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Il Napoli di Maradona e Careca si sta giocando lo scudetto contro il Milan degli olandesi. E’ la trentesima giornata di campionato, ne mancano quattro alla fine. Classifica: Milan 44, Napoli 43. I rossoneri di Sacchi sono impegnati a Bologna in una sfida tutta a zona contro i rossoblù di Maifredi. Gli azzurri di Bigon vanno a Bergamo. Entrambe le partite sono tirate e nervose, lo 0-0 non si schioda. E’ l’8 aprile 1990, è Atalanta contro Napoli, passato alla storia come la monetina di Alemao.

Al “Dall’Ara”, con Lucio Dalla in tribuna, la difesa milanista combina un pasticcio con Filippo Galli e il portiere Andrea Pazzagli. Mancano pochi minuti al 90’. La palla tirata da Marronaro sembra entrata in porta. Ma la Var e la Goal Line Technology sono ancora lontanissime e l’arbitro Tullio Lanese non convalida la rete. Il guardalinee è Marcello Nicchi. Maifredi guarda le immagini nel pullman della Rai nel post partita con Giampero Galeazzi. Berlusconi preferisce non commentare, la gara finisce 0-0.

A Bergamo il risultato è il medesimo. Al 75’ piovono oggetti dagli spalti, il centrocampista partenopeo brasiliano Alemao viene colpito in testa da una monetina, sembra una 100 lire (dal peso di 8 grammi). Salvatore Carmando, massaggiatore azzurro, si precipita in campo per soccorrere il giocatore. Le telecamere inquadrano la scena e intercettano l’audio, inequivocabile, rivolto ad Alemao. “Buttati, buttati a terra”. In quegli anni, per casi del genere, lo 0-2 a tavolino era scontato e Carmando lo sa. Il numero 5 napoletano esce dal campo e viene sostituito da Zola. La partita termina 0-0, il Napoli fa ricorso e lo vince. Il Milan incarica, invano, esperti di labiali per intuire le parole dette dal massaggiatore.

I due punti della vittoria finiscono a Maradona e compagni che agguantano in classifica i rossoneri. Si dirà che la federazione ha voluto risarcire la società di Ferlaino per il gol fantasma di Bologna. Lo scudetto sarà azzurro tre settimane dopo, complice la sconfitta del Milan a Verona per 2-1. Ma quel campionato dei miliardi fu deciso da una semplice monetina da 100 lire.

 

Massimo Ranieri si appresta a vincere la trentottesima edizione del festival di Sanremo con “Perdere l’amore”, l’Italia rimane incollata alla tv per quello che è l’ultimo prestigioso eco della canzone nazionale, ma qualche istante prima i riflettori e il palcoscenico, seppur idealmente, sono per un ragazzotto di San Lazzaro di Savena di appena 22 anni.
Uno che è stato in grado di interrompere e deviare momentaneamente il rigido e ingessato festival della musica italiana con le sue regole ed etichette…lui che è uno sciatore. Non un calciatore, non appartenente a uno sport, diciamo, più nazionalpopolare.
Alberto Tomba irrompe nella serata finale del festival: un collegamento in diretta con l’innevato Canada per le Olimpiadi di Calgary del 1988, dove il bolognese è al cancelletto di partenza per la seconda manche dello slalom speciale.

Alberto Tomba, “la Bomba”, è riuscito a coinvolgere spontaneamente milioni di italiani, con il suo carisma, il suo fare fuori dalle regole, istrionico ed estroverso, il suo essere campione e anche personaggio che lo sport italiano ha conosciuto poche altre volte. Uno dei primi fenomeni mediatici che ha fatto innamorare la stampa italiana, l’unico a polarizzare l’attenzione degli spettatori al di fuori dei confini strettamente sportivi e a sfidare, con ironia, un idolo internazionalmente riconosciuto:

Maradona è venuto in Italia e tanti si inginocchiano davanti a lui. Fanatici nel calcio ce ne sono più che nello sci. No, non lo invidio, mi sta bene così. Ma lo voglio sfidare perché al calcio non sono male, voglio vedere lui sugli sci… Ecco, Maradona ti sfido” (Gazzetta dello Sport – 31 dicembre 1988)

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Dall’orchestra al pubblico esigente del teatro Ariston, dai cantanti ai conduttori Miguel Bosé e Gabriella Carlucci, passando per i tanti ospiti internazionali che sono saliti sul palco nei quattro giorni di spettacolo come Paul McCartney, Joe Cocker, Bon Jovi o Paul Anka, l’unica esibizione che volevano vedere era quella di Alberto Tomba che, due giorni prima, aveva conquistato l’oro nel gigante alla sua prima partecipazione a dei Giochi olimpici invernali.

In silenzio e in trepidazione, tutti osservano la sua prova: Tomba parte, famelico, aggredendo la pista con il suo stile unico. Segna, alla fine della prova, il tempo ottimo di 1:39,47, guida la classifica provvisoria, ma bisogna ancora aspettare il tedesco Wörndl. Va, arriva al traguardo e il cronometro segna 1: 39,53. Sei centesimi di differenza, sei centesimi per consegnare la seconda medaglia d’oro al collo dell’italiano Tomba. Sono ben 20 milioni, gli italiani che incollati davanti allo schermo, quella sera durante il festival. Alla fine della performance, il primo ad alzarsi dal pubblico è Aldo Biscardi, conduttore del celebre “Processo”.

Saranno in totale in carriera, cinque medaglie olimpiche (tre d’oro), quattro trofei mondiali (due ori), una Coppa del mondo nel 1995 e otto di specialità tra quattro di slalom e quattro di gigante, per un totale di 88 podi in Coppa del mondo e 50 vittorie.

A fine 1988, quando l’Italia e il mondo scoprono il talento di un giovane ragazzo romagnolo destinato a entrare nella leggenda, Alberto non si rende conto di quello che ha fatto, anzi, desideroso di diventare il migliore, confessò di avere un sogno che, rileggendolo oggi, lui, personaggio carismatico, mediatico e dello show, suona quanto mai appropriato:

Diventare il più grande del mondo. Riuscire a conquistare talmente tanto, che la gente che per ora non mi conosce tanto, potrebbe riconoscermi dappertutto anche vestito in borghese. Essere noto come il Papa, Reagan, Gorbachov o Stallone. No ma forse Stallone in Africa non lo conoscono…”

 

(Gazzetta dello Sport – 31 dicembre 1988)

“Hijo del viento”, figlio del vento è il soprannome – uno dei tanti fantasiosi e romantici che nascono da quelle terre – che in Argentina gli avevano affibbiato perché la leggenda vuole che fosse capace di correre i 100 metri in 11 secondi. Prima di essere calciatore, Claudio Paul Caniggia, infatti aveva la passione per l’atletica: 100, 200, 400 metri e salto in lungo le sue specialità.

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Nasce a Henderson il 9 gennaio 1967 e, strano dirsi per un argentino, cresce con il mito di Garrincha. Icona del calcio degli anni Novanta per la sua chioma ossigenata da frontman di una band rock, quei suoi capelli biondi ce li ricordiamo tutti in una sera d’estate per la zuccata di testa che trafisse Zenga e la Nazionale italiana durante le semifinali del Mondiale di Italia ’90.

Ala argentina dal talento innato, Caniggia esordisce il 10 giugno 1987, a 20 anni, con la maglia dell’Argentina proprio contro l’Italia perdendo 3-1. E’, ovviamente, l’Albiceleste di Maradona, ancora campione iridata in carica per la Coppa del mondo messicana. Si afferma in Serie A, disputa 121 partite e segna 33 reti tra Verona, Atalanta e Roma.

Partecipa, come detto, ai Mondiali del 1990 e quelli del 1994; avrebbe potuto giocare anche quelli del 1998 se solo non si fosse scontrato con il ct Passarella. Il motivo? Proprio i capelli. Come riporta un articolo della Repubblica datato 1994:

Claudio Caniggia potrà tornare a giocare nell’ Argentina solo se si taglierà i capelli. E’ una nuova iniziativa del ct Daniel Passarella, che intende, con questi sistemi da servizio militare, riportare la disciplina nella nazionale: il diktat sui capelli segue all’ obbligo dell’ esame rinoscopico per i convocati, allo scopo di scoprire chi usa cocaina. Intanto Caniggia ha già fatto sapere che non intende assolutamente tagliarsi i capelli, diversamente da Batistuta, che ha già annunciato il sacrificio. “Passarella esagera” ha dichiarato l’ex romanista.

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E andò proprio così. Claudio Caniggia non fu convocato, ma non chiuse definitivamente con la Nazionale argentina: la sua ultima partita fu quattro anni dopo, nel febbraio 2002, contro il Galles. Allenatore era Marcelo Bielsa, finì 1-1 e il “figlio del vento” giocò per tutti i 90 minuti. In totale furono 49 partite con la maglia argentina con 16 gol.

Il 4 giugno 1994, venticinque anni fa, si spegneva a Roma Massimo Troisi, uno dei più grandi attori italiani, sulla scia della migliore tradizione napoletana da Totò a Eduardo. Di Troisi, maschera formidabile con inventò una sorta di grammelot partenopeo, tanto si è scritto e tanto ancora si celebrerà. Uno dei suoi aspetti caratteristici era il suo amore per Napoli e il Napoli. L’attore, infatti, fu uno dei protagonisti di quel mondo dello spettacolo che celebrò i primi due (e unici finora) scudetti azzurri tra il 1987 e il 1990. Erano gli anni della serie A più competitiva di sempre, con Maradona, Platini e Van Basten. La seconda metà di un decennio d’oro del calcio italiano in cui Napoli e Milan davano spettacolo in Italia e in Europa.

Troisi e lo scudetto del Napoli

Pochi giorni dopo aver vinto il primo tricolore, la Rai festeggiò lo scudetto azzurro con uno speciale condotto da Gianni Minà, grande amico di Troisi. Nell’intervista concessa al giornalista, l’attore, tra una battuta e l’altra, mostrava al Paese intero l’incredulità e la gioia per quel primo titolo nazionale all’ombra del Vesuvio. Non senza qualche piccata risposta a chi, nel Nord Italia, aveva esposto striscioni ispirati dalla prima Lega Lombarda secessionista di bossiana memoria.

Dicono che siamo campioni del Nord Africa? Meglio campioni del Nord Africa che fare striscioni da Sudafrica (dove c’era ancora l’apartheid, ndr)

Mentre la prima preoccupazione di Troisi nei giorni delle feste scudetto era un’altra:

Ricordatevi di spegnere il gas, sennò si muore. E’ così avvengono le tragedie

E in un’altra intervista, a chi gli diceva se con tutti i problemi che aveva Napoli c’era bisogno di pensare al calcio, l’attore fulminava tutti così:

Cioè, non lo so, siamo proprio destinati a piangere, a stare sempre male? Dobbiamo essere obbligati a stare male? Ogni tanto viene anche qualche soddisfazione

 

Il dramma di Emiliano Sala ha profondamente colpito il mondo del calcio. La scomparsa dell’aereo su cui viaggiava il neo attaccante del Cardiff ha gettato nello sconforto i suoi familiari, gli amici e anche i big dello sport. Il velivolo è uscito dai radar martedì scorso nelle vicinanze del Canale della Manica. Da allora non se n’è saputo più niente. Dopo tre giorni di ricerche la polizia di Guernsey ha interrotto le operazioni di indagine, senza aver ancora tuttavia trovato alcuna traccia né di Sala né del pilota.

La famiglia ha pesantemente criticato questa scelta. La sorella di Emiliano, Romina, ha pubblicato un video sui social network in cui implora le autorità di riprenderà le attività di investigazione.

Ovviamente sono ancora in stato di shock, ma tutta questa dimostrazione d’affetto dei tifosi non può che darmi qualche speranza in più, anche perché noi siamo convinti che Emiliano e il pilota siano ancora vivi.

Romina Sala è stata travolta dall’affetto dei fan all’esterno dello stadio di Cardiff, diventato un tappeto di fiori, bigliettini, sciarpe e fotografie del fratello.

La sorella di Emiliano Sala all’esterno dello stadio di Cardiff

Il mondo del calcio non è rimasto a guardare, anzi. Gli appelli virali per la ripresa delle ricerche si sono moltiplicati. Da Gonzalo Higuain a Lionel Messi e Diego Maradona. Ma c’è di più. Secondo il Times Sport, il centrocampista del Chelsea, N’golo Kanté, si sarebbe offerto di pagare le ricerche dell’aereo scomparso di Sala. Il campione del mondo francese e l’ex attaccante argentino sono stati compagni di squadra nel 2015 al Caen. Poi il primo volò in Inghilterra nei Leicester dei miracoli, il secondo restò Oltralpe trasferendosi al Nantes. Entrambi sono stati allenati da Claudio Ranieri che non ha dimenticato il suo ex giocatore:

E’ un calciatore fantastico che ha sempre dato il massimo quando abbiamo lavorato insieme in Francia. Prego per Emiliano e la sua famiglia

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La esperanza nunca muere. #NoDejenDeBuscar #EmilianoSala

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L’appello su instagram di Lionel Messi per Emiliano Sala

Il popolo napoletano è legato alle tradizioni ed è anche un po’ scaramantico, soprattutto in ambito calcistico.

La parola scudetto riecheggia da diversi anni tra le strade della città partenopea, grazie a delle stagioni sorprendenti sul campo. La società, per questo motivo, ha fatto un altro passo importante per continaure a essere ai vertici della Serie A stipulando un nuovo contratto di sponsorizzazione. Contratto che fa fare un salto indietro di trent’anni, l’era dei successi conquistati con Diego Armando Maradona.

Il brand che sarà sulla maglia azzurra a partire dalla prossima stagione è Mars, storico sponsor all’epoca della Coppa Uefa 1988/89 e del secondo scudetto del 1989/90. Dolci ricordi per i tifosi napoletani che, ovviamente, non possono che sognare ancora di più con il ritorno di questa partnership.

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I festeggiamenti del Napoli dopo la vittoria della Coppa Uefa

Era l’epoca di Careca, Alemao e Maradona, era l’epoca dell’attuale allenatore azzurro, Carlo Ancelotti, calciatore del Milan, era l’epoca in cui il calcio italiano era uno dei più belli del mondo.

Riproporre l’accoppiata Napoli – Mars è un gioco di ricordi che riaffiorano non solo nelle menti del tifoso napoletano, ma anche per l’amante del calcio. È più che palese quanto abbia inciso nel mondo del pallone il Napoli di Maradona e del san Paolo gremito per gustarsi le magie del Pibe de Oro. Nelle ultime stagioni quel pubblico è nuovamente presente tanto da essere tra le tifoserie più calde d’Europa.

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Scontro di gioco tra Maradona e Ancelotti in un match di Serie A del 1990/91

L’accordo è stato firmato poco dopo l’eliminazione dalla Champions League tra il club napoletano e Mars – M&M’s che saranno “Official Chocolate Snack”.

Mars è stato lo sponsor di uno dei video più famosi dedicati a Maradona, la clip registrata nel prepartita della semifinale di ritorno di Coppa Uefa tra Bayern Monaco – Napoli in cui il numero 10 argentino si riscaldò al ritmo di Live is life, e fu delirio.

La società guidata da De Laurentis, negli ultimi anni, sta facendo il possibile per riportare a Napoli i successi che oramai mancano da troppo tempo. Successi che, per scaramanzia, non vengono nominati ma che si sa quali sono.

Dries Mertens per tre fa 98, meglio di Careca. La nuova formula matematica in casa Napoli arriva dopo la roboante vittoria casalinga contro l’Empoli (5-1). La tripletta del belga, unita alle reti di Insigne e Milik, consente alla squadra di Ancelotti di issarsi momentaneamente solitaria al secondo posto. Ciò nonostante il tecnico azzurro ha voluto sottolineare i meriti della formazione toscana, punita eccessivamente nel punteggio. Dopo un periodo di appannamento, Mertens ha segnato sei reti nelle ultime quattro partite (Udinese, Psg, Roma ed Empoli).


Con il primo gol all’Empoli, Mertens ha superato Antonio Careca nella classifica dei migliori marcatori della storia del Napoli. Non a caso, subito dopo aver trafitto Provedel, Dries ha esultato imitando il celebre balletto del brasiliano con cui festeggiava ogni gol segnato. In realtà sembra che sia stato un omaggio a sua moglie Karin, protagonista in patria nella trasmissione tv “Ballando con le stelle“. Ora il belga è al sesto posto di questa speciale classifica. Al vertice c’è Marek Hamsik con 120 reti, seguito da Maradona (115), Sallustro (108), Cavani (104), Vojak (103). Mertens aveva già superato Gonzalo Higuain fermo a 92 centri.


Ed è proprio all’argentino che l’attaccante del Napoli deve, in parte, le sue fortune. Dopo la cessione del Pipita alla Juventus, e complice il primo grave infortunio a Milik, Maurizio Sarri ebbe l’intuizione di trasformare l’esterno belga in centravanti puro. Risultato: 28 gol in campionato nella stagione 2016-2017, 34 totali in 46 partite.

L’inizio con Carlo Ancelotti non è stato dei più felici, il tecnico emiliano ha fatto con Insigne quello che Sarri aveva fatto con Mertens. Trasformare il fantasista napoletano in attaccante vero, con il conseguente exploit del folletto di casa (9 gol in 13 partite finora in questa stagione). “Ciro” è così finito a volte in panchina, anche per via del turnover di massa adottato come regola aurea da Ancelotti.

Ai microfoni di Sky Sport, Dries sembra avere le idee chiare dopo la tripletta all’Empoli:

Non dico di voler giocare titolare sempre, ma mi sento bene e volevo giocare una gara importante. Ero un po’ arrabbiato, poi ho parlato con Ancelotti e si è risolto tutto. Stasera non era facile, l’Empoli gioca bene. Titolare martedi contro il Psg? Sicuro

 

Maradona, ultimo atto. Il 25 ottobre 1997 il Pibe de Oro si ritira ufficialmente dal calcio giocato. Chiude la sua carriera con la maglia con cui era esploso dopo gli inizi all’Argentinos Juniors. Allo stadio Monumental di Buenos Aires c’è il Superclasico tra River Plate e Boca Juniors. Diego ha già in mente di dire addio, non è la prima volta che lo fa, ma questa sarà davvero l’ultima.

«Se retira el diez» dopo ventuno stagioni, 692 partite ufficiali, 352 gol, quattro partecipazioni e 21 partite ai Mondiali. Una coppa del Mondo con l’Albiceleste, due campionati italiani con il Napoli e un titolo argentino con il Boca.

Diego Armando Maradona non poteva scegliere teatro migliore per lasciare il calcio a 37 anni. La partita che sognava da bambino con i rivali di sempre. Prima di Barcellona e di Spagna ’82, prima di Napoli, dei suoi eccessi, dei suoi trionfi, prima delle gioie e dei dolori con l’Argentina, prima della Mano de Dios e del Gol del Siglo. Il 10 aprile 1981 Diego aveva segnato il suo primo gol nel clasico al suo esordio.

Maradona nel Superclasico del 1981

Sedici anni dopo, davanti a quasi 70mila spettatori, i gialloblu del Boca espugnano il Monumental degli odiati rivali del River. I padroni di casa vanno in vantaggio con Sergio Berti, ex di entrambe con un passato anche in Italia nel Parma. Maradona abbandona il campo all’intervallo, sostituito da uno dei suoi tanti eredi designati, Juan Roman Riquelme. Nel secondo tempo gli ospiti firmano la rimonta con Torresani e Martin Palermo. I maligni dissero che il ritiro di Diego fu strumentale per evitare un nuovo caso di doping. Voci mai confermate che alimentano quell’aura di mistero e leggenda, di genio e sregolatezza da sempre fedeli compagne di vita del Diez.

Di fatto, lasciava il più grande giocatore della storia, al pari di Pelè. O forse più del brasiliano visto che, a differenza di O’Rey, Maradona era stato un fuoriclasse assoluto anche nel calcio più importante, quello europeo. Disse di lui uno che aveva per anni provato a fermarlo nelle eterne sfide con il Milan, Franco Baresi.

Maradona era il più grande di tutti perché faceva con le arance quello che a noi calciatori sembrava impossibile fare col pallone

Diego Armando Maradona e Franco Baresi

 

Sono passati quasi 29 anni da quel 17 settembre 1989 in cui un giovanissimo Roberto Baggio salì in cattedra al san Paolo di Napoli per segnare un gol “alla Maradona”.

Un match sentitissimo quello tra i partenopei, guidati dal Pibe de Oro, e la Viola da un promettente Divin Codino che, da lì a poco, diventerà icona del calcio mondiale.

Un Napoli ricco di campioni, capace di vincere poi il secondo scudetto della storia, e una Fiorentina incognita che poi chiuderà a 28 punti, raggiungendo a fatica la salvezza.

Quella partita però è rimasta nella storia del calcio italiano, non tanto per il risultato, ma per come è stata interpretata soprattutto dal giovane Baggio. Complice l’assenza di Diego Armando Maradona, lasciato il primo tempo a a riposo in panchina, il numero 10 viola è riuscito a mettere in mostra tutto il suo talento.

In effetti, nei primi 45 minuti il funambolico fantasista viola realizza una doppietta, portando i toscani sul 2-0 all’intervallo, davanti a uno sorpreso Maradona, fremente in panchina.

Baggio segna una doppietta: la prima rete  su rigore al 22esimo minuto dopo che lui stesso se lo procura. Il numero 10 entra in area dribblando Renica che da terra lo stende. Dal dischetto Roby non sbaglia.

Ma il meglio deve ancora venire. Nove minuti più tardi Baggio decide di prendere palla a centrocampo e partire puntando diritto verso la porta napoletana. Salta nuovamente il difensore Renica e anche un terzino, per poi trovarsi di fronte il portiere Giuliani. Diagonale? Scavetto? No! Il numero 10 decide di spostarsi la palla con la suola (tocco di pura classe), mettendo a sedere l’estremo difensore, per poi calciare a porta vuota. San Paolo annichilito e Roby Baggio scrive una bellissima pagina di calcio a casa di Maradona.

Il match poi sarà vinto dal Napoli grazie a una grandissima rimonta guidata da Maradona, ma in quel giorno a brillare è stata la stella di Baggio, stella che continuerà a brillare per tantissimi anni.

Alcuni parlano di Serie A “bundeslighizzata”, similitudine con il campionato tedesco dove la forbice imprenditoriale e in campo tra Bayer Monaco e le restanti squadre è sempre più abissale. Può essere, ma l’arrivo di Cristiano Ronaldo alla Juventus, segue seppur in maniera eclatante (si parla ormai del trasferimento del secolo) un percorso già avviato da anni, basti pensare alla striscia di Scudetti (sette) ancora aperta e agli acquisti di Higuain dal Napoli e di Pjanic alla Roma, due scippi alla “dirette” concorrenti per fare ancor più terra bruciata (anche l’acquisto di Cancelo, “monitorato” e opzionato dopo la buona parentesi all’Inter è l’ulteriore riprova).

Cr7 che dal Real Madrid viene in Italia scomoda paragoni illustri ed eccellenti e, forse, li supera ampiamente: Maradona al Napoli, Ronaldo – il Fenomeno – all’Inter, ci metteremmo pure Zico all’Udinese nel 1983. Ci sentiamo di condividere l’editoriale di Alberto Cerruti, pubblicato sulla Gazzetta dello Sport, nell’edizione del 10 luglio. I tempi sono ancora al condizionale perché l’ufficialità è arrivata solo nel pomeriggio, ma l’impalcatura concettuale rimane.

 

Lo sbarco di Cristiano Ronaldo sul pianeta Serie A potrebbe battere tutti i precedenti per almeno cinque motivi, senza entrare nel confronto tecnico tra i vari campioni. Unico punto comune (per Maradona e il “Fenomeno) il Paese di provenienza, perché arrivano dalla Liga, sponda Barça però.

La prima differenza a favore di Cristiano è il momento che attraversa l’Italia calcistica e non soltanto per l’assenza al Mondiale. Quando Maradona si presentò a Napoli nel 1984 e Ronaldo all’Inter nel 1997, nessuno diceva come oggi che il loro arrivo avrebbe fatto bene al nostro movimento, perché la Serie A era il teatro dei grandi campioni stranieri. Maradona, infatti, si aggiunse ai vari Platini, Zico, Rummenigge, Falcao, Passarella. Il brasiliano raggiunse Zidane, Batistuta, Savicevic, Boban, Weah, Simeone. Cristiano, invece, sarebbe la nuova attrazione per tutti, in Italia e all’estero.

La seconda differenza riguarda il ruolo mediatico che oggi distingue Cristiano, perché è unico nel suo genere, molto più universale appunto dei tanti campioni che lo hanno preceduto per la fama trasversale che lo accompagna in ogni continente. Tra il Portogallo, di cui è pure capitano, e il Real Madrid, senza scordare il passato al Manchester United, Cristiano a 33 anni supera come immagine Maradona e Ronaldo, arrivati in Italia rispettivamente a 23 e 20 anni.

La terza differenza, strettamente legata alla precedente, riguarda il curriculum di Cristiano che si presenterebbe accompagnato da grandi punti esclamativi, senza gli interrogativi, sia pure ridotti, nella scia dei più giovani che lo avevano preceduto. Cristiano ha vinto cinque Palloni d’Oro e cinque Champions, con due squadre tra l’altro, e quindi non deve dimostrare nulla. Semmai deve continuare a vincere, come ha sempre fatto ovunque, in una squadra abituata ai successi almeno in Italia, mentre Maradona si inserì in un Napoli che non aveva mai conquistato uno scudetto e ci sarebbe riuscito al terzo tentativo.

La quarta differenza, figlia dei tempi moderni, riguarda l’industria che ruota attorno a Cristiano e a quei pochi, come Messi, al suo livello. Maradona è stato il più grande giocatore del Napoli e basta, nel senso che il suo genio si esauriva in campo. Gli ingaggi per le amichevoli e i proventi per gli sponsor di ogni genere, allora soltanto all’inizio, oggi si sono moltiplicati in misura direttamente proporzionale alla fama dei campioni e in questo senso tutto il mondo che ruota attorno a Cristiano non può essere minimamente paragonato a quanto accadeva negli anni 80 e 90.

Infine basta soffermarsi sull’importanza delle maglie e dei rispettivi numeri per capire quanto può valere Cristiano più di Maradona. E’ vero che a Napoli c’è ancora chi gira con una malia azzurra numero 10 con lo sponsor Buitoni, ma oggi il 7 di Cristiano venduto in tutto il mondo, con il bianco del Real Madrid o il risso del Portogallo, sarebbe una garanzia di nuovi introiti per la Juventus, molto di più che in passato. E’ sufficiente pensare quanto potrebbe fruttare alla società bianconera l’idea di acquistare la maglia ufficiale, e non taroccata, di Cristiano da indossare nella sua prima partita, a Torino, in uno stadio ovviamente stracolmo. In attesa di sapere se, e quando, arriverà.

E soprattutto se, e quando, arriverà anche quella famosa coppa. Stregata per la Juventus, ma non per Cristiano.

Alberto Cerruti, Gazzetta dello Sport – 10 luglio.