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C’è del sadismo autoinflitto nel rivedere, di proposito, le immagini di Italia – Corea del Sud del Mondiale del 2002. Il Golden goal miserabilmente chiamato “the sudden death” (la morte improvvisa) dagli inglesi, l’arbitro Byron Moreno, Vieri che dilania occasioni su occasioni, Trapattoni tarantolato che se la prende con il mondo interno.
Tra le istantanee che più fanno male, però, ce n’è una in un certo senso epocale: lo stacco di Ahn che lascia a terra Paolo Maldini, preso in controtempo, e sigla la rete del 2-1 che elimina l’Italia dalla Coppa del Mondo.
Poi l’immagine del capitano azzurro, mentre tutto attorno è una bolgia rossa, che con un’espressione sofferente, si mette la mano sinistra tra i capelli, alzando il braccio che mostra visibilmente la fascia di capitano.

Fu l’ultima immagine del leader azzurro in Nazionale: il giorno dopo la stampa italiana non risparmiò indecorose critiche e Paolo, per preservare le sue ginocchia e focalizzarsi solo ed esclusivamente sul Milan, decise di salutare tutti togliendosi di dosso la maglia azzurra.
Ben 126 presenze, quattro Mondiali, uno più beffardo dell’altro. Un pegno dantesco per fargli pesare come un macigno le tantissime soddisfazioni che ha conquistato con il suo club eterno. Mentre inanellava Scudetti, Coppe dei Campioni e Campionati mondiali, in Nazionale Maldini ha preso solo tanti schiaffi.

Per questo, nonostante le numerose soddisfazioni, ha più volte detto che la semifinale di Italia ’90 contro l’Argentina è la sua delusione più grande. Tre Mondiali fatti fuori ai calci di rigore, il quarto e l’ultimo per il Golden goal: semplicemente non era il suo destino.
In terra asiatica, quel 2002, si chiuse un ciclo iniziato il 31 marzo 1988 con il debutto in Nazionale maggiore, a 19 anni, a Spalato nel match tra Jugoslavia e Italia terminato 1-1. Voluto da Azeglio Vicini che ebbe il compito di “rifondare” la squadra dopo la fallimentare spedizione nel Mondiale del 1986, Maldini fu il pilastro, nonostante la giovane età, dell’Europeo del 1988, ma soprattutto del Mondiale casalingo del 1990.

Se l’esordio è avvenuto nel 1988, ci sono voluti ben cinque anni per vederlo esultare per il primo gol con la maglia azzurra: il 20 gennaio 1993, infatti, Maldini realizza la rete del 2-0 contro il Messico:

Nelle 126 apparizioni, che lo collocano al terzo posto nella classifica assoluta di presenze alle spalle di Cannavaro (136 gettoni) e Buffon (169), Maldini ha realizzato sette reti. Dopo la prima rete, Paolo impiega due mesi per realizzare la seconda: il 24 marzo 1993 segna il 5-1 (6-1, il risultato finale) dell’Italia su Malta nel girone di qualificazione per il Mondiale del 1994:

Con Arrigo Sacchi in panchina, Maldini segna un’altra volta, l’11 novembre 1995, siglando la rete definitiva del 3-1 sull’Ucraina, questa volta nel girone di qualificazione per gli Europei dell’anno dopo. Un gol davvero davvero bello:

Il 29 marzo 1997 segna nella nuova avventura con suo padre, Cesare Maldini, come ct azzurro: il terzino sinistro apre le marcature, con una pregevole azione personale, nel 3-0 contro la Moldavia e si rifà, nello stesso girone di qualificazione, segnando il 2-0 contro la Polonia (3-0 il finale), un mese dopo, il 30 aprile 1997:

Un anno dopo, il 22 aprile 1998, nell’amichevole contro il Paraguay va nuovamente a segno in avvio, al 5’, nel match che vede l’Italia imporsi per 3-1:

L’ultima rete in azzurro la segna il 5 giugno 1999, allo stadio Dall’Ara di Bologna, contro il Galles. Sulla panchina c’è Zoff, la Nazionale gioca per conquistare l’accesso all’Europeo del 2000 e Maldini sigla la rete del 3-0, un gol che Bruno Pizzul definisce “spettacoloso”:

Quello del 1985 è un gennaio freddo, rigido e con forte nevicate in gran parte del Nord Italia. Le città sono paralizzate, le strade ghiacciate e chiuse e, con loro, molte attività commerciali. Il Milan, domenica 20 gennaio, deve giocare in trasferta sul campo dell’Udinese, ma il match è a rischio.

La partita, complice l’arduo e generoso lavoro degli inservienti e degli spalatori, si riesce a giocare, ma sul pullman per la partita friulana non sale Tassotti. Al suo posto, alla prima convocazione in prima squadra, ci va Paolo Maldini.
Il figlio di Cesare, appena 16 anni, si accomoda in panchina con la maglia numero 14, accanto a Nuciari, Ferrari, Cimmino e Giunta. In campo, invece, l’allenatore Liedholm schiera in porta Terraneo, in difesa Galli, Baresi, Russo e Di Bartolomei, a centrocampo Evani, Verza, Battistini e Manzo dietro alle due punte Hateley e Incocciati.

L’Udinese passa in vantaggio al minuto 11 con la bella rete di Selvaggi che dribbla in area difensore e portiere, mentre Battistini si infortuna poco prima dell’intervallo. Durante la fine del primo tempo, Maldini, che non pensava minimamente alla possibilità di esordire in Serie A e pensava solo a coprirsi dal gelo, fu richiamato da Liedholm: «Dove preferisci giocare?», disse lui. «Io solitamente gioco a destra, mister», rispose l’erede di Cesare.

Così il ragazzino di 17 anni inizia la sua lunga storia d’amore con il Milan. Sul campo è già sicuro e determinato: lo si vede chiudere in scivolata un paio di interventi, marchio di fabbrica per tempismo e puntualità della sua carriera. Il Milan raggiunge il pareggio al 63’ con la rete dell’inglese Hateley, abile a cogliere per primo una punizione deviata di Di Bartolomei.

Per il calcio italiano e per quello internazionale, il 20 gennaio 1985 non è un giorno qualsiasi: cinque Champions League, sette scudetti, tanti riconoscimenti e 902 partite sempre con la stessa maglia, dopo tutto questo è ancora oggi ricordato come il giorno del debutto di Paolo Maldini. Con il Milan ha vinto tanto, tutto quello che si poteva conquistare in un club; rimarranno amare delusioni, invece, con la Nazionale. Pilastro della difesa, 126 presenze di cui 74 da capitano, Maldini ha disputato ben 4 Mondiali.

Nils Liedholm al termine di quella partita contro l’Udinesedisse:

Paolo ha un grande avvenire

 

La dinastia prima e dopo: da Cesare al nipote Daniel

Ma quello di Paolo Maldini sarebbe un racconto solo parziale se non citassimo il ciclo dinastico in rossonero aperto dal padre Cesare e continuato dal figlio Daniel.  Cesare Maldini, nato a Trieste il 5 febbraio 1932 e all’età di tredici anni, impressionò favorevolmente il massaggiatore della Triestina il quale lo fece provinare presso la società alabardata, dove all’interno della stessa compì poi tutta la trafila delle formazioni giovanili, superando in questi anni anche l’ostacolo fisico di una pleurite che rischiava di precludergli la futura carriera calcistica. Nei primi anni 1950 ebbe modo di conoscere per la prima volta Nereo Rocco, destinato a diventare una figura ricorrente della carriera e ancor più della vita di Maldini. Proprio il paròn decise in questi anni di aggregarlo stabilmente alla prima squadra, seppur l’esordio da professionista avvenne poi agli ordini di Mario Perazzolo il 24 maggio 1953, all’età di ventuno anni, per la sfida di Serie A sul campo del Palermo. La stagione dopo divenne titolare e, nonostante la giovane età, eletto capitano della formazione giuliana tornata dopo tre anni nelle mani di Rocco. Passò al Milan nel 1954 e il suo esordio in Serie A con la maglia rossonera fu, coincidenza, proprio contro la Triestina nel settembre dello stesso anno. Con il Milan disputò 386 partite, molte delle quali da capitano, vincendo quattro scudetti e la prima storica Coppa dei Campioni.

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E arriviamo a Daniel. San Siro ha applaudito anche lui, domenica 2 febbraio 2020 nel pareggio per 1-1 contro l’Hellas Verona. Classe 2001, primo giocatore del nuovo millennio a debuttare in prima squadra nel Milan, Pioli ha guardato la panchina cercando forze fresche da inserire. Ceduto Piatek, c’era solo un ragazzo della Primavera, talvolta aggregato alla prima squadra. Trequartista di ruolo, Maldini di cognome. Così Pioli ha mandato in campo il secondogenito di Paolo al 93’. «È stato un sogno, peccato per il risultato. Speriamo la prossima volta di riuscire a portare a casa i tre punti.Il Verona è una squadra tosta. Forse avremmo meritato la vittoria, ma ci dobbiamo accontentare del pari» dichiara il biondino sorridente. «L’esordio era un obiettivo, ora speriamo di andare avanti così. Ho provato un’emozione forte, ma mio padre mi tranquillizza». Ha Lasciato lo stadio con lo zainetto in spalla, mentre Paolo lo segue orgoglioso: «Il debutto non era preventivato. Non avrebbe dovuto essere convocato, non si era allenato per due giorni, non stava benissimo».

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Salvi non si sa come, nonostante con l’auto siano finiti in un burrone nel tentativo di sfuggire alla polizia, il sequestratore Aldo e i sequestrati Giovanni e Giacomo si ricordano che Italia e Norvegia stanno per giocarsi in una partita secca l’accesso ai quarti di finale del Mondiale. Sono in un bosco, lontani da tutto, ma Giacomo ha l’orologio dei Ringo Boys con radio annessa, vera manna in tempi in cui i cellulari servivano al massimo per telefonare, e così i tre possono godersi la radiocronaca di Bruno Gentili.
Per generare un crescendo emotivo la parata strepitosa con cui Pagliuca salva il risultato al 73′ è raccontata prima dell’occasione che fallisce Del Piero in contropiede a inizio ripresa e solo all’ultimo sentiamo la voce del cronista narrare il gol vincente di Vieri, segnato in realtà al 18′. Comunque sia, al fischio finale rapiti e rapitore festeggiano e da lì in poi si scopriranno amici e complici… oltre che già deceduti.

Riassumere quell’ottavo di finale in modo più prolisso rispetto a quanto proposto nel film Così è la vita non ha senso, visto che al caldo sole pomeridiano di Marsiglia il 27 giugno 1998 non accade molto altro e visto che la vittoria non sarà per la squadra di Cesare Maldini il preludio di una cavalcata epica, ma solo l’anello di congiunzione tra le partite del girone e l’inevitabile scontro con i padroni di casa che ne sancirà l’eliminazione.
Tuttavia, se non Italia-Norvegia, almeno i giorni immediatamente precedenti meriterebbero un posto in una personale storia del giornalismo sportivo (e non solo) al capitolo “Come creare ad arte uno spauracchio”.

Il 23 giugno, a Lione, in un incontro valido per il Gruppo A succede, infatti, una cosa impensabile per la fase finale di un Mondiale: realizzando due gol negli ultimi otto minuti la Norvegia si impone 2-1 sul Brasile. Mattatore dell’incontro il lungagnone del Chelsea Tore Andre Flo, che prima realizza il pareggio con un preciso diagonale e poi si procura il rigore del sorpasso ingigantendo la veniale trattenuta che gli fa Junior Baiano.
La cosa bella è che Flo anche a Oslo il 30 maggio 1997 ha segnato al Brasile una doppietta in una partita vinta dagli scandinavi 4-2, guadagnando in quella occasione il soprannome “Flonaldo”. Evidente il riferimento al Fenomeno, al secolo Ronaldo Luis Nazario da Lima, che a Oslo -come del resto a Lione- non ha lasciato il segno.

“Flonaldo” castigatore seriale del Brasile, dunque? “Flonaldo” punta pericolosissima in grado di far fuori l’Italia da solo? In realtà, qualche semplice osservazione dovrebbe spingere gli addetti ai lavori a sospendere il giudizio, magari in attesa di altre prove. Quella di Oslo era, infatti, un’amichevole e poi, come ha dichiarato alla Gazzetta il ct Zagalo, «Eravamo stanchi dopo il viaggio, ma loro [i giocatori del Brasile] avevano gli occhi spalancati mentre guardavano i film di sesso in tv nelle loro camere d’albergo».

A Lione, invece, è stata questione di motivazioni. Tra i verde-oro, sicuri del passaggio del turno e primo posto nel girone, il solo Denilson ha fatto di tutto per mettersi in mostra perché scontento del minutaggio riservatogli da Zagalo nei primi due incontri. Non a caso il gol del vantaggio brasiliano firmato Bebeto è nato da un’accelerazione del fantasista in procinto di passare dal San Paolo al Betis Siviglia. Ai norvegesi, al contrario, serviva una vittoria per andare avanti, visto che a Saint Etienne il Marocco stava irrimediabilmente dilagando sulla Scozia.

“Flonaldo”, da parte sua, sembra esser rimasto con i piedi per terra nonostante la bella prestazione offerta contro il Brasile. Tanto che alla Gazzetta il 25 giugno, in merito all’imminente ottavo di finale contro gli azzurri, dichiara: «Sarà molto difficile, perché il Brasile non era costretto a vincere, mentre l’Italia lo sarà». Il titolo del pezzo è, però, di tutt’altro tenore, Attenti a Flonaldo, il fenomeno dei fiordi, e per minare un po’ la certezza dei lettori viene ricordato il 6-0 subito dall’Under 21 di Cesare Maldini in una partita valevole per l’Europeo di categoria di sette anni prima. Un incontro in cui, comunque, Tore Andre Flo non giocò, né era in panchina.

Repubblica, invece, indugia sui dubbi del ct azzurro: a chi affidare la marcatura dell’attaccante in forza al Chelsea? Alessandro Nesta  si è infortunato nel match contro l’Austria e allora il 25 giugno si parla di un’alternanza Costacurta-Maldini con protezione alle spalle di Bergomi, il 26 si rilancia l’ipotesi «Paolo marcherà Flo» con riferimento sempre a Maldini figlio, il 27 mattina, infine, ci si adegua alla decisione di Maldini padre di confermare il titolare Cannavaro e di vedere lui, nonostante i tanti centimetri in meno, in marcatura sul gigante Flo. Ma attenzione…  «l’ uomo più forte […] verrà sorvegliato da Cannavaro, con Bergomi in seconda battuta e Maldini junior in terza (cioè sulle palle inattive)», giusto per rilanciare l’idea che Tore Andre non lo si deve lasciare solo neanche quando va in bagno. Non a caso il titolo dell’articolo è Italia, pomeriggio di fuoco.

Flo imperversa anche nei servizi che telegiornali e rubriche varie presentano in TV, come se l’Italia stesse per affrontare un solo unico uomo e non una squadra.

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La Walk of Fame di Roma si arricchisce di nuovi nomi di atleti che hanno reso grande lo sport italiano.

I campioni scelti per aggiungere altri tasselli nella via lastricata più famosa della capitale sono cinque: Luigi Beccali (atletica), Ercole Baldini (ciclismo), Paolo Maldini (calcio), Samuele Papi (pallavolo) e Massimiliano Rosolino (nuoto).

A ciascuno di loro è stata dedicata una mattonella perché nell’arco della loro carriera si sono distinti a livello internazionale.

La strada che prende il nome di Walk of Fame riprende l’idea di Hollywood, dove le più famose star hanno una propria targa lungo l’Hollywood Boulevard e la Vine Street per celebrare la loro fama.

In Italia non è il mondo della televisione e del cinema a dare visibilità nella Walk of fame, ma quello sportivo, con 117 campioni che hanno fatto la storia ognuno nella propria disciplina e hanno una propria targa lungo la strada che porta allo Stadio Olimpico.

Le prime celebrità ad essere inserite a partire dal 2015 sono state 100, tra cui l’indimenticabile Fausto Coppi, eroe del ciclismo, o la campionessa dello sci alpino Debora Compagnoni, la prima ad avere vinto l’oro in tre edizioni olimpiche. Ma sono solo alcuni nomi tra i più famosi sportivi che hanno regalato importanti riconoscimenti al nostro paese.

Dopo i 7 nomi inseriti l’anno scorso, adesso si sono aggiunte altre cinque stelle provenienti dal mondo dell’atletica, del ciclismo, del calcio, della pallavolo e del nuoto.

Il primo è Luigi Beccali, medaglia d’oro nei 1500m alle Olimpiadi di Los Angeles, che viene ricordato con queste parole:

È stato uno dei più grandi della storia, abbiamo cercato di rintracciare la famiglia ma non ci siamo riusciti perché ormai vivono negli Usa, ha rappresentato al meglio l’Italia prima della Guerra, un orgoglio essere qui 

Dal passato si rievoca poi la grandezza di Ercole Baldini, grande ciclista che è l’unico finora ad avere vinto una medaglia d’oro olimpica, un campionato mondiale ed un Grande Giro. Già nel lontano 1956 faceva sognare l’Italia con la medaglia d’oro alle Olimpiadi in Australia. Dalla voce di Renato Rocco, Presidente della Federciclismo, il tributo al campione:

Un mito, ricordo ancora l’oro alle Olimpiadi in Australia nel 1956 dove non avevano l’inno italiano perché non se lo aspettavano e il pubblico lo cantò dal vivo, grande atleta e grande uomo

Poi è la volta di Samuele Papi, giocatore di punta della nazionale di pallavolo, che ha avuto un ruolo decisivo ai Mondiali di Volley del 1998, dove l’Italia vinse il titolo a Tokyo, con il commissario tecnico Bebeto, che ci ha lasciato da poco. Di Papi ecco cosa si racconta:

È stato un grandissimo giocatore, determinante nel mondiale vinto in Giappone. Un giocatore di primo livello che ha dimostrato il suo attaccamento alla nazionale e la misura dell’uomo e dell’atleta, un vero fenomeno

Ma tra queste nuove stelle ci sono anche due atleti che hanno avuto l’onore di poter essere ancora presenti alla celebrazione della loro carriera. Si tratta di Paolo Maldini e Massimiliano Rosolino.

Il primo, visibilmente emozionato, commenta così questa targa in suo onore:

Lo sport mi ha dato tanto e per me è un vero onore ricevere questo tributo

 

Giovanni Malagò, infatti, lo esalta con parole di grande ammirazione:

I suoi numeri fanno rabbrividire: 7 scudetti, 5 Champions, record di 8 finali giocate, un onore e un orgoglio di tutto lo sport italiano

Infine, tocca al campione di nuoto, che assiste alla cerimonia con tutta la sua famiglia e ci tiene a ringraziare per questo riconoscimento ufficiale:

E’ un onore che ripaga di tutti i sacrifici sostenuti per arrivare fin qui. Sinceramente ci speravo; probabilmente il motivo che questo giorno sia giunto solo oggi è che non ho mai dichiarato ufficialmente di terminare l’attività e infatti non ho ancora smesso. Ora mi dedico al triathlon ed è comunque un modo per tenermi in forma e curare il benessere psicofisico. A tutti i ragazzi dico che, al di là dei mezzi a disposizione, serve sempre una grande forza psicologica e fisica per arrivare ai massimi livelli e questo riconoscimento ne è la testimonianza

Ed è con queste sue parole di incoraggiamento per le nuove generazioni che lo sport italiano spera di arricchire anche nei prossimi anni la Walk of Fame nostrana.