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Non sembrò possibile che stesse succedendo davvero, e a rivederlo oggi il video dell’ultima partita di Kobe Bryant su un campo di NBA sembra ancora più incredibile. Segnò 60 punti, e negli ultimi tre minuti guidò i Lakers a una rimonta pazzesca contro gli Utah Jazz, era il 13 aprile del 2016. Il numero 24 della squadra di Los Angeles in realtà aveva fatto anche meglio in passato come gli 81 punti messi a segno il 22 gennaio 2006 contro i Toronto Raptors. Bryant, che con quell’exploit firmò il secondo record di sempre dietro soltanto ai 100 punti di Wilt Chamberlain con i suoi Philadelphia Warriors contro i New York Kniks.

Alla sua ultima partita c’erano tutti, compreso O’Neal accanto alla panchina, e nei momenti più spettacolari del finale le telecamere si soffermarono più volte su Gianna, seduta in prima fila. Bryant ha chiuso la sua carriera con 33.643 punti realizzati in 1.346 partite, quarto miglior realizzatore in assoluto di tutti i tempi, scavalcato da LeBron James con i 29 punti realizzati contro Philadelphia proprio nella notte tra il 25 e 26 gennaio, giorno della morte dello stesso Kobe che su Twitter si era complimentato con il collega-amico.

 

Alzi la mano chi tra i milioni di appassionati di pallacanestro di tutto il mondo non ha mai sognato di vedere sul campo, nella stessa squadra, campioni di epoche diverse giocare insieme. Gli interrogativi quando si fa questa specie di gioco, tuttavia, restano sempre gli stessi: chi è stato il centro più dominante della storia del basket? Chi il playmaker più veloce? Quale è stata la guardia tiratrice che ha segnato di più? Come avrebbero giocato insieme Michael Jordan e Kobe Bryant? Quale sarebbe stato il miglior quintetto iniziale della storia della pallacanestro?

Ebbene, noi ci limiteremo a dare risposta a quest’ultimo quesito. Ma scegliere i nomi di un ipotetico quintetto iniziale che rappresenti (o abbia rappresentato) la perfezione nel gioco del basket, non è impresa facile. Certamente, non ci limiteremo a selezionare i giocatori da inserire nella nostra squadra dei sogni, valutandoli esclusivamente dal punto di vista dei premi e dei campionati vinti.

E allora partiamo dallo spot di playmaker (o point guard). Qui la scelta è d’obbligo e cade sul Magic Johnson dei Lakers dello Showtime degli anni ottanta. Magic viaggiava all’epoca ad una media di 20 punti, 12 assist e 8 rimbalzi a partita, cifre mai raggiunte da nessun altro play. Johnson era uno spavaldo, dentro e fuori dal campo. La sua carriera è diventata lo spartiacque tra un certo tipo di basket e uno più moderno. Magic ha fatto innamorare milioni e milioni di sportivi con i suoi no-look pass, pur non essendo il prototipo del classico playmaker. Il suo, infatti, era più un fisico da ala; tuttavia Magic aveva un quoziente intellettivo pari a nessun altro giocatore dell’epoca ed uno dei suoi attributi principali era la visione del gioco. Oggi, con le dovute eccezioni, si potrebbe accostare a Magic lo sloveno Luka Dončić, stella assoluta (a 21 anni) della NBA e già nominato miglior giocatore europeo nel 2019 dalla Gazzetta dello Sport.

Passiamo alla posizione di guardia (o guardia tiratrice) dove, a ragion veduta, si potrebbe aprire una intera enciclopedia visti i nomi che nelle diverse epoche hanno reso indimenticabile uno dei ruoli più ambiti in ogni singola squadra. Sono tanti i giocatori che meriterebbero di essere menzionati in questo ruolo, da George Gervin a Ray Allen, da Reggie Miller fino all’indimenticato Kobe Bryant, il campione dei Los Angeles Lakers, tragicamente deceduto nel gennaio 2020 per un incidente in elicottero sulle colline della metropoli californiana.

Nonostante questa agguerrita concorrenza, 10 esperti su 10 concorderebbero sul fatto di assegnare a Michael Jordan la palma di guardia più forte di ogni tempo. Jordan è stato (e probabilmente sarà) il più grande della storia di questo sport. Il numero 23 e 45 dei Chicago Bulls ha rivoluzionato il basket non solo a livello tecnico, portando questa disciplina sportiva nelle case di tutto il mondo. In campo, Air era un semi-dio capace di restare in sospensione per un tempo maggiore rispetto agli avversari. Lontano dal parquet, ha preso in mano un modesto marchio di scarpe da ginnastica, la Nike, trasformandolo in una icona dell’abbigliamento sportivo.

Jordan ha concluso la sua carriera con una media di 30,1 punti, 2,3 palle recuperate, 5,3 assist e 6,2 rimbalzi. Nota a parte: ha vinto 6 volte il titolo NBA, 5 volte è stato premiato con la palma di MVP e 6 volte è stato nominato MVP delle Finals.

Nello spot di ala piccola troviamo l’unico giocatore del nostro quintetto dei sogni ancora in attività. Stiamo parlando di LeBron James, quattro volte campione NBA, fresco vincitore dell’ultimo campionato con la casacca dei Los Angeles Lakers, tra i migliori marcatori del campionato nordamericano. Il Re (questo uno dei suoi nickname) è sbarcato nel 2018 nella città degli angeli, con l’obiettivo di riportare la gloriosa franchigia gialloviola di nuovo al vertice della lega. Obiettivo centrato in due sole stagioni; tuttavia, i Lakers, con James in squadra, restano anche per la prossima stagione la squadra da battere, così come riferiscono le quote dei maggiori operatori sportivi come Betway.

Non resta che scegliere le due torri del nostro quintetto dei sogni. Nello spot di ala forte non possiamo non selezionare Tim Duncan, quasi 1400 partite giocate in NBA esclusivamente con la maglia dei San Antonio Spurs (che hanno ritirato la sua maglia numero 21), franchigia con cui ha vinto 5 titoli NBA. Nel corso della sua carriera ha segnato quasi 21 punti di media e preso 10 rimbalzi a partita. Ma nei playoff queste cifre arrivavano a quasi 38 punti e 12 rimbalzi per allacciata di scarpe. Un mostro del pitturato, nominato miglior giocatore del decennio 2000-2010, Duncan è stato uno dei migliori nel suo ruolo.

Chiudiamo parlando del ruolo di centro. Anche qui, potremmo nominare i vari Bill Russell, Dwight Howard e Patrick Ewing, ma quando si parla di pivot il pensiero non può non andare a Shaquille O’Neal, il giocatore più dominante che abbia mai calcato i parquet della NBA. Agile e scattante come il più smilzo dei play, nonostante una stazza fisica da 150 chilogrammi di peso per 216 centimetri di altezza. Ogni schiacciata di Shaq è stata uno spettacolo per tutti. Ha vinto 4 campionati, 3 con i Los Angeles Lakers ed uno con i Miami Heat.

Fa strano vederlo con la canotta gialloviola, ma è questione di abitudine. Prima o poi ci abitueremo tutti a vedere LeBron James con la maglia dei Los Angeles Lakers.

Il suo esordio nel preseason c’è stato, anche se non è stato dei migliori a livello di risultato per i Lakers, i quali hanno perso contro i Nuggets 124 – 107.

Per il Prescelto solo 15 minuti di partita a ritmi abbastanza bassi. Per lui nove punti con due triple, tre assist e altrettanti rimbalzi.

Ovviamente l’evento della serata non è stato il match in se per se, ma tutti attendevano l’ingresso di King James con la nuova maglia 23.

È stato bello tornare sul parquet e iniziare un nuovo viaggio per me stesso. È stato bello sentire il ruggito dalla folla!

Quindi belle sensazioni per LeBron che, con questa nuova avventura a Los Angeles, si è messo nuovamente alla prova per tentare di fare bene in un’importantissima squadra oltre che cercare di rubare lo scettro ai Golden State Warriors, campioni Nba la scorsa stagione.

Intanto per la prossima stagione LB23 sarà protagonista anche da attore, dato che vestirà la canotta dei Tunes Squad per il film Space Jam 2.

Il primo canestro messo a segno contro Denver è stata una tripla ben oltre la lunetta. Tre punti che hanno subito scaldato l’umore dei compagni ma soprattutto della folla dei 13500 tifosi impazziti del Valley View Casino di San Diego, accorsi a vedere la prima del Re.

Il prossimo match sarà nuovamente contro i Nuggets per continuare la preparazione in vista della lunga stagione Nba in cui LeBron James vuole ancora migliorarsi ed essere il migliore.

Intanto per ora si gusta le nuove sensazioni e le nuove emozioni con i Lakers:

Dalla canotta del St. Vincent-St. Mary a quella dei Cavs. Da quella dei Cavs a quella degli Heat. Ritorno a quella dei Cavs ed ora sono un Laker. È una sensazione diversa, ci vorrà un po’ per abituarsi.

Siamo abituati a vedere Kobe Bryant, uno dei più grandi cestisti della storia dell’Nba, primeggiare sul campo ed essere osannato dai fan, ma vederlo sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles a ricevere addirittura il premio oscar è una novità.

Nella giornata di ieri si è svolta la 90esima edizione della Notte degli Oscar, dove grandi attori e registi del cinema si riuniscono per ricevere l’ambita statuetta. E fra queste celebrità ecco salire sul palco l’ex giocatore statunitense, pronto a ritirare il suo premio.

Forse non tutti sanno che Kobe Bryant, prima di lasciare per sempre il basket nel 2015, ha deciso di scrivere una lettera che poi ha lasciato alla squadra e ai fan. Questa testimonianza, chiamata Dear Basketball, è stata talmente significativa da spingere il disegnatore Glen Keane a farne un corto animato, che trionfa accanto a film come “La forma dell’acqua”. 

 

E ieri anche il famoso giocatore dei Lakers si è commosso quando ha sentito il nome del suo cortometraggio uscire dalla busta come vincitore della categoria corti animati. Per lui la massima onorificenza simbolicamente offerta con la statuetta d’oro e le parole di Keane, che valgono per Bryant tanto quanto il premio:

Grazie a Kobe per aver scritto ‘Dear Basketball’: è un messaggio per tutti noi. Perché con la perseveranza, l’impossibile diventa possibile

Per realizzare il corto, Bryant ha lavorato anche con il compositore John Williams, al quale Bryant fa i suoi ringraziamenti al momento della premiazione. Bryant, Keane e Williams, pur appartenendo a mondi diversi, hanno realizzato qualcosa di incredibile che ha avuto un riconoscimento a livello internazionale.

 

Kobe Bryant nel corso della sua brillante carriera soddisfazioni ne ha avute tante. Ma dopo i cinque titoli NBA e due premi di miglior giocatore delle finali dei playoff, quando è salito sul palco per essere premiato ha provato un’emozione completamente nuova.

Doveroso, quindi, riportare per intero il testo della lettera che ha dato ispirazione a questo cortometraggio che rievoca la sua storia:

Caro basket,
dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre
e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum
ho saputo che una cosa era reale:

mi ero innamorato di te.

Un amore così profondo che ti ho dato tutto
dalla mia mente al mio corpo
dal mio spirito alla mia anima.

Da bambino di 6 anni
profondamente innamorato di te
non ho mai visto la fine del tunnel.
Vedevo solo me stesso
correre fuori da uno.

E quindi ho corso.
Ho corso su e giù per ogni parquet
dietro ad ogni palla persa per te.
Hai chiesto il mio impegno
ti ho dato il mio cuore
perché c’era tanto altro dietro.

Ho giocato nonostante il sudore e il dolore
non per vincere una sfida
ma perché TU mi avevi chiamato.
Ho fatto tutto per TE
perché è quello che fai
quando qualcuno ti fa sentire vivo
come tu mi hai fatto sentire.

Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere un Laker
e per questo ti amerò per sempre.
Ma non posso amarti più con la stessa ossessione.
Questa stagione è tutto quello che mi resta.
Il mio cuore può sopportare la battaglia
la mia mente può gestire la fatica
ma il mio corpo sa che è ora di dire addio.

E va bene.
Sono pronto a lasciarti andare.
E voglio che tu lo sappia
così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme.
I momenti buoni e quelli meno buoni.

Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo.
E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò,
che rimarrò per sempre quel bambino
con i calzini arrotolati
bidone della spazzatura nell’angolo
5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani.
5… 4… 3… 2… 1…

Ti amerò per sempre,
Kobe

La storie legate alle nascite dei loghi e dei simboli sono quasi sempre un po’ surreali e particolari, come lo ‘ sicuramente quella legata alla nascita di Adidas e Puma o quella legata alla collezione Air di Nike.

Altrettanto suggestiva è il racconto che circola intorno a uno dei loghi più importanti sia a livello di immagine che a livello economico: quello del National Basketball Association (o molto più noto e più semplice Nba).

Quello che a tutti gli effetti è l’icona mondiale del basket è stata creata quasi 50 anni fa nel lontano 1969.

In quello specifico anno la Nba non era il colosso mondiale che è ora anzi doveva giocarsela molto con la sua rivale: l’American Basketball Association. Un conflitto su diversi fronti: tifosi, giocatori, media e milioni di dollari.

I membri della Nba si rivolsero al colosso americano della comunicazione e dell’immagine, la Siegel+Gale. Il fondatore dell’azienda, Alan Siegel, alla ricerca di una musa ispiratrice, fu abbagliato da un’immagine che ritraeva il cestista statunitense dei Lakers, Jerry West, in azione.

Per Siegel era la foto perfetta, che rappresentava l’essenza del basket. Uno scatto che includeva sia dinamicità che verticalità oltre all’espressione vera dell’essenza del gioco.

In realtà il collegamento West-Logo non è mai stato concretamente ufficializzato, altrimenti gli dovrebbero una quantità incredibile di soldi in diritti d’immagine. Tale storia però è ormai nota a tutti nell’ambiente, tanto che ormai il diretto interessato (è soprannominato proprio The Logo) non ne fa più mistero è ha spesso dichiarato che avrebbe preferito non essere più raffigurato in quel simbolo.

Tuttavia pare sia proprio impossibile che il logo venga cambiato dato che oramai genera una barca di soldi. Oramai l’alchimia tra West e il marchio Nba sono così intersecati che l’idea di vederne un altro, non passa nemmeno per la mente a qualcuno.

Sarebbe come togliere la mela dalla Apple o il cavallino rampante alla Ferrari.

Un ritiro di maglia è un gesto sportivo molto importante che sottolinea e rafforza il legame tra una squadra e il suo protagonista.

Succede in quasi tutti gli sport di squadra nel calcio, nel baseball e pure nella pallacanestro.

Proprio nel basket sta diventando sempre più una consuetudine, soprattutto nel campionato americano dell’Nba, in cui solamente Clippers, Grizzlies e Raptors fanno eccezione.

Fresca è l’ufficialità del ritiro della storica 34 dei Boston Celtics indossata da Paul Pierce per ben 14 anni. Con i Celtics ha vinto un campionato Nba nel 2008 con il titolo personale di MVP della Fase Finale. Dalla stagione 2001/02 detiene il record della storia della franchigia a guidare l’NBA per punti segnati in una stagione: 2144.

Davanti proprio alla platea del The Garden stracolma di tifosi green, c’è stata l’emozionante post partita che ha visto come protagonista la guardia originaria Oakland. Uno show da brividi per esaltare ciò che il campione americano ha realizzato nella sua lunga carriera nel Celtics, che a loro volta lo hanno omaggiato con lo storico ritiro di maglia. Sono così 22 i numeri di maglia ritirata dalla franchigia bostoniana.

Come Paul Pierce anche altre stelle dell’Nba hanno avuto questo grande onore: il ritiro della maglia, che viene poi appesa ai soffitti delle arene dove tutti le possono ammirare.

Proprio i Celtics conservano gelosamente questo tipo di cultura, grazie anche ai suoi 17 titoli. Tra le ventidue maglie c’è il 33 dell’ala Larry Bird. The Legend ha guidato i Celtics dal 1979 al 1992.

In ordine cronologico, invece, prima di Paul Pierce è stato Tim Duncan degli Spurs. San Antonio ha voluto ritirare la storica 21 dell’ala grande, indossata per 19 anni (con annessi 5 titoli Nba in bacheca).

Ovviamente se pensiamo ai campioni e figure storiche dell’Nba, non possiamo che far riferimento al grande MJ, Michael Jordan. A Chicago domina la sua immagine e ricordiamo che la sua 23 è stata prima ritirata nel 1994, quando MJ abbandonò per la prima volta il basket per il baseball. Dopo una piccola parentesi con il 45, la 23 tornò al suo legittimo proprietario per poi essere definitivamente ritirata al suo addio.

Tra le franchigie che ha avuto più campioni dell’Nba ci sono sicuramente i Lakers. La squadra di Los Angeles conta, dunque, anche tanti ritiri di maglie. Tra le stelle storiche della squadra americana ci sono campionissimi come Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, i quali hanno vinto il premio come miglior giocatore dell’anno MVP. Proprio le maglie di questi quattro fuori classe sono appese al soffitto dello Staples Center. MJ ha avuto l’onore di avere un ritiro maglia anche da una squadra in cui non ha mai giocato, Miami Heat.

Dal 1975 al 1989 Abdul-Jabbar ha giocato per i Lakers con addosso la mitica 33 gialloviola. Cinque titoli in bacheca e miglior marcatore della storia Nba (38387 punti). Particolarità del campione americano è che sia stata ritirata la 33 anche della sua prima squadra con cui ha vinto il titolo nel 1971, i Milwaukee Bucks.

I Lakers hanno ritirato anche la 32 dell’attuale presidente gialloviola, Magic Jhonson. Considerato uno dei cestisti più forti della storia. Il playmaker che ha fatto scintille negli anni ’80.

Rimanendo a Los Angeles, non possiamo dimenticarci del gigante Shaquille O’Neal il quale, approdato nei Lakers ha dovuto rinunciare al suo amato 32 (appartenuto proprio a Magic Jhonson), per ripiegare sul 34 che poi è diventata la maglia dei 3 titoli con i gialloviola e uno con gli Heat. Anche la squadra di Miami ha deciso di appendere la gigante canotta di O’Neal nell’America Airlines Arena.

L’ultimo dei Lakers è stato comunque Kobe Bryant. Nel 2017 sono state appese le sue due maglie, la numero 8 e la numero 24 (delle due esperienze a Los Angeles). Inutile ribadire la grande carriera che ha vissuto Bryant, una delle ultime stelle del basket mondiale.

Uno che ha lasciato il segno in due città è stato anche Julius Erving. A Doctor J è stata ritirata la numero 6 dai Philadelphia 76ers e la numero 32 dei Nets.

I New Jersey Nets, inoltre, si sono trovati inaspettatamente a ritirare la maglia n°3 del croato Drazen Petrovic nel 1993, dopo il grave incidente che costò la vita al primo cestista europeo a diventare una superstar nel basket americano.

Gli Utah Jazz hanno voluto omaggiare una delle coppie più prolifiche dell’Nba: John Stockton e Karl Malone. Insieme dal 1985 al 2003, la franchigia ha voluto appendere le canotte 12 e 32 all’interno dell’arena di Salt Lake City.

L’Indiana è terra di basket ed è per questo che per ottenere un ritiro maglia devi aver creato qualcosa di leggendario. Tra i cinque giocatori appesi al soffitto c’è Reggie Miller, dal 1987 al 2005 a Indiana, co cui ha messo a segno oltre 25mila punti.

A due europei dei Sacramento King è stato concesso questo onore: Vlade Divac (1999-2004) e Peja Stojakovic (1999-2006). Oltre a questi due, i Kings (così come i Magic) hanno ritirato anche la 6 in onore del pubblico, inteso come sesto uomo in campo.

Nella data di ieri, 22 gennaio, ricorreva un anniversario caro all’NBA, perché emblema di uno dei suoi momenti storici più significativi.

Protagonista dell’evento che ebbe luogo nel 2006 è Kobe Bryant, che nella partita contro Toronto Raptors segnò l’inizio della sua brillante carriera. In quell’occasione il giocatore riuscì a segnare ben 81 punti, registrando il secondo miglior punteggio di tutti i tempi.

Kobe Bryant diede una svolta decisiva ad un match che non era partito molto bene per la sua squadra, i Lakers, ma con i suoi tiri liberi e una grinta eccezionale, il giocatore statunitense stravolse il risultato e si aggiudicò una vittoria storica per 122-104.

I suoi numeri in quel match? Eccoli: 21/33 da due punti, 7/13 da tre punti e 18/20 ai tiri liberi, ai quali vanno aggiunti 6 rimbalzi, 2 assist, 3 palle recuperate ed 1 stoppata. 14 punti nel primo quarto, 12 nel secondo e due spaventose realizzazioni di 27 e 28 punti nei due quarti finali, da rivivere in questo video.

Lasciò senza parole sia avversari che tifosi e persino il suo coach, Phil Jackson, che così commentò la sua prestazione:

Ho assistito a tante partite nella mia carriera, ma non ho mai visto nulla del genere

Un risultato che è entrato a pieno diritto nella storia del basket, anche perché pare che Bryant non stesse molto bene poco prima dell’incontro, come raccontò lui stesso ai giornalisti:

Fino al riscaldamento stavo malissimo, le ginocchia mi facevano male ed erano rigide

Ma Kobe Bryant non è celebre solo per questo suo risultato incredibile, perché poco dopo, nel 2007 raggiunse un altro importante traguardo storico: diventare il quarto giocatore nella storia del basket capace di segnare almeno 50 punti in 3 partite consecutive. Un record che condivide con nomi illustri dell’NBA come Wilt Chamberlain, Michael Jordan ed Elgin Baylor.

Insomma, Bryant rimane una leggenda nell’albo storico dell’NBA ed è secondo solo ad un altro giocatore che molti anni prima di lui raggiunse un record finora mai superato. Si tratta di Wilt Chamberlain, che nel 1962 ha raggiunto quota 100 punti, conquistandosi il primato assoluto.

 

Riconosciuto da allora come uno dei più forti, Chamberlain portò la sua squadra, Philadelphia Warriors, alla vittoria contro gli avversari, i New York Knicks. E fu osannato anche per aver stabilito altri record importanti, tutti nella stessa partita.

Si parla infatti di maggior numero di canestri segnati con un tiro dal campo (36) e maggior numero di tiri liberi fatti in una partita (28). Anche in questo caso, come è accaduto per Kobe Bryant che ha firmato 81 punti senza essere in forma perfetta, Chamberlain stupisce per un record realizzato nonostante non fosse proprio il migliore nei tiri liberi.

Pare che proprio in quella partita decise di cambiare stile e questo segnò per lui un cambiamento decisivo. E ad aggiungere ancora stupore ad una prestazione finora mai eguagliata è un post-sbronza che Chamberlain si portava dietro prima di cominciare a giocare.

Nonostante tutto, da quel 2 marzo 1962 divenne un campione storico dell’NBA. Solo un rammarico accompagna la sua storia: aver rinunciato a quella tecnica speciale che lo rese celebre in quella famosa partita, il granny shot.

Forse avrebbe anche potuto superare il suo stesso record, ma adesso non ci resta che attendere il prossimo campione che tenterà di eguagliare o superare le mitiche performances di Chamberlain e di Bryant.

Sa dal sapore amaro parlare di basket femminile dopo la sconfitta contro il Belgio delle azzurre nell’Europeo che si sta disputando in Repubblica Ceca, ma c’è comunque da complimentarsi con le ragazze di coach Capobianco che ora sperano di battere la Lettonia per strappare il pass Mondiale 2018.

A guidare le ragazze dell’Italbasket la capitana e veterana, Raffaella Masciadri giocatrice del Famila Schio.
Nata a Como nel 1980, rappresenta una delle cestiste italiane più vincenti della storia del basket femminile, con ben 12 scudetti in bacheca.

Per l’ala azzurra, che da qualche settimana ha ottenuto un ruolo come presidente della Commissione atleti del Coni, un passato anche in America nella WNba, patria del basket mondiale. Per diverse stagioni, infatti, la comasca ha indossato la maglia del Los Angeles Sparks le “sorelle” dei più noti Lakers della Nba maschile.

Un onore per il basket italiano, che oltre ad avere cestisti azzurri tra gli uomini (vedi Belinelli, Bargnani, Gallinari e prima anche Datome), esporta anche talenti femminili negli Stati Uniti.

La capitana Masciadri, nel 2004 viene “notata” dall’allora coach losangelino, Michael Cooper, che decide di chiamarla a sé per inserirla nel gruppo di squadra per l’inizio del campionato WNba che si gioca in estate.

La stagione 2004 non è delle più semplici. Nonostante la fiducia che Cooper ha nei confronti della comasca, Raffaella Masciadri deve sgomitare molto per inerirsi negli schemi e nella realtà americana. Il primo campionato si chiude con 17 presenze e una media di 1,6 punti per partita in quasi 7 minuti di gioco.

Sebbene la prima stagione non sia stata esaltante la società richiama l’azzurra per l’anno seguente. Le cose, infatti, vanno decisamente meglio: si alza la media dei minuti giocati oltre che quella realizzativa, soprattutto dai tre punti.

In Italia rientra gli inverni per giocare con Schio e con la Nazionale. Proprio i molteplici impegni portano la comasca a decidere di “riposarsi” dagli impegni americani, prima di ritornarci nel 2008. Proprio in quella stagione, forse la migliore, le Sparks per un soffio non agguantano le Finals.

Un’esperienza unica per l’ala comasca che porta con sé ricordi indelebili della parentesi statunitense.
L’Italia e il basket italiano però non sono mai stati dimenticati, tant’è che alla prima occasione Raffaella ci è tornata e ha vinto tanto a Schio con la Famila.

Ora a 37 anni, oramai è una veterana ed è nella fase finale della carriera e vuole dare un apporto maggiore ora che ha un ruolo come presidente nella Commissione atleti Coni. In effetti la campionessa, parallelamente alla vita sul parquet, si è anche laureata in Scienze giuridiche.

Studiare e giocare è una cosa che si può fare senza eccessivi eroismi. Basta essere determinate!

E sicuramente lei lo è stata.

Dario Sette