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Il calcio italiano si appesta a vivere una nuova era e a cambiare forma. Tecnologia e interessi economici porteranno la Serie A a una doppia epocale novità. Dalla stagione 2018-2019, infatti, sarà introdotta la Var, la cosiddetta moviola in campo e, per preparare fisicamente i calciatori al Mondiale in Qatar nel 2022 verrà sperimentato l’inizio del campionato addirittura a ferragosto.
Novità che, in realtà, circolavano già da diverso tempo, tra semplici voci di corridoio e proposte semiserie, ma dopo l’ultimo consiglio dei vertici sportivi internazionali, adesso si ha una data d’esordio che verrà ufficializzata entro il prossimo giugno.
Solo pratiche burocratiche, in verità: le strette di mano ci sono con buona pace di tutti gli organi di competenza.

La moviola in campo

Partiamo dalla Var (Video assistance referee). La recente amichevole tra Francia e Spagna con il gol annullato ai transalpini e la rete convalidata a Deulofeu tramite utilizzo della moviola ha convinto anche i più critici.
Di test nell’ultimo anno se ne sono fatti parecchi e dimostrano che, grazie a un pronto dialogo tra arbitro di gara e video assistenti, è possibile prendere con serenità la giusta decisione in pochissimo tempo.
Addio dunque alle care discussioni da bar o alla crociata di Aldo Biscardi. Dopo la goal-line technology, dunque, in Italia crolla un altro tabù legato allo sport più amato nella penisola.
Come detto, a partire dal 2018, i cinque maggiori campionati europei avranno a disposizione un prezioso aiuto tecnologico in più. Come già visto anche in Italia, ve ne avevamo parlato qui, nell’amichevole tra Italia e Germania under 16 giocata a Verona il 22 marzo è stato, infatti, annullato il primo calcio di rigore grazie all’ausilio della Var. E sono bastati solo 14 secondi.

C’è chi ovviamente storce il naso sostenendo che le troppe perdite di tempo rallenteranno e spezzetteranno il ritmo del gioco, ma Ruud Bakker, delegato europeo della moviola in campo, rasserena gli scettici:

Il calcio adesso è molto più veloce rispetto a 20-30 anni fa. Gli arbitri sono spesso chiamati a prendere decisioni in un battito di ciglia e, come abbiamo visto, non sempre l’assistenza dei giudici di porta ha portato a decisioni corrette. Anche per gli stessi tifosi che ci mettono cuore e passione, anche per dare costante credibilità a uno sport amato e seguito, non possiamo più girare lo sguardo da un’altra parte e rimandare la decisione

 

Ancora non è chiaro quando l’arbitro potrà avvalersi dall’assistenza mediante video, se solo in caso di rigore o fuorigioco o esteso anche su espulsioni e altri episodi dubbi, ma un prezioso rapporto lo potrà dare il Mondiale che si giocherà in Russia: entro marzo 2018, infatti, l’International Board darà il suo nulla osta, o meno, all’impiego della tecnologia di supporto arbitrale durante la Coppa del mondo.

 

Il clima del Qatar preoccupa: serie A parte a ferragosto

Ma se questo piccolo passo per l’uomo, ma grande per l’umanità era già nell’aria, ha sorpreso, invece, la decisione di anticipare l’avvio della Serie A il 15 di agosto.
E qui pesa la scelta di giocare il Mondiale del 2022 in Qatar che ha già stravolto le logiche calcistiche: spinti da patti economici, per la prima volta, infatti, la manifestazione iridata farà tappa in Medio Oriente e, considerando le temperature proibitive del paese qatariota, la Fifa ha imposto di giocare in inverno e non nei classici mesi di giugno e luglio.
Ma Ala Buf, a capo dei delegati che si occupano della tutela e del monitoraggio climatico in relazione alle attività agonistiche ha di fatto confermato che, anche giocando a dicembre o gennaio, il clima sarà afoso, umido e privo di vento.

Gli atleti devono allenare il corpo ed essere pronti psicologicamente, pertanto, ecco la volontà di anticipare l’avvio della Serie A a ferragosto. Una scelta che, in sostanza, si uniforma alla Bundesliga o alla Premier League che, però, hanno medie climatiche decisamente diverse dalle nostre. Provate a immaginare una partita giocata al Barbera giù in Sicilia o anche al San Paolo di Napoli.
Una condizione, inizialmente, proibitiva non solo per calciatori, ma anche per gli stessi tifosi. Non ci sono ancora conferme sugli orari delle partite di agosto, sembra umanamente plausibile che saranno tutte in notturna anche se gira voce di un anticipo alle 18.00. Da riprogrammare, quindi, tutte le attività nei ritiri estivi delle società che già vedono ridotto il periodo di preparazione perché molti giocatori saranno da poco rientrati dal Mondiale in Russia.

Tra l’altro questa decisione arriva qualche giorno dopo la dichiarazione del ct Giampiero Ventura che aveva proposto di anticipare di una settimana l’inizio della Serie A (stagione 2017, però), in modo da avere più giorni di rodaggio nelle gambe per prepararsi alla sfida decisiva contro la Spagna del 2 settembre:

E’ interesse nazionale anticipare l’inizio del campionato al 13 agosto. Ho chiesto di giocare tre domeniche di campionato prima di affrontare la Spagna, ma mi hanno detto di andarmi a ricoverare. Giocano tutti prima, noi siamo un po’ schematizzati, ma per raggiungere grandi obiettivi, bisogna anche creare i presupposti

 

Insomma, tra calcio “spezzatino”, giocato ad agosto e con la moviola in campo, quello che sembrava impensabile anche solo 15 anni fa, ora è diventato realtà. E pensare che prima molte partite si giocavano solo la domenica in contemporanea…

E’ passato già un anno da quando ci ha lasciati a soli 68 anni uno dei grandi del calcio, secondo alcuni il più grande, spazzato via prematuramente da una maledetta malattia che lo ha logorato in soli sei mesi senza lasciargli scampo. Stiamo parlando di Johan Cruyff.

 Johan Cruyff era il calcio. Era un calciatore universale, uno che poteva vantarsi di condividere lo spazio nell’immaginario collettivo con l’elite del pallone e di essere richiamato nei discorsi degli appassionati al fianco di nomi che hanno segnato le loro epoche e che fanno paura solo a pronunciarli, come Pelè e Maradona, Di Stefano e Puskas e, venendo ai giorni nostri, Messi e Cristiano Ronaldo.

UNA CARRIERA DI SUCCESSI

La sua carriera è stata costellata di successi, in patria, con 9 campionati olandesi vinti tra Ajax e Feyenoord e all’estero, con la vittoria del campionato spagnolo nel 73-74 con la maglia del Barcellona ed ha avuto anche la benedizione delle competizioni europee, grazie alle 3 Coppe dei Campioni vinte con i “lancieri” insieme a una Supercoppa UEFA e ad una Coppa Intercontinentale.

Ma la sua grandezza è stata certificata anche dai successi a livello individuale se è vero, come è vero, che, fino all’arrivo dei “cannibali” Messi e Cristiano Ronaldo, deteneva, insieme con due poeti del calibro di Michel Platini e Marco van Basten, il record di Palloni d’oro assegnati da France Football: ben 3 (nel 1971, 1973 e 1974), venendo anche eletto secondo miglior calciatore del XX secolo, (dietro Pelé ma davanti a Maradona!), nella speciale classifica stilata dall’IFFHS.

La sua leadership lo portò a grandi risultati anche da allenatore, dove, negli 11 anni di carriere alla guida di Ajax e Barcellona, fu in grado di vincere ben 4 campionati spagnoli, 1 Coppa di Spagna e 2 Supercoppe di Spagna, 2 Coppe d’Olanda, 2 volte la Coppa delle Coppe, 1 Supercoppa UEFA e 1 Coppa dei Campioni. Si, perché Cruijff è uno dei sette allenatori ad aver vinto la Coppa dei Campioni dopo averla conquistata da giocatore: in compagnia di Miguel Muñoz, Giovanni Trapattoni, Josep Guardiola, Frank Rijkaard, Carlo Ancelotti e Zinedine Zidane. Non c’è molto da aggiungere.

IL MONDIALE DEL 1974

Ma è con la Nazionale che la grandezza del “Pelè bianco” è deflagrata nel modo più evidente e chiaro, anche senza alzare alcun trofeo. Cruyff fu infatti l’anima della nazionale dei Paesi Bassi che ai Mondiali del 1974 in Germania Ovest fu in grado di inventare un nuovo modo di giocare a calcio, un modello che si fondava sul continuo movimento senza palla e sull’applicazione sistematica del pressing e del fuorigioco. Il totaalvoetbal, il calcio totale. Potremmo definirlo un embrione del moderno tiki-taka.

Quella Nazionale del 1974, guidata da uno dei teorici di questo calcio dispendioso e spettacolare Rinus Michels, era una macchina meravigliosa che, oggi diremmo, sembrava uscita da un videogioco. E Johan Cruijff ne era l’emblema, un mattatore che riduceva a meri comprimari campioni del calibro di Rep, Rensenbrink e Neskeens, che seguivano come adepti il continuo movimento del loro leader, come in una danza fluida e allo stesso tempo aggressiva.

La grandezza delle imprese di quella squadra in quel Mondiale è ancora più clamorosa se si pensa che era sfibrata internamente da mille frizioni ed invidie, dovute anche alle scelte estreme di Michels che l’aveva formata creando due blocchi inconciliabili che vedevano contrapporsi alle due estremità i giocatori dell’Ajax e quelli del Feyenoord.

Nonostante fratture insanabili, in campo i Tulipani erano una cosa sola, un’orchestra perfettamente in sintonia e con un unico direttore, che, dopo un facile girone di qualificazione, con vittorie su Uruguay e Bulgaria e pareggio con la Svezia, fu capace di schiantare, tra gli altri, l’Argentina con un sonoro 4-0 e il Brasile con un secco 2-0 arrivando in finale con i padroni di casa della Germania Ovest.

E anche la finale dell’Olympiastadion sembrò iniziare sotto i migliori auspici. Pronti-via e la palla è dei Tulipani che, con una serie incredibile di passaggi rapidi portano la palla in area di rigore, Cruijff punta la porta e viene steso da Berti Vogts, è rigore, che Neskeens realizza. Al primo giro di lancette siamo già 0-1 per l’Olanda e la Germania deve ancora toccare il pallone.

Ma si sa, i tedeschi non muoiono mai e, grazie alla grinta di Vogts, alla classe di Beckenbauer e alle reti di Breitner e del solito, mortifero, Gerd Muller riuscirono a ribaltare il risultato e vincere la partita con il punteggio di 2-1. Un finale amaro, ad un passo dal sogno, che i Tulipani di certo non meritavano.

Questo fu senza dubbio il punto più alto di Cruijff con la Nazionale. Dopo quell’esperienza, ci furono un terzo posto all’Europeo del 1976 e la mancata partecipazione ai Mondiali in Argentina del 1978, ma le prestazioni di quel Mondiale tedesco rimarranno per sempre impresse nella memoria di tutti gli appassionati, non solo di chi ebbe la fortuna di viverle in prima persona. E c’è da crederci, diedero al movimento calcistico olandese la spinta per giungere a quello che, ad oggi, rimane l’unico trionfo calcistico: La vittoria all’Europeo ’88 dove Van Basten (con il gol più bello della storia) e Gullit ebbero la meglio sulla Russia, nella sfida tra Palloni d’Oro con Belanov. Guarda caso ancora in Germania Ovest, ancora all’Olympiastadion, ancora con Rinus Michels alla guida: quasi una rivincita della sconfitta del 1974.

Cruijff era un leader nato e questo fece di lui un personaggio scomodo all’intero dello spogliatoio. Non si contano i litigi e le diatribe con i compagni di squadra che ne hanno forse limitato l’impiego in Nazionale. Ma, sotto la sua corazza di uomo deciso, batteva il cuore di un uomo vero, attento al sociale, tanto da dar vita a una fondazione benefica, la Johan Cruijff Foundation e che divenire testimonial di una celebre campagna antifumo.

Non ci resta che ricordarlo nel giorno del primo anniversario della morte. Un giorno buio, quel 24 marzo 2016, che ha tolto al mondo un grande campione e un grande uomo, il Profeta del Gol.

Michele De Martin

A volte i traguardi più clamorosi vengono raggiunti dai personaggi meno probabili, atleti che lavorano nell’anonimato, lontano dai riflettori come eroi nascosti per poi, quando meno te l’aspetti, rubare la ribalta ai campioni più blasonati con un vero colpo di teatro.
Questa è la storia di un recordman. Ma non di un fenomeno affermato e osannato dal mondo intero, che può vantare contratti a cifre stratosferiche con top teams o sponsor di grido. E’ la storia di Kazuyoshi Miura, il recordman che non ti aspetti.

E’ di pochi giorni fa la notizia che Kazuyoshi Miura è diventato il più anziano giocatore ad aver giocato una partita di calcio professionistico. Il bomber giapponese, a 50 anni e sette giorni ha guidato l’attacco del Yokohama FC nell’incontro con il V-Varen Nagasaki, valido per la J-League 2, il secondo livello del campionato nipponico.
Un record incredibile, la cui portata si può comprendere se si pensa che, fino a quel giorno, apparteneva da ben 52 anni ad una pietra miliare del calcio mondiale come Stanley Matthews, il primo pallone d’oro della storia, il quale a 50 anni e 5 giorni giocò la sua ultima partita con la maglia dello Stoke City.

UNA VITA DA RECORD

Ma se la si guarda a ritroso, la storia di Miura ha un che di leggendario sin dall’inizio, quel qualcosa che la rende magica, aldilà del reale.
Kazu se ne va dal Giappone ancora giovanissimo, a 15 anni, spostandosi nel lontanissimo Brasile per cercare fortuna nel mondo del pallone. Una scelta sicuramente estrema, ma che ricalca alla perfezione le orme del campione che in quegli anni sta infiammando i sogni dei ragazzini del Sol Levante: Oliver Hutton di Holly e Benji.


Miura la stoffa ce l’ha. Viene ingaggiato dal Club Atletico Juventus di San Paolo dove si fa le ossa per 4 anni fino a passare al più blasonato Santos (sì, quello di Pelè e, più di recente, Neymar), cambiando però casacca ogni anno fino al 1990 quando, visto che la carriera non decolla nonostante la vittoria del campionato Paranaense del 1990 con il Coritiba, decide di tornare in patria, al Verdy Kawasaki di Tokio.


In Giappone la classe di Kazu è un lusso e le sue prestazioni stuzzicano vari club, tra cui il Genoa del Presidente Spinelli, che lo acquista nell’estate del 1994. Ecco il primo record di Miura: è il primo calciatore giapponese a giocare in Serie A, l’ariete che spiana la strada al mercato orientale in Italia che poi vedrò l’arrivo nel Belpaese dei vari Nakata, Morimoto, Nakamura, Nagatomo, Honda e soci.

E poco importa che la sua stagione sia da dimenticare: 21 presenze ed un solo gol, ma dal valore molto particolare, perché realizzato nel derby della Lanterna contro la Sampdoria (poi però vinto dai blucerchiati per 3-2). Nel suo piccolo, forse, un record anche questo.

Dopo questa parentesi italiana, Kazu torna in patria dove continua a fare le fortune dei propri compagni, concedendosi qualche gita fuori porta, prima alla Dinamo Zagabria e poi all’FC Sidney, lasciando però magri ricordi di sé.

LEGGENDA

In patria, invece, Miura è leggenda, sia al livello di club che di nazionale, di cui è il secondo miglior marcatore della storia con ben 55 reti in 89 partite e con cui ha vinto la Coppa d’Asia nel 1992 ma con il rimpianto di non aver mai partecipato ad un Mondiale. Ed ovviamente detiene un altro record: quello del marcatore più anziano nella storia del campionato giapponese, risultato raggiunto il 7 agosto 2016, quando segnò contro il Cerezo Osaka.

Viene da chiedersi quale sia il segreto di questo tranquillo cinquantenne che non ci pensa neanche a farsi da parte dopo ben 32 stagioni da professionista. Probabilmente la risposta è racchiusa nelle parole dello stesso Miura durante l’intervista di rito al superamento dell’ultimo record della sua incredibile vita:

“Sinceramente, non mi sento di aver battuto una leggenda. Avrò anche superato Matthews come longevità della carriera, ma non posso concorrere con lui, con i suoi numeri e il suo passato. Mi piace il calcio, e la mia passione non è cambiata. Non sono più giovane, faccio fatica fisicamente, ma sono ancora felicissimo se la mia squadra vince o se riesco a giocare bene. Finché mi divertirò, continuerò a giocare”.

Umiltà, passione e cultura del lavoro: la ricetta vincente.

Michele De Martin

Luci a San Siro di quella sera
che c’è di strano siamo stati tutti là,
ricordi il gioco dentro la nebbia?
Tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là.

Ha ispirato Roberto Vecchioni, di soprannomi ne ha avuti tanti così come di classe e di fantasia di quei calciatori che hanno corso sul suo manto erboso. San Siro, la “Scala del calcio” o il “Tempio del calcio”, simbolo dell’élite meneghina, di quel calcio condotto con fierezza da mecenati del pallone milanese che contendevano a Torino la corona della capitale “pallonara” d’Italia.
Metà casa del Milan, metà casa dell’Inter, San Siro, inaugurato il 19 settembre 1926 accanto all’ippodromo del troppo su volere dell’allora presidente del Milan, Piero Pirelli, ha una capienza di oltre 80mila spettatori. Un catino con i suoi vortici laterali venerato e osannato dagli appassionati sportivi.

Il 2 marzo 1980 lo stadio è stato intitolato a Giuseppe Meazza, eterno campione scomparso il 21 agosto dell’anno prima. L’occasione fu quella del derby, vinto per 1-0 dall’Inter con un gol di Lele Oriali al 77′. Un suggello che impreziosì l’annata neroazzurra conclusasi con la vittoria del 12esimo scudetto.

Senza troppo giri di parole Meazza è considerato tra i più grandi calciatori italiani di tutti i tempi: ha vinto due Mondiali (nel ’34 e nel ’38), per tre volte è stato capocannoniere del campionato di Serie A e ha vinto tre volte lo scudetto.
Era soprannominato “Balilla” perché, quando fu aggregato nella prima squadra dell’Ambrosiana Inter, a 16 anni, dall’allenatore Arpad Weisz, alla lettura della formazione titolare, Leopoldo Conti, tra i più anziani, sorpreso esclamò: «Adesso facciamo giocare anche i balilla!», ovvero i ragazzini.
Ma ben presto si intuirono le sue doti: in carriera ha segnato più di 250 gol tra Inter, Milan, Juventus, Varese e Atalanta, ma è con la Nazionale guidata da Vittorio Pozzo che è diventato davvero immortale.

 

Esordì non ancora ventenne, il 9 febbraio 1930 nel match tra Italia e Svezia finito 4-2 con due sue gol. Trascinatore nell’eroica vittoria per 5-0 a Budapest contro l’Ungheria, autentica forza del tempo, Giuseppe Meazza fu anche il leader che portò gli azzurri a vincere il primo Mondiale, quello del 1934 in casa.
La prima Coppa Rimet alzata al cielo. Quattro le reti in quella manifestazione: due contro la Grecia nei preliminari, una contro gli Stati Uniti negli ottavi e una nei quarti di finale, ripetuti, contro la Spagna.

Quattro anni dopo, Meazza, è ancora il condottiero azzurro: diverso il ruolo, centrocampista, ma con più responsabilità rappresentata dalla fascia di capitano al braccio. In semifinale, contro il Brasile, Meazza segnò l’ultima delle sue 33 reti realizzate con la maglia azzurra. Fu una rete decisiva (l’Italia si impose 2-1), ma anche tragicomica: a causa della rottura dell’elastico dei pantaloncini, tirò il rigore tenendoli con una mano.
Il suo record di gol sarà raggiunto dal solo Gigi Riva nel 1973 per un totale di 35 reti con la Nazionale.

A margine della Coppa d’Africa appena conclusa con la sorprendente vittoria dei Leoni Indomabili del Camerun al cospetto dei ben più quotati Faraoni capeggiati dal romanista Salah, si può certamente affermare che uno dei protagonisti della nazionale egiziana, pur sconfitta, sia stato il portiere Essam El-Hadary.

Il portiere, classe 73, alla veneranda età di 44 anni, proiettato alla titolarità “grazie” all’infortunio del collega El Shenawy, ha blindato la porta dei Faraoni per l’intero torneo – con tanto di doppio rigore parato nella lotteria decisiva in semifinale con il Burkina Faso – capitolando solo nella finale di Libreville al cospetto del miracoloso Camerun di Hugo Broos.
Ovviamente diventando il giocatore più anziano, con i suoi 44 anni e 21 giorni, a calcare il campo della massima manifestazione calcistica africana.

Ma quella di El-Hadary è solo l’ultima di una serie di storie sorprendenti, quasi magiche, tutte legate da una matrice comune, un filo sottile che le rende uniche ma inscindibilmente collegate: sono storie di eroi nascosti, giocatori che non rubano l’occhio allo spettatore, che non bucano lo schermo ma che, grazie ad una scintilla che viene da dentro, all’innata professionalità e voglia di arrivare, riescono a raggiungere con i loro guantoni risultati impensabili.

 

GABOR KIRALY

Senza andare troppo lontano nel tempo, merita una citazione Gabor Kiraly. Il portierone, classe ’76, vanta un’onesta carriera in squadre di seconda fascia in Germania, tra Bundesliga (7 anni nell’Hertha Berlino) e Zweite Liga (5 anni nel Monaco 1860) e nelle serie minori inglesi (in Championship tra Crystal Palace e Burnley) senza mai riuscire a fare il definitivo salto nei top teams fino a tornare in patria per chiudere la carriera nella squadra – l’Haladas – che lo lanciò nel lontano 1993.

Tipo stravagante, il magiaro si è guadagnato qualche copertina nel corso degli anni più per il suo particolare look in campo, dove da sempre si presenta con dei discutibili pantaloni della tuta grigi, al posto dei consueti pantaloncini d’ordinanza. La storia narra che Király fosse solito indossare, ai tempi dei suoi esordi in prima squadra nell’Haladas, un pantalone nero imbottito, per attutire i colpi sui campi in fango, pietre e terra che popolavano l’Ungheria di fine anni ’80 e inizio anni ’90.
Un giorno, però, sua madre lava la divisa, ma non fa a tempo ad asciugarla, e quindi Gábor deve scendere in campo con una tuta grigia, diversa dal solito. Ecco come nascono le leggende: con quella tuta grigia fa un’ottima partita, poi un’altra e un’altra ancora. Da quel momento il pantalone grigio diventa il suo portafortuna.

Ma la storia di questo onesto mestierante del pallone ha qualcos’altro di speciale: grazie alla sua affidabilità e alla voglia di continuare a mettersi in gioco, Kiraly viene convocato per gli Europei 2016 in Francia, dove gioca titolare a 40 anni compiuti, diventando il giocatore più vecchio ad aver mai disputato una gara nella fase finale di un campionato Europeo di calcio, prima di dire addio alla Nazionale dopo ben 107 gettoni di presenza.

 

 

FARYD MONDRAGON

E chi si ricorda di Faryd Mondragòn? Il portiere di Cali, classe ’71, sguardo fiero e fisico statuario, sin da giovane si presentava come prospetto di sicuro avvenire, seguendo le orme di Renè Higuita, ed entrando a far parte, a 23 anni, della fortissima (ma sciagurata) selezione colombiana di Maturana ad USA ’94.

Tuttavia, la carriera di Faryd non esplode come da premesse e, dopo le prime non indimenticabili esperienze europee al Saragozza e al Metz, ha un sussulto solo a 30 anni suonati, quando, nel 2001, viene ingaggiato dal Galatasaray.
Nella squadra di Istanbul è titolare inamovibile e diventa una bandiera del club fino al 2007, calcando il palcoscenico della Champions League e vincendo 2 campionati e una coppa nazionale e sfiora anche l’approdo in Italia, quando nell’estate del 2005, il Palermo tenta l’assalto al colombiano, ma i tentennamenti del Galatasaray e l’età considerata “avanzata” (ha già 34 anni) da qualche dirigente rosanero alla fine fanno saltare l’operazione.

Fin qui nulla di trascendentale. E allora perché parlarne? Semplice, perché, anche dopo l’uscita dal calcio di prima fascia, la scintilla non si spegne, “El Turco” non molla, continua ad allenarsi duro e a dare le garanzie necessarie per mantenersi nel giro della Nazionale.
E la sua costanza viene premiata. Convocato per i Mondiali del 2014, Mondragòn, subentrando ad Ospina all’85’ nella partita Giappone-Colombia, diventa, all’età di 43 anni e 3 giorni, il giocatore più anziano ad aver giocato una fase finale di un Mondiale, sverniciando il precedente record che apparteneva non ad un carneade, ma al simbolo del calcio africano Roger Milla, che ad USA ’94 (sì, proprio il Mondiale d’esordio di Faryd) scese in campo a 42 anni e 39 giorni.

Michele De Martin

Di inglese, ormai, le è rimasto poco: oltre al suo cognome, in più di un’intervista ha detto che il richiamo al suo Paese d’origine riaffiora quando deve esternare i sentimenti e quando parla sempre in maniera schietta e diretta. Fiona May ha scritto e regalato emozionanti pagine di sport all’Italia, soprattutto nell’atletica leggera, disciplina dove, escludendo qualche picco isolato, si fa ancora fatica a tracciare una continuità.
La sua vita, la sua passione per il salto in lungo e le medaglie appese al collo sono tutte sotto la bandiera verde, bianco e rossa. Fiona, nata Slough il 12 dicembre 1969, nonostante il ritiro dall’attività agonistica è ancora oggi l’unica atleta italiana a esser salita più volte sul podio ai campionato del Mondo di atletica leggera.

E’ il salto in lungo, come detto, la specialità che le ha portato 15 medaglie internazionali: le prime tre con la maglia della Nazionale inglese (oro agli Europei juniores ’87, oro ai Mondiali juniores ’88 e argento alle Universiadi di Sheffield nel 1991), le restanti con la maglia azzurra, l’ultimo nel 2005 con l’oro ai giochi del Mediterraneo ad Almeria.
Quattro medaglie conquistate in altrettanti Mondiali outdoor, ma anche un oro nel Mondiale indoor a Parigi nel 1997, una medaglia che bisserà l’anno dopo agli Europei indoor a Valencia. Gloria anche nelle Olimpiadi: due preziosi argenti conquistanti ad Atlanta 1996 e a Sidney 2000.

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Detiene, inoltre, il record italiano del salto in lungo che, nel corso della carriera ha migliorato per altre sette volte, arrivando a 7,11 metri che, negli Europei di Budapest ne 1998, valsero la medaglia d’argento. La sfida più ardua della sua carriera:

In pedana c’erano davvero tutte le migliori, la tensione si tagliava a fette, un problema concentrarsi e rendere al massimo delle proprie potenzialità. Quando feci 7,11 pensai di aver vinto; poi saltò la Drechsler e arrivò a 7,16. Aveva 35 anni, Heike: che grandissima atleta

Nata nel Regno Unito da genitori giamaicani, Fiona May è diventata cittadina italiana per naturalizzazione dopo il matrimonio con l’atleta Gianni Iapichino, avvenuto nel 1994. L’esordio nella nazionale azzurra risale allo stesso anno agli Europei di Helsinki, dove conquistò la medaglia di bronzo.
Un anno dopo, ai Mondiali di Göteborg nel 1995, ecco la sua prima grande gioia personale: l’oro ottenuto con un salto di 6,98 metri, utile per distanziare la cubana Niurka Montalvo con 6,86 metri, e la russa Irina Mushailova con 6,83. Alta, snella e armoniosa con gambe lunghissime e robuste, le mani sui fianchi e lo sguardo scalfito sul viso mentre trova la concentrazione osservando la pedana: in quel momento l’Italia scopre una nuova beniamina.

E la coccola tanto da spingerla a non mollare e a ritrovare le forze per andare avanti nonostante le delusioni del Mondiale del 1999 a Siviglia (argento):

Dopo quel Mondiale volevo smettere e non l’ho fatto solo per tutte le lettere di incoraggiamento che ho ricevuto

Non demorde e si presenta nel 2001 ai Mondiali di Edmonton, in Canada, dopo una stagione travagliata con numeri al di sotto dei suoi standard. Ma alla fine, a esultare, è ancora lei: gradino più alto del podio con 7,02 metri, seguita dalla russa Tatyana Kotova, un centimetro appena sotto, e da Niurka Montalvo con 6,88 metri.

Dalla relazione con Gianni Iapichino sono nate due bambine: Larissa nel 2002 e Anastasia nel 2009. Proprio Larissa, nei mesi scorsi, ha conquistato il titolo cadetti, a soli 14 anni, nei 300 metri ostacoli ai campionati italiani di Cles, in Trentino Alto Adige. Le prospettive ci sono tutte: che dire…quando il talento è in famiglia.

Ancora non ci credo…campionessa italiana nei 300 ostacoli!!???‍♀️?⚪️?? ph. consigliata da: @giada.de.martino ?

Una foto pubblicata da Larissa Iapichino? (@larissaiapichino) in data:

Lo abbiamo lasciato piegato in due su se stesso, con il fraterno abbraccio di Luis Suarez a consolare chi, nella sua lunga, tenace e sempre controcorrente carriera, si è ritrovato a lottare contro nemici più grandi di lui. Capitano del Liverpool, capitano dell’Inghilterra in un’era del football dal forte sapore amarognolo, dal grande potenziale smarrito per strada. Una condanna eterna, per chi nell’eternità ci entra a colpi di tackle, sassate da fuori area e inserimenti puntuali. Geometra e scassinatore, progressista del centrocampo moderno. Steven Gerrard, annunciando il suo ritiro dal calcio giocato ha detto:

Ho avuto una carriera incredibile e sono grato per ogni momento della mia carriera a Liverpool, con l’Inghilterra e nei Los Angeles Galaxy. Mi sento fortunato ad aver vissuto così tanti momenti meravigliosi nel corso della mia carriera

Se con il Liverpool la gioia più grande l’ha provata nella notte pirotecnica di Istanbul con la vittoria della Champions League ai danni del Milan, in Nazionale le cose sono andate diversamente. Drammaticamente. Dalla felicità del suo esordio, il 31 maggio 2000, a 20 anni compiuti da un giorno, alla prima acerba delusione per il Mondiale del 2002 saltato per un infortunio, fino ai ripetuti ceffoni presi nelle edizioni successive. Dodici partite in tutto, da Germania 2006 a Brasile 2014. Lui ha provato a invertire un destino nefasto, un peccato originale che la Nazionale inglese si trascina da mezzo secolo. Ecco alcune istantanee che immortalano gli alti e i bassi di Gerrard nelle sue esperienze mondiali:

10 giugno 2006 – L’esordio in un Mondiale con la maglia dell’Inghilterra

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E’ il primo Mondiale per Steven Gerrard, gara d’esordio nel Girone B contro il Paraguay e lo inizia alla sua maniera. Tanta intensità a centrocampo, derviscio trita palloni ed entrate decise a tenaglia contro gli avversari sudamericani (vedere qui). Mentre Lampard, accanto a lui nella mediana di centrocampo, mantiene una certa compostezza mista a brillantina in testa e pensa principalmente ad avanzare e a cercare la rete, Stevie, fastidioso, si sporca sin da subito i calzettoni bianchi beccandosi un’ammonizione dopo appena 19’. Come diceva Brera, nella mente del numero 4 c’era solo da menare il torrone;

15 giugno 2006 – Il primo gol al Mondiale

English midfielder Steven Gerrard (L) sh

Va bene essere sporchi e cattivi, ma Gerrard, colui che ha anticipato i tempi incarnando il ruolo del centrocampista fosforo&tacchetti, doveva lasciare il suo timbro personale – non sui parastinchi degli avversari – al Mondiale in Germania. Contro Trinidad&Tobago, in un match viscoso sbloccato solo sul finale da Peter Crouch, il ragazzo del Liverpool chiude i giochi al 91’ con un bel tiro di sinistro piazzato all’angolino alto, dopo una bella finta a rientrare da fuori area;

20 giugno 2006 – Usa la testa Stevie!

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La Nazionale dei Tre Leoni, che ha raccolto più punti che bel gioco, si fa travolgere dagli assalti della Svezia. Il gol spettacolare di Joe Cole non cambia la storia dell’incontro, fino all’ingresso di Gerrard. Entrato al 70’, quando l’1-1 sembrava andar più che bene all’Inghilterra e strettissimo agli svedesi, dopo 16 minuti, il centrocampista riceve in area un cioccolatino morbido del solito Joe Cole e dolcemente, ma con giustezza infila Isaksson di testa. L’incontro termina comunque 2-2 e l’Inghilterra di Sven-Göran Eriksson accede agli ottavi contro l’Ecuador;

1° luglio 2006 – Non è da questi particolare che si giudica un giocatore

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Rigori, dannati rigori. Contro il Portogallo, l’Inghilterra crea tante occasioni quante ne ha avute in tutti i match precedenti della fase a gironi, nonostante l’inferiorità numerica per l’espulsione scellerata di Rooney al 62’. Non bastano 120 minuti: Ricardo e la difesa portoghese alzano le barricate e, in queste circostanze (Gerrard lo sa bene pensando a Milanliverpooltreatre), chi l’ha giocata meglio alla fine cade nel tranello della tensione, della paura. Dagli 11 metri sbaglia subito Lampard, la rimette in piedi Hargreaves, poi crollo definito proprio di Stevie G. e del suo fido alleato in zona Merseyside, Jamie Carragher. Quattro rigori, tre errori, auf Wiedersehen Mondiale;

12 giugno 2010 – Con la fascia di capitano al braccio

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Dopo la clamorosa mancata qualificazione agli Europei del 2008, l’Inghilterra si presenta al Mondiale del 2010 con Fabio Capello in panchina e Steven Gerrard a guidare una Nazione con la fascia di capitano al braccio. E’ un tentativo di rinascita dopo la fallimentare gestione di McLaren, lo scandalo che coinvolse la vita privata di Terry, capitano fino a quel momento. Nei piani di Capello, in realtà, la fascia sarebbe spettata a Rio Ferdinand, ma un infortunio gli fece saltare quell’edizione dei Mondiali. Gerrard, in questa tormenta, è sempre lì: nel match d’esordio contro gli Stati Uniti è proprio lui a segnare la prima rete dell’Inghilterra. Classico inserimento che lo hanno reso giocatore moderno e poliedrico. L’incontro finirà 1-1;

27 giugno 2010 – La disfatta tedesca

Le istantanee che hanno fatto la storia di questo incontro e del calcio moderno sono due: il frame che immortala il gol di Lampard non convalidato, nonostante la palla avesse superato di netto la linea e la successiva disperazione del centrocampista del Chelsea. Quello in Sudafrica è stato un Mondiale sciapo per l’Inghilterra: dopo il pareggio all’esordio, segue uno spento 0-0 contro l’Algeria e una vittoria risicata contro la Slovenia. Contro la Germania è notte fonda: finisce 4-1, con la beffa di una possibile rimonta strozzata da un gol non visto (poteva essere il possibile 2-2). Unico sussulto parte dal solito piede di Gerrard che scodella in mezzo il cross per il 2-1 momentaneo realizzato dal difensore Upson. Solo tre reti per i Tre Leoni a questo giro: il capitano del Liverpool, magra soddisfazione per un Mondiale condotto da capitano, partecipa attivamente in due di queste;

19 giugno 2014 – La fine di un’era sbagliata: sconfitta contro l’Uruguay e titoli di coda

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Un lento declino che trova nel Mondiale del 2014 in Brasile la mazzata finale. Lo scetticismo che c’è attorno a Roy Hodgson trova conferme sul campo: Gerrard è ancora il capitano di una Nazionale che prova a ridisegnarsi con Sturridge, Sterling e Wellbeck su tutti, ma che si affida ancora alla Golden Generation di Lampard, Rooney e Gerrard appunto. Ma le cose vanno male. L’Italia sconfigge l’Inghilterra all’esordio per 2-1, il girone D è anomalo con Uruguay e Costa Rica a dettare legge, l’Inghilterra annaspa e crolla proprio nel secondo incontro, contro Suarez&co.
E’ la cartolina di addio, poche parole scritte frettolosamente per dimenticare al più presto. E’ Suarez che abbraccia e consola Gerrard a fine incontro, due amici, due che hanno provato a scrivere un pezzo di storia a Liverpool. Ed è un peccato che sia stato proprio il centrocampista col numero 4 sulle spalle a spizzare la sfera di testa consegnandola al letale attaccante per il gol del 2-1. La Nazionale della Regina è già fuori, per Gerrard è l’ultima partita con la fascia da capitano: nell’ultimo, inutile, match contro il Costa Rica, entra, infatti, a partita in corso.

Dopo 14 anni, 114 presenze, 21 gol, tra gioie, lacrime e delusioni, tra contrasti, calzettoni sporchi e tagliati e la carica di un condottiero che si è perso tra primedonne, quella volta chiuse con la Nazionale. Questa volta è davvero finita. Stevie, it’s over.

Sarà un derby speciale, il prossimo Milan–Inter, anzi sarà un derby mondiale: le stime parlano di 643.165.764 persone che seguiranno la partita in tv da ogni parte del pianeta. Ma non solo: anche la tribuna stampa di San Siro sarà composita con 250 giornalisti accreditati pronti a scommettere su chi sarà più decisivo tra Donnarumma o Icardi, tra Niang o Handanovic.
E’ il derby, dunque, anche dei giovani, delle possibili sorprese per alcuni o della prova di maturità per altri; di chi, insomma, potrebbe ritagliarsi uno spazio importante durante i prossimi Mondiali del 2018 in Russia. E proviamo a immaginare, pescando dalle rose di Milan e Inter, l’11 migliore in prospettiva. Il modulo è il 3-4-3.

Portiere

Gigio Donnarumma: nel 2018, il giovane talentuoso portiere del Milan avrà 19 anni. Anche se Buffon dimostra ancora di essere una garanzia tra i pali e vero leader nello spogliatoio, il ragazzotto è il futuro della Nazionale italiana e, se diamo per sicura la sua convocazione in Russia, è auspicabile anche un suo impiego;

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Difesa

Jeison Murillo: anche se la sua Colombia ha perso 3-0 nell’ultima sfida contro l’Argentina ed è momentaneamente a due punti dal quarto posto che significa qualificazione matematica per Russia 2018, il difensore dell’Inter, classe 1992, è una certezza nelle retrovie della Nazionale sudamericana;

Alessio Romagnoli: da acquisto troppo costoso per il suo reale valore (il Milan l’ha preso dalla Roma a 25 milioni) a incrociare le dita (e relativi scongiuri dall’altra sponda di Milano) per vederlo in campo nel derby. Ha il numero 13, come quello di Alessandro Nesta, non da poco. In Nazione ha esordito lo scorso 6 ottobre 2016, a 21 anni, giocando titolare nella partita pareggiata 1-1 contro la Spagna. Il Milan e Ventura possono sorridere: il ragazzo si farà;

Miranda: a suo modo, può essere una sorpresa. Il centrale brasiliano dell’Inter non è più tanto giovane (nel 2018 avrà 34 anni), ma è stato in grado di conquistare il posto nella difesa del Brasile, spodestando Thiago Silva e David Luiz. Ma il difensore esploso nel San Paolo e portato in Europa dall’Atletico Madrid, è una garanzia: con lui in campo, la Nazionale carioca, ha perso solo contro il Cile nell’ottobre 2015; poi tre pareggi e otto vittorie;

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Centrocampo

Manuel Locatelli: il The Guardian l’ha inserito nella lista dei migliori cinquanta calciatori nati nel 1998. Le premesse ci sono tutte. Il ragazzo di 18 anni ha segnato il suo primo gol in Serie A con un bel gol da fuori area, nella partita vinta per 4-3 contro il Sassuolo, dopo essere subentrato a Montolivo. Qualche settimana dopo ha castigato anche la Juventus nella vittoria per 1-0. Personalità e piedi buoni per il centrocampista. Al momento è stato convocato dal ct Di Biagio dell’Under-21, ma una coppia Verratti-Locatelli sarebbe affascinante, non trovate?

João Mário: all’Inter, società e tifosi, aspettano di vedere il reale potenziale del portoghese, acquistato quest’estate dallo Sporting Lisbona e tra i protagonisti del trionfo del Portogallo nell’Europeo francese. In patria ha fatto vedere ottime cose in qualità di mediano, in Serie A, complice il disastroso inizio di stagione dei neroazzurri, ha avuto difficoltà a caricarsi sulle spalle le responsabilità del controcampo. A 23 anni c’è tempo ancora per crescere e diventare leader anche della sua Nazionale;

Suso: è maturato nel Genoa, succursale per certi versi del Milan. Da possibile meteora rossonera, da quando Montella siede sulla panchina, il fantasista spagnolo sta diventando sempre più prezioso e pedina insostituibile. Fosforo e piedi buoni per il 23enne di Cadice che in Serie A sta dimostrando personalità. Sarà, però, sufficiente per trovare una maglia nella Spagna dove il tasso tecnico è estremamente elevato? Intanto il ct Lopetegui, nell’ultimo giro di partite l’ha inserito nella lista dei pre-convocati. Anche se nel suo ruolo c’è Isco, Lopetegui conosce molto bene Suso, avendolo già convocato negli anni scorsi con le nazionali giovanili, Under-19 e Under-21. Bisogna crederci;

Marcelo Brozović: la sua Croazia ha un girone di qualificazione molto abbordabile. Il primo posto in classifica e una buona chance di arrivare in Russia è, dunque, abbastanza possibile. La sua è stata un’estate travagliata, tra voci di calciomercato e difficoltà nel trovare continuità tra i vari allenatori, ma il centrocampista 24enne dell’Inter, cresciuto tantissimo dal suo arrivo in Italia nel gennaio 2015, è il giocatore di maggior spessore e tecnica tra le pedine a disposizione di Pioli. E’ stato convocato per i Mondiali 2014 senza aver mai vestito la maglia della Nazionale maggiore in precedenza;

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ATTACCO

Gabriel Barbosa, Gabigol: troppi punti interrogativi aleggiano attorno a lui e alla sua esperienza interista. Il 20enne brasiliano, messosi in luce nell’ultima Olimpiade a Rio, dove ha vinto la medaglia d’oro con la Nazionale brasiliana, è stato l’acquisto di punta della scorsa estate. Quasi 30 milioni di euro, uno spot di presentazione sfarzoso, qualche minuto giocato con il Bologna e nulla più. Con il 2016 ormai al termine, può essere il 2017 il suo anno? Inter e Brasile ci sperano;

Gianluca Lapadula: la sua è una nomina romantica per caparbietà e determinazione che caratterizzano l’attaccante di Torino che ha fatto bene nel Teramo prima di esplodere al Pescara. Nel maggio del 2016 ha rifiutato la proposta della Nazionale peruviana di prendere parte alla Copa América perché, in cuor suo, ha sperato in una convocazione italiana. Arriva, infatti, nello scorso match, dopo il forfait di Manolo Gabbiadini, viene convocato da Ventura per la sfida contro il Liechtenstein e l’amichevole contro la Germania;

Mauro Icardi: tra Higuain, Aguero, Messi, Dybala e Di Maria, gli spazi, in attacco, sembrano serrati. L’Argentina, che sta arrancando nel girone di qualificazione, in avanti può vantare tra i migliori bomber nel panorama calcistico mondiale. L’attaccante dell’Inter che, a 23 anni, stringe al braccio la fascia di capitano, sul campo dimostra di essere predatore d’area, come pochi. I guai, però, sono tutti fuori dal terreno di gioco. Nell’Albiceleste, tra i grandi, non ha ancora debuttato; Maradona e Messi sono contrari: riuscirà a dimostrare tranquillità e maturità per ottenere la fiducia del ct Bauza?

Ecco la formazione al completo: Donnarumma – Miranda, Romagnoli, Murillo – Suso, João Mário, Locatelli, Brozović – Gabigol, Lapadula, Icardi.

Yanik Frick ha fatto il suo esordio nel Liechtenstein, in Nazionale maggiore, lo scorso sei ottobre nella partita, persa 2-0, contro l’Albania valevole per le qualificazioni ai Mondiali in Russia nel 2018. Mezz’ora in campo seguiti da un quarto d’ora, qualche giorno dopo, nel match contro Israele. Diciotto anni di belle promesse e un fardello grande da portare: essere il figlio di un’autentica icona nel proprio Paese.
Mario Frick, 22 anni in Nazionale, 125 presenze e 16 gol, è ancora oggi il calciatore con più presenze nella storia della Nazionale del piccolo Principato. Da attaccante ad attaccante, un’eredità non indifferente anche se papà Mario, uno che ha deciso di ritirarsi a oltre 40 anni, nelle ultime partite ha deciso di riciclarsi come difensore centrale. Stesso numero di maglia, la 10, ma lontano diversi metri da quell’area di rigore che l’ha visto protagonista anche in Italia. E’ questo che rende Mario Frick un idolo in patria e, perché no, beniamino anche da noi.

“La vie c’est fanstastique quando segna Mario Frick” era il coro che i tifosi intonavano quando l’attaccante d’oltralpe segnava. Dal 2000 in Italia, dopo il passaggio in Svizzera tra Basilea e Zurigo, approda all’Arezzo, poi col Verona Serie A, prima di scendere in Serie B con la Ternana e ritornare tra i grandi con la maglia del Siena. Il giocatore classe 1974 ha chiuso la carriera dove l’ha iniziata, nel FC Balzers, squadra del suo Paese.
Quando era a Siena ha portato suo figlio a giocare nelle giovanili della squadra toscana, ma Yanik ora gioca nella seconda squadra della formazione austriaca del Rheindorf Altach.
Da un Frick a un altro, a un anno di distanza: dal ritiro di Mario il 12 ottobre 2015, all’esordio nel 2016 del figlio. Una dinastia destinata a regnare, sperano nel piccolo Principato, ancora per molti lustri.

La gioia più grande, l’immensa felicità di due atleti stilizzati che, con le braccia rivolte al cielo, sollevano il mondo, lo tengono stretto, simbolo del trionfo e della vittoria sportiva. Chi ama il calcio, il trofeo della Coppa del Mondo lo conosce bene, amato, sognato e anche visto sfuggire per un calcio di rigore finito alto o per un gol nei tempi supplementari. Noi l’abbiamo visto luccicante e splendente nelle mani sicure di Dino Zoff nel Mondiale di Spagna 1982 e di Fabio Cannavaro in Germania 2006; il tedesco Philipp Lahm l’ha sollevato l’ultima volta nel 2014, così come il suo connazionale, Franz Beckenbauer ha avuto il privilegio di mostrarla al globo intero, per la prima volta, 40 anni prima.

Ogni appassionato di calcio si è sentito istintivamente figlio di colui che con le sue mani e con il suo ingegno l’aveva immaginata, disegnata e, infine, realizzata. Silvio Gazzaniga, il “padre” della Coppa del Mondo, si è spento, ieri 31 ottobre 2016, all’età di 95 anni. Scultore e orafo milanese, Gazzaniga è nato e cresciuto artisticamente a Milano, formando il suo talento artistico, come scultore, durante il periodo delle avanguardie degli anni Quaranta.
Ma è il 1970 l’anno che lo consegna alla storia: dopo la terza vittoria della Coppa Rimet da parte del Brasile, nel Mondiale disputato lo stesso anno in Messico, come da regolamento, il trofeo venne consegnato definitivamente nella bacheca verdeoro. Così la Fifa bandì un concorso internazionale per ideare una nuova coppa e, davanti agli occhi della giuria, si presentarono 53 proposte. E’ la bozza di Gazzaniga ad ammaliare maggiormente la giuria perché oltre al disegno classico, per poter far apprezzare le forme morbide e dinamiche della sua invenzione, lo scultore decise di preparare un modello in plastilina. La sua bellezza scultorea, così, convinse definitivamente la Fifa.

Attraverso le mani dello scultore sono stati plasmati anche altri trofei sportivi come la Coppa Uefa o la Supercoppa Europea e, in occasione dei 150 dell’Unità d’Italia, dopo ottant’anni di carriera, Gazzaniga ha realizzato i trofei celebrativi della Coppa Italia, del 108° Giro d’Italia e del Gran Premio d’Italia di Formula 1. Sulla sua creazione più bella e più celebre, la Coppa del Mondo, Gazzaniga ha detto:

Volevo ottenere una rappresentazione plastica dello sforzo che potesse esprimere simultaneamente l’armonia, la sobrietà e la pace. La figura doveva essere lineare e dinamica per attirare l’attenzione sul protagonista, cioè sul calciatore, un uomo trasformato in gigante dalla vittoria, senza tuttavia avere niente di super-umano. Questo eroe sportivo avrebbe riunito in se stesso tutti gli sforzi e i sacrifici richiesti giorno per giorno ai suoi fratelli e avrebbe incarnato il carattere universale dello sport come impegno e liberazione, stringendo il mondo tra le sue braccia