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E’ la maledizione dalle grandi orecchie. E’ la Coppa che perseguita i peggiori incubi della squadra più blasonata d’Italia. E al dramma sportivo delle 7 finali perse si è anche accompagnata la tragedia vera e propria. Lambita lo scorso anno nella ressa di piazza San Carlo a Torino, con una vittima e oltre un migliaio di feriti. Deflagrata, con un copione terribilmente simile, il 29 maggio 1985.

Stadio Heysel, oggi Re Baldovino, Bruxelles. E’ la terza finale per i bianconeri di quella che oggi chiamiamo Champions League. E’ andata male la prima nel 1973, contro l’Ajax all’ultimo svincolo del suo calcio totale. Sogno svanito anche dieci anni dopo, con la beffa del gol di Magath per l’Amburgo ad Atene.

Questa volta sembra essere l’occasione giusta. Deve esserlo. E’ la Juve di Trapattoni con Platini e Boniek, Rossi e Tardelli, Scirea e Cabrini. Avversario è il Liverpool campione uscente, di Rush e Dalglish, di quel Grobbelaar che dodici mesi prima ha ipnotizzato i rigoristi della Roma nella finale dello stadio Olimpico.

La Juventus vincerà quella Coppa con un rigore inesistente concesso dall’arbitro svizzero André Daina e trasformato da Michel Platini. Ma sarà una vittoria arrivata al termine di una serata drammatica, violenta, incredibilmente insanguinata con 39 morti e centinaia di feriti. La furia omicida degli hooligans inglesi trovò la complicità dell’inadeguatezza di un impianto fatiscente, di un’organizzazione incapace e di una federazione internazionale, l’Uefa nello specifico, assolutamente irresponsabile. Disse Michel Platini ricordando quella tragica finale: Quando cade l’acrobata, entrano i clown. La voce di Bruno Pizzul raccontò a milioni di telespettatori italiani la tragedia in diretta televisiva.

Pubblichiamo un estratto del libro Heysel, le verità nascoste” (2010, Bradipo Libri) del giornalista Francesco Caremani con prefazione di Walter Veltroni.

Scrive Roberto Beccantini nell’introduzione:

(…) Al di là dei risarcimenti, e del poco o molto che è stato fatto, non bisogna mai arrendersi all’inerzia. L’Heysel è un peso che ci portiamo dentro. Non riusciremo mai ad appoggiarlo da qualche parte. Non sarebbe neppure giusto. Trentanove morti per una partita di calcio. Forse (anche) per biglietti smerciati alla carlona, sicuramente per ubriachezza molesta e carenza di ordine pubblico. La campana del destino prima o poi suona per tutti, ma quando i rintocchi assordano uno stadio, non resta che ribellarsi (…)

Le parole di Walter Veltroni:

(…) Avvenne, a Bruxelles, ciò che in molti avrebbero potuto facilmente prevedere ed evitare, e non vollero o non seppero farlo. Quel giorno lo stadio del gioco diventò lo stadio della morte, una morte trasmessa in diretta e in mondovisione. Una morte che si mescolò col gioco del pallone (e per questo fu più crudele e più odiosa) che portò via il soffio della vita a chi avrebbe voluto semplicemente applaudire, vincere o perdere con la propria squadra, coi propri beniamini. E invece persero tutti, nonostante la coppa alzata, il giro del campo, nonostante i sorrisi, i ‘non sapevamo’, nonostante il gol. Nonostante la vittoria, persero tutti, in quella sera luttuosa all’Heysel, quando il battito del cuore improvvisamente cessò per trentanove persone. Erano italiani in gran parte, ma il necrologio riporta anche quattro nomi belgi, due francesi e uno irlandese. Il più giovane aveva undici anni e si chiamava Andrea. Seicento furono i feriti (…)

 

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 Otello Lorentini è padre di Roberto, medico di Arezzo, tra le vittime di quella serata. E’ stato tra i primi a battersi in prima linea per ottenere giustizia inchiodando l’Uefa alle sue responsabilità. Ha fondato ed è stato presidente dell’”Associazione fra le famiglie delle vittime di Bruxelles” Scomparso nel 2014, Francesco Caremani riporta la sua testimonianza di quei momenti:

(…) Otello Lorentini racconta a caldo quello che è successo, quello che ricorda, con molta lucidità: “È stata una tragedia voluta, provocata dall’incapacità degli organizzatori belgi, della polizia, dei responsabili della federazione internazionale. Denuncio queste lacune imperdonabili. È inconcepibile spezzare in questo modo la vita di un uomo di trent’anni. Qualcuno deve pagare. Io ho già pagato: ho perso un figlio… Prima che cominciassero le cariche degli inglesi ero abbastanza tranquillo. A un certo punto ho visto che nella zona della curva erano rimasti solo dieci poliziotti. Entrava troppa gente. Gli inglesi hanno iniziato ad agitarsi. Sempre di più. Un sasso l’ho fermato con il giornale. Andiamo via, ho detto a mio figlio e ai nipoti. Gli inglesi hanno smontato la rete di divisione e ci hanno tirato addosso di tutto: pezzi di ferro, lattine, proiettili di cemento. E hanno caricato per la prima volta. Il nostro gruppo ha cominciato ad arretrare in maniera paurosa. C’erano donne e bambini, nessuno se la sentiva di accettare gli scontri. La polizia non interveniva. Noi eravamo a metà della curva. Vedevo il muro sempre più vicino. Mi sono attaccato alla colonna di una traversina. Roberto era attaccato a me. Andiamo via, gli ho urlato. Sì, sì mi ha risposto. Poi è arrivata un’altra ondata di tifosi caricati dagli inglesi. Mi sono girato e ho visto che Roberto non c’era più. Era sparito, ingoiato dalla folla. L’ondata di gente mi è passata accanto. È seguito un attimo di calma: mi sono buttato verso il campo. Era impossibile mettersi tutti in salvo: le sole due uscite erano le due porticine di un metro scarso, una delle quali si apriva solo verso l’esterno. Sotto la spinta della folla in fuga sono crollate anche le architravi di cemento. Ho visto un varco libero e mi sono lanciato in avanti. Una volta in campo ho preso ad agitare una sciarpa e a chiamare. È stato lì che ho visto mio nipote Andrea con le mani nei capelli. Mi sono avvicinato: Roberto era rimasto sulle gradinate. Morto, schiacciato. Aveva un graffio sulla fronte. Cosa dovevo fare? Accanto a noi c’era un mucchio di corpi senza vita. È arrivato un poliziotto belga e ha cercato di strapparmi Roberto. Stavano portando via i morti. Mi sono ribellato, perché vedevo che li trascinavano senza rispetto. Sono arrivati altri due poliziotti. Questo è mio figlio, ho gridato, lasciatemelo. Poi, con i miei nipoti, abbiamo sollevato Roberto e lo abbiamo portato, noi, ai furgoni… Prima di lasciare lo stadio ho visto gli inglesi che si divertivano a lanciare in aria le cose dei morti: scarpe, borse, macchine fotografiche. Scene disgustose. Poi siamo usciti, ma era impossibile trovare un telefono, o un taxi. Ne abbiamo fermato uno quasi a forza e ci siamo fatti portare all’obitorio. Qui i belgi ci hanno costretti ad aspettare più di tre ore. Ci trattavano con arroganza: un comportamento scandaloso. Solo alle tre di notte ho rivisto il corpo di mio figlio e ho notato che non aveva più la catenina d’oro al collo e la fede. I belgi ci hanno detto che gliele avevano tolte per identificarlo. Ma non era vero: se le sono prese i poliziotti. Scriva che voglio denunciare le lacune di tutta l’organizzazione, la scelta di uno stadio inadeguato, il comportamento dei belgi. Solo l’ambasciatore italiano si è comportato molto bene con noi. Qualcuno deve pagare per la morte di mio figlio”. Basterebbero queste parole, basterebbe questa ricostruzione, ma purtroppo le meschinità in questa vicenda, gli sciacallaggi, i silenzi, i tentativi di eludere le responsabilità, di buttare tutto nel dimenticatoio il prima possibile e le promesse non mantenute hanno costellato ogni giorno dopo quel 29 maggio dell’85.

 

 

La sconfitta con la Spal è un passo falso indolore per la questione scudetto. La Juve ha ancora sei gare per fare quel punto che le darebbe la certezza matematica del titolo, posto che il Napoli dovrebbe vincerle tutte. Eppure la gara del “Paolo Mazza” resterà, a suo modo nella storia. Non solo per la vittoria dei padroni di casa, che mancava da 57 anni contro i bianconeri. Ma anche perché nella Juve infarcita di seconde e terze linee ha fatto l’esordio una nuova nazionalità nella storia del club. Grigoris Kastanos, centrocampista classe 1998, è il primo cipriota a scendere in campo con la Juventus.

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🇮🇹 Oggi è stato un giorno speciale, un giorno diverso, un giorno per cui ho lavorato da sempre. Da quando a casa giocavo, da quando ho iniziato nella mia terra, a Cipro, da quando anni fa sono arrivato in questo club che mi ha aiutato a crescere e ha creduto in me. Oggi ho indossato la maglia di uno dei club più importanti al mondo e mi sento grato e felice di questo anche se la prestazione non e stata al massimo.. Ma proprio perché so che gli obiettivi si raggiungono solo con il lavoro, da domani riprenderò ad allenarmi e lavorare con la massima concentrazione e determinazione perché questo sia solo una partenza. 🇨🇾 Σήμερα ένα παιδικό μου όνειρο έγινε πραγματικότητα, να αγωνιστώ με τα χρώματα του ιστορικότερου και μεγαλύτερου συλλόγου της Ιταλίας. Νιώθω ευγνώμων και χαρούμενος παρά την μέτρια εμφάνιση μου. Συνεχίζω με τον ίδιο ζήλο και αποφασιστικότητα για να φτάσω όσο πιο ψηλά μπορώ #finoallafine#39

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Sivori, Altafini e Platini

Acquistato dalla Juve nel 2014, fa le giovanili con Madama (vincendo, con gol in finale, il Torneo di Viareggio nel 2016) prima di due esperienze, senza grandi fortune, al Pescara e in Belgio allo Zulte Waregem. Da quest’anno è il pilastro in mezzo al campo della seconda squadra bianconera che milita in serie C. Considerando anche le gare non ufficiali, la nazione straniera più rappresentata nella storia juventina è l’Argentina. Basti pensare che, uno dei simboli nella storia della Signora, è stato Enrique Omar Sivori, el Cabezon. Seguono Brasile (da Altafini ad Alex Sandro), Francia (Platini e Zidane) e stranamente (vuoi per la vicinanza alpina), la Svizzera (Lichtsteiner su tutti).

L’uzbeko Zeytulaev, una meteora in maglia bianconera

La Juve dei tedeschi e di San Marino

Ci sono anche Germania (Moeller e Kohler), Inghilterra (Platt) e Spagna (Morata e Del Sol). Ma, con l’esordio del cipriota Kastanos, vengono a galla anche improbabili nazionalità con almeno un gettone ufficiale in bianconero. Come l’Uzbekistan di Zeytulaev tra il 2001 e il 2004. O l’Ucraina di Boudianski negli stessi anni. Nella speciale classifica c’è anche il Gabon grazie a Lemina. Mentre uno dei simboli della Juve del Trap era il sammarinese Massimo Bonini. Una presenza anche per la Somalia con il centrocampista Daud nel 2009. Restano a secco, invece, tralasciando le amichevoli, alcuni Paesi con grandi tradizioni calcistiche come Belgio, Grecia e Russia (l’Urss ha timbrato il cartellino con Alejnikov e Zavarov). A secco anche le grandi potenze dello sport, ma non del calcio, come Usa, Giappone e Cina.

Boudianski ai tempi bianconeri…dell’Ascoli

 

 

 

Possiamo srotolare tutti gli appellativi prendendo prestiti dalla cultura di massa, dalla letteratura, mitologia o dalla musica: la sfida di Champions League tra Napoli e Real Madrid, in 180 minuti da giocare al Bernabeu e al San Paolo, può avere numerose etichette.
La classica, quella più inflazionata, ci porta alla battaglia tra il gigante Golia e Davide, reminiscenze bibliche che trovano eco nel primo libro di Samuele. Il guerriero filisteo che, a prima vista sembrava invincibile, sconfitto dall’arguzia di Davide e dalle cinque pietre scagliate con la sua frombola.
Dalle citazioni coraniche fino alle opere di Caravaggio, del Bernini o di Tanzio, il dualismo intelletto-forza bruta si è propagato nel linguaggio più comune dei nostri giorni.

Tra i tanti ricami saltati fuori attorno a quest’entusiasmante sfida, oltre al ricordo dell’unico doppio precedente (nel 1987, 2-0 per i merengues all’andata in un Bernabeu a porte chiuse; 1-1 al ritorno in casa dei partenopei), Napoli contro la squadra bianca di Madrid è un match di campioni. Tanti sono i calciatori vincenti che hanno sfilato tra la penisola flegrea e quella sorrentina, tra Puerta del Sol e il Palacio Real. Tra loro ci sono anche discreti campioni del Mondo.

In occasione del Mondiale del 2014 giocato in Brasile, il tabloid inglese Daily Mail pubblicò un articolo sui team e, di riflesso, sui campionati maggiori nazionali che hanno avuto il maggior numero di calciatori vincitori di un Mondiale mentre erano tesserati tra le loro file. Nel complesso, la Serie A ha avuto ben 90 calciatori laureatisi campioni del Mondo (con la Juve in testa con 22, seguita dall’Inter con 18).
Anche la Triestina o la Lucchese o il Lecce possono vantare un menzione speciale, ma tra i pezzi da novanta, a Napoli, ricorderanno con piacere uno in particolare, tanto da dedicargli un altarino in via San Biagio dei Librai: nato a Lanús il 30 ottobre 1960 e con l’azzurro, il bianco e il sole cuciti sulla pelle, che sia dell’Argentina o del golfo, “El Pibe de oro”, Diego Armando Maradona.

Ecco che l’accezione Davide contro Golia acquista una sfumatura in più che ne aumenta la tensione, l’ansia e la scaramanzia. Ma che innalza anche la qualità. Se Maradona è l’unico “napoletano” campione del Mondo, il Real Madrid, infatti, può sfoggiare quasi una formazione intera: ben 10 hanno sollevato in trionfo la gloriosa coppa d’oro di Silvio Gazzaniga.
L’infornata più grande, va detto, è merito della Spagna totalizzante dell’ultima era, con due Europei e il Mondiale vinto nel 2010 nella finale contro l’Olanda decisa da Iniesta.

Ben cinque facevano parte di quella spedizione: il portiere Iker Casillas, i difensori Sergio Ramos, Álvaro Arbeloa e Raúl Albiol (ex di questo incontro assieme a José Callejon) e il centrocampista Xabi Alonso.
A completare la formazione ideale ci sono ancora: il terzino brasiliano Roberto Carlos (Corea del Sud-Giappone 2002) che chiude la difesa a 4, così come 4 sono i centrocampisti con il francese Christian Karembeu (Francia 1998) e il duo tedesco Günter Netzer (Germania Ovest 1974) e Sami Khedira (Brasile 2014). Mancherebbe una punta per completare il modulo, ma al Madrid può bastare un solo attaccante: l’argentino Jorge Valdano (Messico 1986).

Nella storia gloriosa a ritmi alterni del Napoli, Maradona è lui l’unico trofeo che i partenopei possono vantare di più di ogni altra cosa. Perché nel Mondiale del 1986, il numero 10 argentino dimostrò che si possono avere tanti campioni in squadra, ma lui era diverso. Speciale, irriverente, imprendibile, leader. Quello che non erano gli altri.
Quello del 1986 fu un Mondiale perfetto nella sua complessità, nelle sue polemiche, nelle sue tensioni politiche. Forse, anche per questo, irripetibile.
Ma senza ombra di dubbio fu un’edizione piena di stelle: dalla Francia di Platini, all’Inghilterra di Linecker, passando per il Brasile di Socrates e la Germania di Rummenigge. E di una rete fantasmagorica: il gol degli “11 tocchi” di Maradona contro l’Inghilterra, seguita dal telecronista sudamericano che non riesce a stargli dietro e si limita a esclamare “ta-ta-ta”.
Qualche istante prima, invece, la marcatura, altrettanto memorabile, passata alla storia come la “mano de Dios”. La più grande scorrettezza e la più bella magia, insieme nella stesa partita. Solo a Diego è concesso fare questo. Tra la guerra delle Malvine, la crisi diplomatica tra due paesi che, per il controllo delle Folkland, hanno impugnato le armi; tra Inghilterra e Argentina c’era solo lui.

Per tutti gli argentini e per gli sportivi, quello sarà per sempre il Mondiale di Maradona. Lui è riuscito a segnare un passaggio importante nel calcio: si può essere trascinatori di un’intera squadra. Anche da soli.
Come ha detto Giovanni Galli, portiere dell’Italia quell’anno:

Se Maradona avesse vestito la maglia della Corea, quell’anno la Corea avrebbe vinto il Mondiale