzurri superarono il turno per il rotto della cuffia come migliore terza grazie ad una sudatissima vittoria con la Norvegia, dopo una sconfitta con l’Eire e prima di un pareggio risicato (1-1 gol di Massaro) con il Messico.
Proprio contro i colossi scandinavi si assisteva al punto più basso della campagna statunitense di Baggio. Gli azzurri iniziano contratti e la Norvegia ci crede. Al 21’ Mussi sbaglia il fuorigioco, Leonhardsen si invola verso la porta e viene steso da Pagliuca: rosso inevitabile. Sacchi, preferendo la corsa di Signori alla creatività di Baggio, lo richiama in panchina.
Fortunatamente in squadra – guarda il caso – c’è un altro Baggio, Dino, che al 69’ trova la giusta incornata e scaccia l’incubo.

Agli ottavi c’è la Nigeria, squadra giovane e dinamica, che ha destato una grande impressione mettendo in mostra alcune perle assolute, come J.J. Okocha, Finidi George e Oliseh. Gli africani partono forte e vanno in vantaggio con Amunike, restiamo in 10 per il protagonismo del pessimo arbitro Brizio Carter e non ci sono scintille di reazione.

La partita sembra finita e sepolta, la Nazionale pronta alla giubilazione, all’esonero cruento Sacchi, alla decapitazione Matarrese. Sembra già tutto deciso, ma nessuno ha fatto i conti con due fattori che hanno poco di terreno: la Regola del 12 e un marziano di nome Roberto Baggio.
Mussi vince un rimpallo e fornisce a Baggio la palla della vita: Pareggio all’ultimo respiro. E’ qui che il “Divin codino” ci fa capire la sua grandezza: riesce a far sbottonare un rigido Sandro Ciotti che, durante la radiocronaca, esclamò un «Santo Dio, era ora!» che mette ancora i brividi.
Nei supplementari, Benarrivo si invola in area e viene steso: Roby insacca dal dischetto e portiamo a casa un’insperata qualificazione ai quarti.

Da quel momento in poi è storia nota: Roby si sblocca e, con prestazioni ai limiti dell’umano con Spagna (gol vittoria) e Bulgaria (doppietta d’autore), ci porta quasi da solo a Pasadena dove purtroppo il finale, al cospetto dell’eterno nemico Brasile, è quello che tutti ricordiamo. Davanti a Taffarel la tensione anestetizza Baresi, Massaro e proprio Baggio e la Coppa del Mondo va a Brasilia.

Ma tant’è: non è certo da un calcio di rigore che si giudica un giocatore. Baggio è stato la delizia degli allenatori che hanno avuto la fortuna di poterlo annoverare tra le fila delle loro squadre grazie al suo talento cristallino e alla sua capacità di determinare nei momenti decisivi. Qui sta la grandezza del calciatore. Certo, come tutti i geni, il suo temperamento era solo apparentemente remissivo, prova ne siano gli screzi avuti con Arrigo Sacchi e, ancor più, con Marcello Lippi, ma la sua professionalità e la sua dedizione alla causa sono sempre rimaste intatte. Qui sta la grandezza dell’uomo.

Roberto Baggio è stato una perla preziosa, una stella del firmamento calcistico.
A questo punto, che si può dire di fronte a un campione di queste dimensioni nel giorno del suo cinquantesimo compleanno? Forse la semplicità è la soluzione migliore: Buon compleanno Divin Codino. E grazie di tutto.

La morte di Azeglio Vicini ci ha riportato con la mente a quelle notti magiche di Italia ’90, guardando con nostalgia ad una nazionale italiana in grado di farci sognare ed emozionare.

Ecco perché vogliamo rivolgere uno sguardo al passato per ricordare i grandi eroi di quel mondiale e conoscere la svolta che ha avuto la loro vita dopo di allora. Sono 22 ex giocatori, alcuni dei quali hanno intrapreso la carriera di allenatore, altri quella della televisione e altri ancora si sono allontanati dal calcio.

Eccoli al completo, partendo da chi la passione per il calcio non l’ha mai abbandonata e ha deciso per questo di rimanere in campo ad allenare: Zenga, Ferrara, Vierchowod, Ancelotti, Donadoni, Mancini e Pagliuca.

Walter Zenga, portiere ai Mondiali del 1990, ha intrapreso la carriera di allenatore una decina di anni dopo e ha seguito le squadre del Brera, National Bucarest, Steaua Bucarest, Stella Rossa Belgrado, Gaziantepspor, Al-Ain e Dinamo Bucarest. Nel 2008 diventa allenatore del Catania in serie A, poi dopo una breve esperienza nel Palermo e negli Emirati Arabi approda alla Sampdoria. Si sposta nuovamente all’estero con il Wolverhampton e oggi è allenatore del Crotone.

Ciro Ferrara dopo la sua brillante carriera di giocatore diventa allenatore di squadre come la Juventus e la nazionale Under-21. La sua esperienza continua con la Sampdoria e infine con una squadra della divisione cinese, Wuhan Zall. Attualmente è un allenatore senza panchina, come il collega Carlo Ancelotti, che nella sua carriera ha seguito squadre di grande spessore, come Juventus, Milan, Chelsea, Paris Saint Germain, Real Madrid e Bayern Monaco. Oggi è uno dei probabili candidati per diventare il ct della nazionale italiana.

Un altro ex giocatore che ha deciso di scegliere di fare l’allenatore, anche se al momento non ha un incarico, è Pietro Vierchowod, dopo aver militato nel Catania, nel Florentia Viola e nella Triestina. Un ex giocatore che attualmente allena ancora è Roberto Donadoni, che è il ct del Bologna. Lo ricordiamo anche per essere stato il tecnico della nazionale italiana dal 2006 al 2008. Dopo l’esperienza con l’Italia, ha seguito Napoli, Cagliari, Parma e infine Bologna, dove si trova attualmente.

Roberto Mancini, anche lui probabile candidato come ct dell’Italia, ha allenato Fiorentina, Lazio, Inter, Manchester City, Galatasaray e Zenit San Pietroburgo, dove si trova attualmente.

Gianluca Pagliuca da portiere ha scelto di allenare proprio chi ha intrapreso questa stessa strada ed oggi lo ritroviamo a guidare i portieri della primavera del Bologna FC.

Molti ex giocatori delle notti magiche, invece, hanno abbandonato il campo da gioco per commentarlo dall’esterno e sono diventati opinionisti e commentatori sportivi. Tra loro ci sono Giuseppe Bergomi, Giancarlo Marocchi, Gianluca Vialli che lavorano per Sky Sport e Aldo Serena per Sport Mediaset.

Riccardo Ferri, oltre a ricoprire il ruolo di responsabile dell’area tecnica del Vicenza, è opinionista per Mediaset. Ruoli di opinionisti in diverse trasmissioni televisive sono ricoperti anche da Nicola Berti e Stefano Tacconi, che ha avuto anche delle esperienze di reality.

Nel settore sportivo, ma con altre mansioni, sono rimasti anche Franco Baresi, che oggi è l’ambasciatore nel mondo per l’AC Milan, Luigi De Agostini, che è responsabile dell’organizzazione in Italia dei “camp” giovanili del Real Madrid, Paolo Maldini, che ha fondato il Miami FC, Giuseppe Giannini, che è direttore del settore giovanile del Latina e Andrea Carnevale, che è il responsabile osservatori dell’Udinese.

E il grande Totò Schillaci? Lavora attualmente come direttore a Palermo del centro sportivo per ragazzi “Louis Ribolla”, da lui stesso fondato.

Infine, al di fuori del mondo calcistico ritroviamo gli ex giocatori Roberto Baggio, che è ambasciatore dell’Unicef e Fernando De Napoli, che è dedito al settore dei vini.

Nonostante gli anni, ognuno di loro ricorda con piacere a quel 1990 che ha segnato un momento importante nella storia calcistica italiana e nella loro carriera, e soprattutto che li lega fortemente alla figura del loro ct Azeglio Vicini.

Sospeso tra il futuro e il passato. Tra un progetto su cui sta lavorando da un po’ e che non vuole svelare e quel rigore sbagliato nella finale del Mondiale del 1994. Tra le prime 50 candeline spente e il nome di un giocatore che segue con interesse. Ma attenzione a parlare di erede perché di Roberto Baggio ne esisterà sempre e solo uno. Il Corriere della Sera, in occasione della presentazione di una nuova linea Diadora completamente dedicata al numero 10, ha intervistato il Divin Codino, da poco 50enne.

Ha fatto il nome dell’argentino Ricardo Centurión, da appassionato di calcio sudamericano lo stima molto anche se deve mettere la testa a posto; poi un tuffo nel passato: ricorda l’evoluzione del calcio degli anni ’90 ordita da Sacchi e del rifiuto di Ancelotti di volerlo al Parma perché non idoneo al 4-4-2.

Spazia tra quello che verrà e quello che è stato, non c’è nostalgia, ma la mente ritorna sempre a quegli anni, a quel tiro dagli 11 metri calciato nel cielo di Pasadena. Una riflessione anche su Pep Guardiola, compagno ai tempi del Brescia, ma già lungimirante e l’intramontabile domanda: che numero ti daresti in campo? E la risposta è sempre quella, come disse Platini: un 9,5, a metà tra la fantasia del 10 e l’istinto da cannoniere del 9.

A proposito di campioni: chi è il difensore più difficile contro cui ha giocato?
«Paolo Maldini. Quando te lo trovavi davanti sapevi che non passavi. Era grosso. Ed era forte di testa, di destro, di sinistro… Dovevi mettere insieme 15 giocatori per fare uno come lui».
E il giocatore con cui scambiava più volentieri la maglia?
«Marco van Basten. E mi sarebbe anche piaciuto giocarci insieme». 
Ha visto l’addio al calcio di Totti?
«No, ero via».
Ma avrà saputo del suo tormento. Per lei fu diverso. Lei disse: «Finalmente». 
«Sì, per me fu una liberazione purtroppo. Purtroppo perché, senza tutti quei problemi, non avrei smesso».

Continua a leggere l’intervista completa sul Corriere della Sera

Il suo unico vero errore durante il Mondiale negli Stati Uniti nel 1994? Beh, girare un’imbarazzante spot per l’Ip, la vecchia Italiana Petroli.
Ironia, tanta ironia, al punto da dimenticarsi del rigore fallito dagli 11 metri più importanti della sua vita. E anche della nostra. Contro il Brasile, in finale a Pasadena. Vien da sorridere perché, in fondo, a quel Mondiale, Sacchi, l’Italia e noi italiani ci siamo aggrappati per il “codino”. Roberto Baggio trascinatore di una spedizione, alla fine, fallimentare.

Ma il Baggio che gira la pubblicità per l’Ip e che viene sapientemente caricaturizzato dalla parodia di Guzzanti, altro genio assieme al numero 10, ci porta nell’altra dimensione della comunicazione. La società contemporanea non rimaneva impassibile: lui spostava gli equilibri della Serie A  e spostava, al contempo, la fantasia e l’opinione. Baggio ha cambiato tante maglie, ma si può dire che l’unica casacca indossata nella sua carriera è proprio la fantasia.

Nazionalpopolare al punto giusto, il “Divin codino” è riuscito anche a distorcere la realtà, a plasmarla rendendola piacevole ed eterna come i sogni dei tanti tifosi. Quella traversa che trema ancora con il portiere carioca Taffarel che esplode di gioia, così, sempre in uno spot, questa volta della Wind, diventa un tiro che supera la dimensione della logica e si insacca in rete.

Era il 2000, ben sei anni dopo gli Usa, in mezzo un altro campionato del mondo finito ai rigori, contro la Francia, nel 1998. Al Mondiale transalpino, Baggio ci arriva dopo una stagione incredibile, la più prolifica dal punto di vista realizzativo.
Con l’idea di trovare continuità per convincere il ct Cesare Maldini, Roby accetta di trasferirsi dal Milan al Bologna (nel mezzo un accordo quasi raggiunto con il Parma, ma senza la convinzione di Carlo Ancelotti).
Si taglia il codino, si converte al buddismo, segna 22 reti in 30 partite. E’ la sua rinascita, Bologna si esalta, la Granarolo, con sede nel capoluogo emiliano, decide di andare in tv per esaltare il “campione dell’alta qualità”:

Lui l’anno dopo lascia l’Emialia-Romagna per tornare a San Siro, questa volta sponda Inter. Ma tra i rossoblu ha lasciato un profondo amore: all’ombra della Torre degli Asinelli e di portici in portici, il nome di Roberto provoca autentica nostalgia.
Chi si addormenta con la sua maglia, chi ne parla al bar, chi non vede più un senso alla domenica pomeriggio senza lui in campo. Tra loro c’è il bolognese Cesare Cremonini, ex frontman dei Lunapop che, sulle note di “Marmellata#25”, dice:

Ah, da quando Senna non corre più
Ah, da quando Baggio non gioca più
Oh no, no! Da quando mi hai lasciato pure tu
Non è più domenica

A Bologna ha incantato tutti, anche Lucio Dalla che, nel 2001 all’interno dell’album Luna Matana scrive la canzone “Baggio Baggio”:

Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare un rigore,
e il mignolo destro di quel portiere che è lì, è lì per parare
meglio, sta molto meglio il pallone, tanto, lo devi solo gonfiare.

Baggio è arte con le calze slabbrate a coprire i parastinchi. Arte che entra nell’arte come la musica oppure alzando il sipario di un teatro. “Orfeo Baggio”, infatti, è una pièce musicale, è un giallo complesso con sullo sfondo un omicidio, realizzato da Mario Morisini.
In un articolo sul Corriere della Sera, il sceneggiatore disse: «Accostare Baggio a Orfeo può parere provocatorio, in realtà si tratta di due miti con molte affinità. Entrambi sono incantatori di folle: Orfeo con la cetra, Baggio con il pallone. Entrambi devono affrontare una discesa agli Inferi alla ricerca di qualcosa di impossibile. Per me, figlio di un operaio emigrato in Francia, le origini italiane sono sempre state motivo di fierezza. Ma accanto a Leonardo e Michelangelo, a Verdi e Manzoni, non esito ad aggiungere Baggio. A suo modo anche lui un artista sommo».

Baggiomaniaci, baggiocentrici e chi più ne ha di neologismi, più ne metta. Forse è esagerato? Beh Roby è talmente mitologico che è finito anche in un episodio di “Holly&Benji”, massima espressione infantile e adolescenziale del calcio puro. Puro divertimento. Unica nota stonata, ma divertente: quando Rob Denton calcia il pallone, la voce fuori campo, estasiata, esclama un buffo: “Robbbbbertobbbaggio”. Poesia.

 

Giovanni Sgobba