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paolo rossi

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E’ il novantesimo, perdiamo 3-2. Punizione per noi, decido di andare nell’ area italiana. Arriva il cross e vedo che il pallone viene verso di me. Lo colpisco proprio bene, al centro della fronte, con forza, verso la porta di Zoff. Per noi è gol, la torcida salta in piedi, è fatta. Ma vedo gli italiani urlare e protestare, poi da terra riemerge Zoff col pallone in mano che strilla “No! No!” , l’ arbitro Klein gli dà ragione. Non era gol, lo ammetto, la palla rimase sulla linea. Cinque centimetri più in là, solo cinque, e avremmo pareggiato e la nostra generazione avrebbe avuto una vita diversa. Invece fu sconfitta: non solo quel giorno, ma per sempre. In Brasile, ancora oggi, siamo quelli che hanno perso. Zoff disse che quella era stata la parata della sua vita. Viceversa, sarebbe stato il gol della mia vita. Cinque centimetri, e tutto sarebbe cambiato

Tutto sarebbe davvero cambiato. A dirlo è Oscar in un’intervista a più di 20 anni da quella memorabile partita. Era il difensore centrale del Brasile edizione Spagna ’82, quello che doveva stravincere i Mondiali, ma allo stadio Sarrià di Barcellona si trovò sulla sua strada Paolo “Pablito” Rossi e la saracinesca di Dino Zoff.
In Brasile i giocatori di quella Nazionale saranno eternamente perdenti, antieroi da rimuovere dai ricordi, sorte beffarda e contraria rispetto al destino dei rivali azzurri che, nell’altro lato del globo, in un piccolo paese a forma di stivale, sono ancora oggi eterni eroi.
In quell’afoso pomeriggio estivo del 5 luglio di Barcellona, tra trombe, coriandoli e cori, abbiamo trattenuto il respiro. L’Italia, bistrattata alla vigilia dallo scandalo scommesse e dopo un primo turno non esaltante, deve battere il Brasile per accedere alla semifinale. Dopo essersi ritrovata in un girone a tre davvero di fuoco, assieme all’Argentina di Maradona, la sfida ai maestri del futbol è davvero ardua, al limite dell’impossibile. Ai verdeoro, con la differenza reti a favore, basta un pareggio.

Italia – Brasile è un turbinio di emozioni: Rossi apre, risponde subito Socrates, ancora Rossi per la doppietta, Falcão rimette in equilibrio il match, ma Pablito non ci sta e firma la tripletta. Il centravanti juventino sbuca e infilza la distratta retroguardia che è inerme, non sa come affrontarlo. Ma in questo susseguirsi di emozioni e patemi si attende la terza rete del Brasile.
E l’occasione arriva al minuto 89 con il colpo di testa di Oscar e la parata felina di Zoff. Dino dirà di aver passato 4-5 secondi terribili perché dopo la parata gli avversari esultavano, lui non vedeva l’arbitro e c’era il rischio che avesse convalidato la rete.

Ma quella parata, quel guizzo istintivo sulla linea, è il suggello di una formidabile carriera per l’estremo difensore nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio 1942. A 40 anni, con la fascia da capitano sul braccio, ha vissuto un Mondiale da protagonista: a lui appartiene un record ancora imbattuto, essendo il giocatore più anziano a vincere una coppa del mondo con i suoi 40 anni e 134 giorni.
Un rapporto con la Nazionale vissuto con dignità e professionalità dall’esordio nella vittoria contro la Bulgaria, il 20 aprile 1968, all’alternanza tra i pali con Enrico Albertosi fino al record mondiale di imbattibilità ancora oggi ben saldo, conquistato tra il 1972 e 1974 con 1.143 minuti senza subire gol.

In tutto quattro Mondiali disputati, eterno quello conquistato l’11 luglio 1982, a Madrid, al cospetto di una Germania Ovest spazzata via con un roboante 3-1 firmato da Rossi, Tardelli e Altobelli. Unica macchia, la rete di Breitner al minuto 83.
E poi la coppa portata in trionfo, saldamente tenuta in mano da Zoff, l’esultanza del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, il tre volte “Campioni del mondo” esclamato da Nando Martellini e la memorabile “cartata” sull’aereo di ritorno tra Pertini, Causio, Zoff e il ct Bearzot con pipa in bocca e il luccichio della coppa lì accanto a loro.

Nella titanica impresa di racchiudere un’esistenza in una sola istantanea, beh, forse la carriera di Dino Zoff è tutta lì, in quella parata all’ultimo respiro tra la gioia e la disperazione. Del resto, il suo libro autobiografico pubblicato nel 2014 si intitola così: “Dura un attimo, la gloria”.

«Cosa ci faccio qui?». L’attacco di responsabilità arrivò a sorpresa, subdolo e devastante: ma fu solo un attimo. Il bello dell’attimo è che dura un attimo: già, altrimenti che attimo sarebbe? A neanche 24 anni poi, gli attacchi di responsabilità sono per loro natura transitori, passeggeri: a 34 anni di meno, a 44 cominciano a farsi preoccupanti, a 54…beh, lasciamo perdere.

Ma allora, 5 luglio 1982, ero giovane e forte, come si dice nelle favole: e per l’appunto stavo vivendo una sorta di favola, un sogno nel quale ero immerso, con tutte le scarpe, da una settimana: da quando cioè mi trovavo a Barcellona, assieme a due pazzi scatenati, a seguire i Mondiali di calcio. Anzi, il Mundial.
Quando mi colse la domanda fatidica ero allo stadio Sarrià, in tribuna, proprio sotto la telecamera della Tv, a “los cinco de la tarde”: sole ancora dardeggiante, non si respira, come faranno fra poco quei disgraziati a correre 90 minuti e più?… Sì, l’attacco di responsabilità era già svanito, ora erano altre le domande che si affacciavano alla mia mente: ce la faremo? Zico, Socrates, Falcao, Eder, Cerezo…Ci vorrà qualcosa più di un miracolo! E Rossi che non vede palla? Chi la butta dentro? No, mettiamoci l’anima in pace, si torna a casa: noi sul serio, all’indomani, col nostro cassone; loro, gli azzurri, poche ore più tardi. Già rulla sulla pista de “El prat” un bel Boeing targato Alitalia…

Inni nazionali cantati a squarciagola, emozione al diapason, si comincia. Cinque minuti e la mia bottiglietta d’acqua è già finita: morirò di sete, me lo sento…Altri cinque e la t-shirt è tolta: maledizione come picchia, almeno me l’avvolgo attorno alla testa per non rischiare un coccolone.
Siamo quasi 10.000 italiani, in questo catino ribollente al centro della città di Gaudì, fra palazzoni che sbucano da dietro le tribune, e che sembrano pure loro assistere interessati allo spettacolo; gli altri però, la torcida, tutti rigorosamente in maglia gialla, sono minimo il doppio. Cantano, ballano sugli spalti, fieri, e consapevoli di essere i migliori. I più forti. Quelli che riporteranno a casa la Coppa, non hanno dubbi, dopo aver fatto fuori Maradona&C. appena tre giorni prima sul medesimo infiammato palcoscenico. Ero presente. E mi hanno fatto paura. No, non ce la possiamo fare…

Anche Samuel, il mio nuovo amico di Belo Horizonte conosciuto nel 2 stelle che ci ospita proprio dietro le ramblas, è convinto: ha già in tasca il biglietto per la semifinale del Camp Nou, mi ha detto la mattina a colazione:

Hombre, ti voglio bene, a te e a tutti los italianos, ma noi dobbiamo fare la storia…Mi dispiace!

Dove sarà, in mezzo a quell’enorme macchia color oro, che ondeggia minacciosa?

Mentre me lo chiedo fra me e me, Conti taglia il campo da destra a sinistra col suo mancino magico, dalla trequarti Cabrini la mette in mezzo ed accade l’incredibile: sì, il fantasma si ridesta all’improvviso, incrocia di testa sul palo lungo, Valdir Peres è battuto…Roba da matti, Rossi ha fatto goal!
E’ un unico maxi abbraccio fra me, Giuliano, Ivano, altri italianos lì vicino mai visti prima. Allora ce la giochiamo… Ce la giochiamo? Macchè, il dottore in viola caracolla in area, sulla destra, e trova un varco impossibile fra Zoff ed il palo. Dinone, ma che combini? Questa dovevi prenderla…

Riprendono fiato, e colore, i 20.000 canarini: tutto a posto, «Ora li sbraniamo», sembrano dire con il loro entusiasmo sempre più coinvolgente…Sì, in campo sono i più forti, ma il loro problema è che SI SENTONO i più forti: così, quando Oscar e Luisinho traccheggiano superbi dinanzi alla loro area di rigore, il numero 20 in maglia blu si inserisce furtivo, fa due passi e spara una bomba che il portiere neanche vede. Ecco, 2 a 1 per noi, Paolo è tornato d’improvviso Pablito, quello dell’Argentina!

Non ho più voce, gli occhi fuori dalle orbite, l’intervallo serve a calmarmi un po’… Poco però, la ripresa comincia con 11 assatanati che cingono d’assedio i nostri 16 metri, rimpalli, salvataggi, affanno perenne. Quella bottiglietta, inutile da un bel pezzo, chissà perché è ancora fra le mie mani: ne mordicchio il bordo nervosamente, la stringo sin quasi ad accartocciarla: no, va a finire che oggi ci lascio le penne, a 2000 chilometri da casa! Ma si può?
Quando Falcao, ad una 20ina di minuti dalla fine, la sbatte dentro, mi sento come quel condannato a morte che dopo lunga attesa sulla sedia elettrica, riceve la scossa fatale: sollevato, è paradossale, ma almeno così non soffro più… Grazie lo stesso azzurri, è stato bello, però quegli altri devono fare la storia…

La storia? Ma non gliel’ha detto nessuno, a quel diavolo: non lo hanno informato, si direbbe, che quel Boeing è là che li attende! E già, perché Paolino la ributta dentro, ed allora il vecchio Sarrià sembra crollare, sotto il peso dei 10.000 che impazziscono, e del sospiro atterrito dei 20.000: un gemito straziante. Non rammento più nulla da quel momento in avanti, se non il capitano che inchioda sulle linea la testata rabbiosa di Oscar.

Poi tutto sfumato, nebbioso, ma questa che vi dico ora la ricordo, eccome: al rientro in albergo, ebbri di felicità e non solo (qualche buona cerveza lungo il cammino ce la siamo concessa…), trovo Samuel ad aspettarmi: piange, di sicuro ininterrottamente da un paio d’ore o giù di lì. Ha in mano una maglia gialla, me la porge dicendo:

Tienila amigo, siete stati i migliori, suerte…Ora la Coppa portatela a casa voi!

Lo abbraccio, non son sicuro che una lacrimuccia –anche due-  non sia spuntata dai miei occhi. Prendo quel cimelio, ringraziando di cuore, con la mano sinistra: perbacco, cosa stringo nella destra?

Non ci posso credere: quella bottiglietta di plastica, tutta mangiucchiata. Ebbene sì, ancora adesso, a distanza di 35 anni, la conservo gelosamente nel mio comodino accanto al letto, a casa: una reliquia!
Insieme a quella maglia (negli anni a venire sarà autografata da due campioni del mondo, quali Ciccio Graziani e Marcello Lippi: ma questa è un’altra storia…), che ogni tanto tuttora indosso, al mare. Capita che qualcuno mi dica «Bella, dove l’hai presa?». Ed io sorrido…

Un’ultima cosa. Forse qualcuno si domanderà di quell’attacco di responsabilità del quale parlavo all’inizio. Già, dovevo essere a Città di Castello, la mia città, a preparare l’esame di Procedura penale che mi avrebbe spalancato le porte verso la laurea in Giurisprudenza: ma quando i due pazzi mi telefonarono, a fine giugno, «Noi fra due giorni si va: tu che fai?». La risposta la sapete già.
E la mia laurea, fra festeggiamenti vari ed ubriacature solenni–figurate, ma anche no- post/Mundial, slittò di un bel po’, al 26 giugno 1984, giusto due anni più tardi quei giorni magici. Sapete una cosa? Non me ne sono mai pentito… 

Foto di proprietà dell’autore del pezzo

 

L’autore

Rebo (nom de plume) è un funzionario pubblico, ormai diversamente giovane, che però continua a praticare sport quasi quotidianamente, dopo averlo a lungo – e lo fa ancora – raccontato come cronista: sulla carta stampata, in radio, in tv. Ama la sfumature, i voli pindarici, in contrapposizione al necessario rigore espositivo di quando raccontava le partite del Perugia in serie A alla radio -e la pay-tv non aveva ancora preso il sopravvento-. Ma è il tennis il suo top-sport, e non si capacita di come sul campo di gioco non riesca ad avere la stessa efficacia di Federer (a vederlo sembra tutto così semplice…). Se vuoi, lo trovi alla mail renbor1958@libero.it .  

 

Il calciomercato spesso lascia increduli di fronte alle decisioni dei calciatori, che raramente rifiutano offerte imperdibili, cambiando maglia a seconda dei loro interessi.

Ma sarà davvero così? La storia calcistica ci insegna che un calciatore ha anche degli ideali legati alla propria squadra e spesso rifiuta il cosiddetto salto di qualità verso una squadra considerata “big”.

Proprio di recente è un giocatore del Bologna che si è reso protagonista di un rifiuto che ha fatto subito notizia: si tratta di Simone Verdi, che ha gentilmente declinato l’offerta del Napoli per rimanere ancorato alla sua maglia.

Non c’è da stupirsi se non ha colto quella che per molti era considerata la sua grande occasione. Molti prima di lui hanno fatto lo stesso e il passato conserva ancora tutti i nomi di chi ha detto no.

Il primo e sconvolgente rifiuto storico è stato quello di Gigi Riva, grande giocatore del Cagliari, che non ha ceduto alle lusinghe della Juventus che voleva a tutti i costi conquistare il suo talento. Siamo negli anni ’70 e, nello stesso periodo, un altro calciatore diventato celebre per le sue prestazioni in campo fu oggetto di un’allettante proposta del Napoli, seccamente rifiutata. Stavolta il protagonista è Paolo Rossi, che oggi commenta con queste parole la scelta di Verdi:

Credo abbia avuto timore di non sapere quante gare avrebbe potuto giocare, perché sul fatto che il Napoli sia competitivo non ci sono dubbi. Questione di titolarità o anche di crescita graduale? Se da una parte credo sia un obbligo del giocatore cercare di migliorare, ecco, penso altresì che Verdi abbia ritenuto il momento non opportuno, che la sua fase di crescita definitiva potrà raggiungere l’apice con altri cinque mesi di titolarità in un Bologna in cui gioca sicuro

Poi è stata la volta di Francesco Totti, emblema della fedeltà assoluta alla propria maglia giallorossa. Nonostante le offerte eccezionali da parte del Real Madrid, il calciatore non ha mai voluto abbandonare la Roma.

Ma la lista è ancora lunga e comprende anche nomi come Kakà, che rinunciò al Manchester City per rimanere fedele al Milan, e Totò Di Natale, che non cedette alla corte insistente della Juventus, nonostante l’Udinese fosse pronto a lasciarlo andare.

Più recenti in ordine di tempo arrivano i rifiuti di altri grandi nomi nel calcio internazionale: Marek Hamsik è un altro di quelli che hanno detto no. Il calciatore rifiuta l’occasione offerta dal Milan per rimanere a giocare con il Napoli.

Ma non è l’ultimo a chiudere questa carrellata di rifiuti storici: Milinkovic-Savic, Domenico Berardi e Nikola Kalinic sono altri illustri nomi che hanno fatto saltare trattative già in atto, spinti da motivazioni più forti degli interessi economici che ruotano attorno al calciomercato.

Che Verdi sia un’eccezione non è quindi affatto vero, ma che si approvi o meno la sua decisione, bisogna prendere atto del coraggio che ha avuto a dire di no. Chi prima di lui ha seguito lo stesso percorso oggi non può che appoggiarlo e sostenerlo.