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Il sogno è ripercorrere le gesta di Zinedine Zidane, la realtà è un arco temporale di 15 giorni. Santiago Solari ha a disposizione due settimane per convincere Florentino Perez e la giunta direttiva del Real Madrid a prolungare il suo periodo di permanenza sulla panchina dei Blancos. Il tecnico madridista fa il suo esordio questa sera nella gara di sedicesimi di finale di Coppa del Re a Melilla, città sotto il protettorato spagnolo che si trova in Africa del Nord, sulla costa orientale del Marocco. L’ipotesi Antonio Conte non è ancora del tutto tramontata, così come il ritorno di Josè Mourinho dalla prossima stagione.

Santiago Solari, argentino 42enne, ha iniziato la sua carriera di entrenador con il Real Madrid Castilla, la seconda squadra delle Merengues, così come aveva fatto Zidane prima della chiamata al Bernabeu nel 2016. Nativo di Rosario, lo stesso paese di Lionel Messi e Mauro Icardi, è nipote di Jorge Solari, calciatore negli anni ’60.

Solari all’Atletico Madrid

Solari abbinava una buona tecnica di base alla capacità di fare legna a centrocampo. Dopo gli inizi al River Plate approda in Europa nel 1999 all’Atletico Madrid. Una sola stagione con i Colchoneros per poi passare dall’altra parte della capitale spagnola nel Real dei Galacticos. L’imbeccata di mercato è di suo cugino, Fernando Redondo.

In quella squadra leggendaria, costruita nella prima era Perez, giocavano Figo e Zidane, Ronaldo il fenomeno e Beckham, Raul, Casillas Roberto Carlos. El Indiecito è un onesto comprimario che a centrocampo assicura tanta quantità con buona qualità assieme a Makelele, Guti, Helguera e a un giovanissimo Esteban Cambiasso. Con il Real gioca cinque stagioni vincendo, tra le altre, due campionati spagnoli, una Champions League e una coppa Intercontinentale.

Santiago Solari e Zinedine Zidane compagni di squadra nel Real

Nel 2005 il passaggio all’Inter di Roberto Mancini, in cui milita fino al 2008. Sono gli anni pre e post Calciopoli, l’argentino vince tre campionati consecutivi, tra cui quello del 2006 assegnato ai nerazzurri e revocato alla Juventus. In quella squadra però gioca poco, solo 39 presenze e 4 gol in tre anni.

Nel 2008 il ritorno in patria a San Lorenzo, poi chiude la carriera tra l’Atlante in Messico e il Peñarol in Uruguay.

Solari con la maglia dell’Inter

 

Il 30 maggio scorso Julen Lopetegui è saldamente accomodato sulla panchina della Nazionale spagnola. Mancano circa due settimane all’inizio dei Mondiali di Russia 2018 e le Furie Rosse nutrono ambizioni molto importanti per il torneo. In quegli stessi giorni il Real Madrid festeggia la terza Champions League consecutiva dopo la finale contro il Liverpool, la sua tredicesima totale. Sono, ancora per poco, i merengues di Cristiano Ronaldo in campo e Zinedine Zidane come tecnico. Cinque mesi dopo Lopetegui è stato esonerato dal Real dopo aver abbandonato la Spagna poco prima dell’inizio dei Mondiali. Cristiano Ronaldo continua a segnare con la sua nuova squadra, la Juventus. Zinedine Zidane viaggia per il mondo, godendosi per il momento il suo anno sabbatico.


Il mondo alla rovescia dell’ex portiere del Barcellona inizia il 12 giugno. La Casa Blanca dà l’annuncio: sarà Lopetegui a raccogliere il timone di Zidane al Santiago Bernabeu. La notizia scuote la federazione spagnola, a pochi giorni dall’esordio iridato contro il Portogallo. Luis Rubiales, presidente della Royal Spanish Football Federation, non nasconde la sua irritazione. Solo venti giorni prima il ct aveva rinnovato il suo contratto con la Nazionale. Il numero 1 federale decide subito il ribaltone: via Lopetegui, viene chiamato in fretta e furia Fernando Hierro. Il finale estivo della storia lo conosciamo: la Spagna va fuori ai rigori agli ottavi di finale contro la Russia. L’ormai ex commissario tecnico viene presentato in pompa magna dal Real Madrid.

La presentazione al Santiago Bernabeu

I problemi per Lopetegui iniziano sin da subito. Ad agosto i campioni d’Europa perdono la Supercoppa europea contro l’Atletico Madrid per 2-4 dopo i tempi supplementari. Il Madrid non perdeva una finale internazionale dal 2000 contro il Boca Juniors in Coppa Intercontinentale. Nella Liga le cose non vanno meglio, anzi. Dopo dieci giornate i blancos sono noni in classifica, a 14 punti con 7 lunghezze di svantaggio dal Barcellona capolista (l’anno scorso Zidane era a -8 dal primo posto nello stesso momento della stagione)

E proprio nel Clasico il Real è incappato in un pesantissimo 1-5, nelle ultime 5 gare i merengues hanno raccolto solo un punto con un digiuno di gol di otto ore. In Champions, nel girone G, il primato è condiviso con la Roma a 6 punti, ma pesa la sconfitta esterna contro il Cska Mosca per 0-1.

La pesante sconfitta per 1-5 nel Clasico è stata decisiva per l’esonero

Calo nelle motivazioni, mercato deficitario, scarsa condizione dei big. Lopetegui paga sulla sua pelle l’anno post Mondiale e la fisiologica stanchezza mentale dopo tre anni, soprattutto europei, sempre al top. Non solo, gli addii di CR7 e Zidane hanno pesantemente mutato gli equilibri tecnici e di amalgama dello spogliatoio. Così Florentino Perez ha deciso: via l’allenatore, senza neanche troppi complimenti nel comunicato di esonero.

Questa decisione, presa con la massima responsabilità, ha il fine di cambiare la dinamica della squadra quando sono ancora raggiungibili tutti gli obiettivi stagionali. La giunta direttiva ritiene che ci sia una grande sproporzione tra la qualità della rosa del Real Madrid, che vanta 8 giocatori candidati al Pallone d’Oro, una cosa senza precedenti nella storia del club, e i risultati ottenuti sinora.

Silurata per il momento l’ipotesi Antonio Conte, non troppo gradito nello spogliatoio, dal capitano Sergio Ramos al portiere Thibaut Courtois. La panchina è affidata a Santiago Solari, ex calciatore di Real e Inter e oggi allenatore del Castilla, la seconda squadra del Madrid. Regolamento alla mano, il neotecnico ha 15 giorni di tempo per convincere la giunta direttiva del club a confermarlo. Sullo sfondo ci sono Roberto Martinez, ct del Belgio e un clamoroso ritorno di Josè Mourinho il prossimo anno.


Nella seconda era Perez, dal 2009 al 2018, si sono susseguiti sette allenatori: Pellegrini, Mourinho, Ancelotti, Benitez, Zidane, Lopetegui, Solari. Nella prima epoca presidenziale, 2000-2006, c’erano stati sei tecnici in sei anni: Del Bosque, Queiroz, Camacho, Remon, Luxemburgo, Lopez Caro.

Nel frattempo a Julen Lopetegui farebbe bene una vacanza, per riflettere sulle sue scelte poco felici negli ultimi 5 mesi. La speranza è che non reagisca come nel 2006, quando era opinionista televisivo per i Mondiali di Germania.

 

Prima di colpire il pallone ho dovuto attendere che scendesse un po’. Se non avessi aspettato non avrei segnato. In quella frazione di secondo, la gravità ha fatto il suo dovere, e io il mio. Grazie, Newton

Il commento di Andrés Iniesta al gol decisivo della finale Mondiale 2010 in Sudafrica è la sintesi estrema della sua intelligenza non solo calcistica. Lì si concentrano infatti la sua consapevolezza molecolare della “fisica” del calcio; la sua matrice di giocatore artista-scienziato, tra impulso creativo e controllo razionale; la sua ineguagliabile cognizione del timing di una giocata, sempre tesa a integrarsi nella rete di rapporti della squadra.

Capitano del Barcellona e membro della Nazionale spagnola, con 37 titoli conquistati (32 con il Barcellona e 5 con la nazionale, incluse le selezioni giovanili), Iniesta è il calciatore spagnolo più titolato di sempre. È lontana Barcellona da Fuentealbilla, paesino di duemila abitanti, in cui il piccolo Andrés gioca a futsal ma sogna il calcio a 11.
I genitori, papà muratore, mamma casalinga, accettano di iscriverlo a 8 anni alla scuola calcio del e quattro anni dopo arriva alla Masia, la cantera del Barcellona, con l’idea di imitare il suo idolo, Michael Laudrup.

È piccolo, timido e pallido perché una rara malattia della pelle gli impedisce di scurire la carnagione. Piange ogni notte per le prime due settimane, ma resiste. Rimane in ritiro da solo quando gli altri bambini, praticamente tutti catalani, tornano a casa per il weekend. Amici come Xavi, che ha quattro anni più di lui, cui Guardiola un giorno dice:

Tu prenderai presto il mio posto, ma questo ci manda a casa tutti e due”

Con la Nazionale, debutta nella formazione maggiore il 5 maggio 2006 nella sua città, Albacete, in occasione dell’amichevole con la Russia. Va al Mondiale in Germania, ma gioca solo una partita. Diventa presto il faro delle Furie Rosse, con cui vince l’Europeo 2008 da titolare e il Mondiale 2010 decidendo nei supplementari la finale con l’Olanda. Nel 2012 completa lo storico triplete, vincendo pure l’Europeo 2012 e venendo eletto dalla Uefa “miglior giocatore del torneo”.

Di giocatori come lui ce ne sono pochi. La classe che solo i grandi hanno, unita alla testa pensante da uomo vero. Alzi la mano chi ha mai visto un gesto fuori posto, uno scandalo di qualsiasi tipo legato a Iniesta. Lui che dopo il gol decisivo nella finale dei Mondiali del 2010 con la sua Spagna ha sfoggiato una maglia per ricordare Dani Jarque, scomparso l’anno prima. Piccolo particolare: Jarque era il leader dell’Espanyol, l’altra squadra di Barcellona.

Nella sua carriera ha vinto tanto, tantissimo. Col Barça e con la Nazionale. Gli sono stati attribuiti tanti soprannomi: illusionista, cervello, cavaliere pallido, anti-galáctico, per le sue caratteristiche fisiche e tecniche. Ma in pochi sanno che dopo il Mondiale ha lottato e vinto contro la depressione. Che con la sua azienda che produce vino ha salvato dal fallimento l’Albacete, squadra dove ha mosso i primi passi.

È il momento, non posso più dare tutto

Il 27 aprile 2018 ha annunciato l’addio al Barcellona a fine stagione, ma non al calcio. Pochi giorni dopo, il 6 maggio, il suo ultimo Clásico, Barcellona-Real Madrid: niente pasillo tradizionale per Iniesta, niente ingresso d’onore in campo, in quello che sarà un match durissimo, divertente, con gol e spettacolo. Tutti gli occhi sono su di lui, su Iniesta, su Don Andrés.
Esce dal campo al minuto 58, Iniesta, ed è teso, concentrato. Cammina per il campo a piedi scalzi, tutto il pubblico del Camp Nou si alza in piedi.

Spesso mi definiscono un eroe, ma non hanno capito niente. Eroe è chi emigra coi figli in un altro Paese per cercare fortuna o chi cura le persone salvando la loro vita. Io sono solo un maledetto calciatore

 

Fonte: Alessandro Mastroluca, Luca Capriotti, Sandro Modeo, Matteo Basile

Notte di sogni, di coppe e di campioni. Notti prima dei Mondiali. E anche se la più prestigiosa manifestazione europea per club ora si chiama Champions League, quelle serate, quelle emozioni, quelle palpitazioni restano le medesime, anche a oltre trent’anni di distanza dalla celebre canzone di Antonello Venditti. Artista scelto non a caso in queste notti che prima hanno trasformato un sogno in un incubo, con la mancata qualificazione dell’Italia a Russia 2018 e poi hanno posto le basi per la rinascita del calcio italiano. Quantomeno a livello continentale per squadre nazionali.

Nessuno, o forse qualche isolato visionario, avrebbe scommesso un centesimo alle 20.45 di martedì 10 aprile sulla doppia remuntada italiana contro le due superpotenze spagnole, in virtù di due passivi pesanti come macigni maturati all’andata. E invece “Romantada” c’è stata, ed è mancato un soffio che fosse doppia, a dimostrazione della bellezza di uno sport che mai come in questi giorni è metafora di vita. Perché bisogna provarci, perché vale la pena lottare anche quando tutto sembra essere già scritto, perché non ci sarebbe stata Italia Germania 4-3 senza il gol all’ultimo minuto di Karl Heinz Schnellinger.

La lezione arriva direttamente dal prof. Eusebio Di Francesco che, dopo non aver demeritato al Camp Nou nonostante un risultato troppo severo e bugiardo (1-4), incarta Valverde e l’arroganza catalana con una rimonta epica che riscrive i libri di storia.
Il ribaltone arriva, ironia della sorte, con l’asse che proprio a Barcellona aveva inciso negativamente sullo score finale: Manolas De Rossi, a cui si aggiunge Edin Dzeko in versione numero 9 moderno. Corre, lotta, segna. La straordinaria Champions della Roma, dopo Atletico Madrid, Chelsea e Shakthar Donetsk, si arricchisce della puntata più incredibile e imprevedibile.

L’Olimpico impazzito, i tweet delle squadre avversarie, James Pallotta che si tuffa nella fontana di piazza del Popolo: sembra un mondo capovolto, ma ci pensa Eusebio da Pescara a riportare la ragione lì dove non pare esserci. «Non accontentiamoci, dobbiamo avere l’ambizione di arrivare a Kiev», con scarpe piene di sassolini da svuotare di fronte a chi in questi mesi l’aveva più volte liquidato come piccolo allenatore (vero D’Alema?). Anche la leggendaria Roma Dundee 3-0 del 1984 impallidisce di fronte a Roma Barcellona anno 2018.

Manuali di storia in frantumi anche al Santiago Bernabeu. Nella storia delle Coppe solo una volta su 221 una squadra era stata capace di ribaltare uno 0-3 casalingo nella gara d’andata. E in 1959 partite giocate a Madrid dal Real solo 24 volte, l’1,2%, si è concretizzato un risultato che sarebbe stato favorevole ai bianconeri per accedere in semifinale.
Eppure non è bastato perché la Juve di Allegri ha studiato a memoria gli appunti giallorossi della sera precedente, raggiungendo l’impossibile a 30 secondi dalla fine. E’ 0-3 nella Casa Blanca, merengues in bambola ripiombati nello stesso incubo dei nemici catalani. Douglas Costa irride Marcelo nel duello carioca sulla fascia, Carvajal e Vallejo sovrastati da Mandzukic, Matuidi Pjanic e Khedira giganteggiano sulla mediana dinanzi al centrocampo più forte al mondo. L’Everest da scalare che dopo 61 minuti è diventato poco più di un cavalcavia.

 

Poi l’Eupalla di breriana memoria ha rimesso le cose in ordine, immortalando nel contatto Lucas Vazquez – Benatia le storie europee di Real Madrid e Juventus. Accomunate dallo stesso blasone nei propri confini, hanno preso strade diverse in terre straniere: i primi centrando sempre o quasi la gloria, per merito, superiorità e congiunzioni astrali mai avverse. I secondi fermandosi sempre a un passo dal trionfo, sbattendo contro i vari Magath, Riedle, Mijatovic, Schevchenko, Suarez, Cristiano Ronaldo o Michael Oliver, l’arbitro inglese che al 93’ frantuma l’impresa bianconera concedendo un rigore generoso che si presta a molteplici interpretazioni. Epilogo fotocopia ai quarti di finale dello scorso anno, sempre al Bernabeu, sempre con un direttore di gara casalingo, vittima questa volta il Bayern Monaco. Ma la rabbia, comprensibile, della Signora non deve offuscare l’orgoglio tutto italiano per aver capovolto le previsioni della vigilia, al pari della Roma 24 ore prima, sancendo la fine del dominio spagnolo per club. Quaranta giorni vissuti sul filo delle emozioni in cui il calcio di casa nostra si è riscoperto più umano e finalmente all’altezza di quello europeo, anche sugli spalti: le lacrime senza bandiera per Astori, gli applausi dello Stadium alla rovesciata di Ronaldo, i complimenti trasversali per il capolavoro giallorosso. Il cruccio più grande resta una notte di metà novembre, di un sogno trasformato in un incubo, di un Mondiale svanito. Libri di storia da riscrivere anche in questo caso.