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Da dieci anni non si corre più nello scenario che ha dato vita allo storico nome. Eppure il fascino resta immutato. La Dakar, giunta alla sua 41ma edizione, è in corso dal 7 fino al 17 gennaio in Perù. Per la prima volta si svolge tutta entro i confini di un unico Paese. Si parte e si arriva a Lima per un totale di 5.541 chilometri in dieci tappe. La vecchia Parigi Dakar, con partenza nella capitale francese e arrivo in Senegal, è andata in scena fino al 2008. Poi il pericolo di attentati terroristici ha suggerito lo spostamento in America Latina.


Protagonista dell’edizione 2019, finora, è il principe qatariota Nasser Al-Attiyah che ha vinto la prima e terza tappa nella categoria auto. In testa però c’è Stephane Peterhansel, campione uscente e vincitore della Dakar per 13 volte nelle due e quattro ruote. In classifica generale il pilota della Peugeot precede il suo compagno di squadra Cyril Despres. Nelle moto il protagonista è il trionfatore dell’anno scorso Sam Sunderland che ha tagliato per primo il traguardo della terza tappa. Da Pisco a San Juan de Marcona impiegando 3 ore, 20 minuti e 43 secondi. L’inglese ora precede l’argentino Benavides in classifica generale. Male lo spagnolo Barreda che aveva vinto la prima tappa. Nel terzo giorno ha sbagliato strada ed è arrivato con un ritardo di 27 minuti, precipitando al 15mo posto in classifica.


L’edizione 2019 entra nella storia per la presenza di due corridori diversamente abili in gara. L’italiano Nicola Dutto, 49 anni con la sua KTM nelle moto, è un pilota paraplegico. Il peruviano Lucas Barron, 25 anni e figlio di Jacques, anch’egli in gara, è affetto dalla sindrome di down. Entrambi non hanno mollato e hanno deciso di sfidare il deserto in un’avventura estrema. Sono tra i partecipanti a bordo di 334 equipaggi tra le dune nel deserto dalle Ande al Pacifico. Cinque le categorie previste: auto, moto, camion, quad (motocicletta a quattro pneumatici), e SXS (side by side, un piccolo fuoristrada). Ventuno gli italiani in gara, nel nome di Fabrizio Meoni, ultimo italiano a vincere nel 2012 e poi scomparso in un incidente tre anni dopo.

Romano Fenati molto difficilmente tornerà in sella a una moto in una competizione ufficiale. Il folle gesto di domenica scorsa a Misano durante il gp di Moto2, in cui ha “pizzicato” il freno anteriore di Stefano Manzi a oltre 217km/h, potrebbe costargli un’intera carriera: venerdì 14 sarà ascoltato a Roma in un’audizione davanti al Tribunale della Federazione italiana. Il rischio radiazione è fortissimo, il 22enne pilota marchigiano, assistito da un legale, dovrà spiegare le ragioni che l’hanno portato a un gesto che a distanza di giorni continua a far discutere. Gli sarà contestata la violazione dell’articolo 1.2 del Regolamento di Giustizia.

 

Fenati, in attesa dell’interrogatorio federale, è stato sospeso dalla Federazione Motociclista Italiana con immediato ritiro della tessera e della licenza velocità. Non solo: quello che per molti era l’erede di Valentino Rossi è stato licenziato in tronco dalla sua squadra, la Marinelli Snipers Team, «per il suo comportamento antisportivo, inqualificabile, pericoloso e dannoso per l’immagine di tutti».

Il “cinghialotto” Fenati è stato scaricato anche dal team che l’aveva ingaggiato per il 2019, la Mv Agusta Forward Racing:

Riguardo alla sua futura posizione come pilota, ci opporremo in tutti i modi per bloccarla. Non salirà mai sulla nostra moto, lui non rappresenta i valori della nostra azienda

La stangata sembra dietro l’angolo, anche perché il centauro non è nuovo a colpi di testa di questo tipo: nell’aprile 2015 rifilò un calcio in pista al collega finlandese Ajo durante il warm up di Moto 3, venendo retrocesso all’ultimo posto sulla griglia di partenza.

Il precedente del 2015 in cui Fenati scalciò Ajo

Finito nella bufera, argomento di discussione su giornali, bar e social, Romano Fenati sembra voler dire basta al mondo delle moto. Ecco le sue parole rilasciate al quotidiano “La Repubblica”:

Ho sbagliato, è vero: chiedo scusa a tutti. Però volete vedere il mio casco e la tuta? C’è una lunga striscia nera: la gomma di Manzi. Mi ha attaccato tre volte e anche lui avrebbe potuto uccidermi, come dite voi. Ho sbagliato ne pago le conseguenze: mi arrendo, avete vinto. E dico basta. Però se ne dovrebbero andare tanti altri, provate a pensarci un po’. Per un po’ lavorerò nei negozi di ferramenta del nonno, con lui e la mamma. Del resto lo facevo già. E poi ho un progetto ad Ascoli, ma preferisco non parlarne

Romano Fenati rischia la stangata

 

 

Perdere contro una persona che ti sta simpatica è un po’ meno duro, rende la cosa più dolce

La mente vola al 2006, Gran Premio di Valencia. Valentino Rossi, al tempo era sul sellino della Yamaha, aveva otto punti di vantaggio sullo statunitense Nicky Hayden, pilota Honda, prima dell’inizio dell’ultimo tracciato dell’anno.
Inaspettatamente il Dottore andò giù lungo, fuori dalla pista, fuori dai sogni di alzare il titolo che passò nella mani del Kentucky Kid.
Al termine, mentre il paddock era diviso tra euforia e disperazione, Rossi, ancora in pista, raggiunge Hayden che stringe la bandiera americana. Sotto i caschi e le visiere impermeabili agli sguardi il ragazzotto di Tavullia si sarà complimentato, sinceramente.

I due piloti hanno incrociato le loro moto e i loro destini in tante, entusiasmanti sfide, ma Valentino Rossi non dimentica la prima volta che l’ha visto:

Mi ricorderò sempre la prima volta in cui lo incontrai. Era arrivato dagli USA in Giappone e lo vidi alla stazione di Tokyo, era vestito ‘da americano’ e sembrava un pesce fuor d’acqua. Poi abbiamo passato tanto tempo insieme, era una persona simpatica a tutti, un vero figo

Un figo, ma anche un ragazzo semplice, genuino e che ti strappa un sorriso. Hayden, classe 1981, è morto dopo cinque giorni di coma, il 22 maggio dopo esser stato investito il 17 maggio mentre si stava allenando in bicicletta sulla strada provinciale Riccione-Tavoleto, non lontano da Misano Adriatico.
E gli stessi abitanti, nel giorno in cui la salma del pilota tornava a casa, a Owensboro, hanno voluto rendere omaggio al numero 69, appoggiando la bandiera americana sulla Ducati guidata dall’australiano Troy Bayliss ed esposta al centro di una rotonda spartitraffico.

Un gesto sentito, spontaneo, come i tanti che hanno segnato il rapporto tra Rossi e Hayden. Le congratulazioni dell’italiano nel 2006 a Valencia, come visto, oppure sempre in Spagna, quando nel 2015, Rossi era uscito sconfitto dalla lotta per il titolo e Hayden era alla sua ultima gara in MotoGP con l’americano che si è avvicinato a consolarlo e a dargli forza.

Ma c’è un piccolo gesto che, rivisto oggi con questo video a rallentatore, mette un po’ di magone e lascia sospirare: nel 2012, durante il Gran Premio degli Stati Uniti d’America di Laguna Seca, Valentino Rossi, ritiratosi per una caduta, chiede un passaggio in moto proprio a Nicky che lo fa montare su prima di allontanarsi, assieme, salutando il pubblico di casa:

Giovanni Sgobba