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Chi è cresciuto a pane e PlayStation può capire il senso di devozione nei confronti di un mito pixelato. Quando l’unica preoccupazione del pomeriggio era andare a giocare a calcio al parco o rintanarsi in camera e divorare i joypad con gli amici tra esilaranti sfide al vecchio Iss Pro (il precedente nome dell’attuale Pes). Lui, Roberto Larcos era dogma.
Nell’era dei nomi taroccati per mancanza di licenze, quello che era a tutti gli effetti l’alter ego di Roberto Carlos, aveva e avrà per sempre un posto speciale nell’olimpio videoludico. Un re Mida che trasformava in oro ogni pallone che toccava. Anzi, dal suo sinistro esplodevano autentiche mine in grado di mandare all’aria patti d’amicizia decennali.

La sua rincorsa ritmica, a piccoli passi per poi accelerare, incantava chi era dinanzi allo schermo, non fosse per altro che al tempo la Konami, la casa che produceva e produceva Pes, lasciava pochi spazi alla personalizzazione di mosse e dell’aspetto dei calciatori. La punizione di R. Larcos era un unicum al pari dei due triangoli verdi che aveva in testa Taribo West, istrionico difensore della Nigeria con le treccine colorate.

Avere il terzino brasiliano in squadra, insomma, era sinonimo di potere. Che poi, in realtà, forse nemmeno i puristi del genere hanno effettivamente schierato R. Larcos nel suo naturale ruolo di terzino.
Sì perché nella trasposizione irreale del gioco, nella mitologica possibilità di alterare le formazioni, sfido a trovare qualcuno che non abbia mai schierato il numero sei brasiliano in attacco. Potenza di tiro massima, velocità elevata, era una spina ai fianchi delle difese avversarie.
Era la mossa della disperazione quando si stava perdendo o quando si voleva strafare. Insomma un po’ Mr. Wolf nel film “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino: risolve problemi.

Per qualcuno il calcio è rimasto come passione, per altri è diventato un mestiere. Come per Mario Rui, il terzino portoghese che tanto bene ha fatto a Empoli e ora gioca nel Napoli. Chiamatela coincidenza, ma anche Mario Rui è stato un devoto del nostro mito Larcos:

Ricordo che alla Play tutti i nomi erano sbagliati. La coppia d’attacco era Ronaride -Roberto Larcos, ovviamente Ronaldo e Roberto Carlos. Come tutti mettevo Roberto Carlos in attacco perché era piccolo, velocissimo e aveva un tiro impressionante. Da lì ha cominciato a piacermi e non so se sia stato il destino, ma ho cominciato anche io a giocare da terzino…

 

Insomma, tra Chalivert, Batutista e tutti i leggendari calciatori della Master League (Castolo su tutti), Roberto Larcos sale sul gradino più alto del podio. E qualcuno, preso da una botta di nostalgia, ha deciso di ricreare l‘incredibile punizione da centrocampo tutta carica d’effetto, a 115 km/h, che il giocatore passato dall’Inter e divenuto leggenda nel Real Madrid, segnò con la Seleçao contro la Francia nel 1997. Oltre ai pali spigolosi, trovate altre differenze?

Dieci vittorie consecutive. Nessuno, in questa fase centrale della stagione 2019-2020 di Serie A sta facendo meglio della Lazio. E contro la Sampdoria,  match in programma sabato 18 gennaio alle 15 allo stadio Olimpico, la striscia positiva può solo allungarsi.  Contro i blucerchiati, poi, sono sfide sempre da “over”:  il 7 maggio 2017, si registrò addirittura un record perché Lazio-Sampdoria 7-3 è stata la partita con più gol del decennio passato. In quell’occasione andarono a segno Ciro Immobile (2), Keita, de Vrij, Hoedt, Lulic e Felipe Anderson.

Ma non fu un caso isolato. Nel 1995-96, Lazio-Samp finì 6-3  con doppietta di Signori, nel 1998-99, 5-2 e quella fu la notte magica di Sinisa Mihajlovic, autore di una tripletta. Più in generale, la Lazio segna almeno un gol alla Sampdoria all’Olimpico dal 1989, quando si registrò l’ultimo 0-0 del confronto. Dal 2000 ad oggi sono 10 le vittorie della Lazio all’Olimpico, a fronte di appena 4 pareggi e una sola sconfitta (Lazio-Samp 1-2, 23 gennaio 2005).

Se andate su Youtube alla ricerca dei 10 calci di punizioni più famosi della storia probabilmente trovate il siluro di Roberto Carlos contro la Francia o la pennellata di David Beckham con la maglia dell’Inghilterra che diede la qualificazione ai Mondiali del 2002 a tempo scaduto contro la Grecia.

Tra le tante punizioni, però, una è drammaticamente celebre, passata alla storia come la “punizione calciata al contrario”. E’ la Coppa del Mondo 1974, quella disputata nella Germania Ovest e che già aveva regalato un momento da incorniciare e racchiudere nelle narrazioni future: quel derby tedesco Ovest-Est vinto dagli orientali con la rete di Jürgen Sparwasser. Ma qui siamo nel girone 2, ultima partita, Brasile contro Zaire.

Il Paese africano, oggi conosciuto come Repubblica Democratica del Congo, era alla sua prima apparizione assoluta nella manifestazione iridata. Arrivò in Germania con un po’ di curiosità degli addetti dopo la vittoria della Coppa d’Africa dello stesso anno e un look sfrontato con magliette giallo-verdi e un leopardo ruggente disegnato all’interno di un cerchio.
L’esordio contro la Scozia non fu dei migliori: lo Zaire perse 2-0, ma si vide un buon spirito e voglia. Tutto spazzato via nella seconda partita del torneo: la Jugoslavia rifilò ben 9 reti. E successe di tutto: l’allenatore Vidinic, sul 3-0, sostituì il portiere Kazadi con il secondo Tubilandu che fu costretto a raccogliere la palla ben sei volte dal fondo della rete. E poi avvenne un episodio curioso, genesi senza il quale non avremmo la punizione al contrario.

L’attaccante Mulamba Ndaye venne espulso perché rifilò un calcetto all’arbitro colombiano Delgado. In realtà era stato Joseph Ilungua Mwepu a compiere quel gesto, ma il direttore di gara confuse i due e non cambiò idea nemmeno dopo l’ammissione di colpa dello stesso difensore.

Mwepu era dunque in campo nell’ultima sfida, quella contro il Brasile. Già eliminato, lo Zaire precipitò in un incubo: dalla gioia euforica del Mondiale alla condanna a morte. Letteralmente. E qui entra in scena l’antieroe di turno: in quegli anni lo in Zaire era sotto la dittatura di Mobutu Sese Seko, il maresciallo-presidente, al potere da oltre 30 anni. Mobutu, come buon tiranno che si rispetti, vedeva nel calcio uno strumento di propaganda tanto che pagò personalmente tutti i giocatori zairesi che giocavano all’etero e soprattutto in Belgio per rientrare nel proprio paese d’origine. Il 9-0 subito contro la Jugoslavia fu troppo umiliante e prima della gara con il Brasile era arrivata la minaccia alla squadra: se avessero perso più di 3-0, nessuno sarebbe tornato a casa vivo.

Allo stadio di Gelsenkirchen mancavano pochi minuti al termine del match tra Brasile e Zaire. I verdeoro erano in vantaggio proprio di tre reti sugli africani e beneficiarono di un calcio di punizione da posizione insidiosa. Rivelino, che poco prima aveva trafitto il portiere zairese, confabulava con gli altri compagni. Dall’altra prospettiva, i giocatori dello Zaire, così in fila a formare la barriera tanto da sembrare davanti a un plotone di esecuzione, sentivano la tensione e vivevano con terrore la possibile metamorfosi del tiro in condanna a morte.

A un tratto dalla barriera si staccò uno, uno che non voleva subire passivamente e voleva provare a essere per l’ultima volta artefice del suo destino. Ilunga Mwepu corse ad ampie falcate e scaraventò il pallone lontano con tutte le sue ultime forze. Rivelino per poco non venne colpito. Tutti, intorno, rimasero increduli, lui venne ammonito e per mesi e anni, stampa e appassionati di calcio sbeffeggiarono il terzino sinistro reo, secondo loro di non conoscere le regole del calcio.

Ma eravamo noi occidentali a non conoscere la sua storia nascosta che rivelò dopo anni di silenzi, solo nel 2002. Voleva riscrivere la sua vita con un gesto istintivo ed eclatante. La punizione al contrario con cui salvò la sua pelle e quella dei compagni.
Il Guardian ha pubblicato una serie di clip girati in stop-motion, in cui vengono ricreati con i Lego alcuni tra gli episodi più iconici dei Mondiali di calcio e tra un Maradona e un Zidane che rifila la testa a Materazzi, per l’edizione del 1974 c’è proprio l’atto di Mwepu.

Joseph Ilunga Mwepu è morto a Kinshasa, l’8 maggio 2015 dopo una lunga malattia.

 

Fonte: Ultimo Uomo