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Verso la fine degli anni Settanta, quando ormai a fine carriera rimandava il ritiro dal calcio giocando nei Cosmos di New York, Pelé si lanciò andare in una profezia (una delle tante, a dire il vero):

Entro il 2000 una nazionale africana vincerà il Mondiale

Siamo nel 2018, sono passate diverse manifestazioni iridate e il pronostico di O’ Rey è da slittare ancora una volta, anzi l’edizione in Russia ha segnato un andamento negativo per l’Africa: per la prima volta dal 1982 nessuna squadra ha raggiunto la fase a eliminazione diretta.

Ma mentre la delusione è stata difficile da reggere per i tifosi di Egitto, Marocco, Nigeria, Senegal e Tunisia, le semifinali totalmente europee (Francia – Belgio e Croazia – Inghilterra) sono la prova o se volete, l’umana testimonianza, dell’enorme influenza che i figli degli immigrati africani hanno nel calcio europeo e, di riflesso, nell’apice del gioco globale.

Samuel Umtiti, il difensore francese che staccando di testa ha segnato la rete che ha permesso alla Francia di vincere 1-0 sul Belgio e di accedere alla finale 20 anni dopo la prima magica volta, non ha mai avuto dubbi su quale maglia volesse vestire, talmente convinto da non aver neppure vacillato di fronte al mitico Roger Milla che tentava di convincerlo a scegliere il paese dei suoi genitori. Il Camerun. Come il fantasmagorico Kylian Mbappé – figlio di un padre camerunese e madre algerina – e come i suoi compagni cosmopoliti che hanno veicolato un’enfatica risposta al bigottismo che ora sorniona ora esplode in forme di razzismo in casa e in Europa.

In totale 23 giocatori – esattamente il 50% – nelle squadre di Didier Deschamps e Roberto Martínez – hanno antenati nati e cresciuti in Africa. Si stima che il 6,8% e il 12,1% rispettivamente della popolazione francese e belga sia composta da migranti, una statistica che indica quanto sia stata importante una prima fase dell’integrazione. Ma se alcuni critici della Francia sono stati messi a tacere da prestazioni superbe, in Belgio le cose sono andate diversamente fino a poco tempo fa. Romelu Lukaku, attaccante del Manchester United sul tabloid Players’ Tribune aveva detto:

Quando le cose andavano bene, stavo leggendo articoli di giornale e mi chiamavano Romelu Lukaku, l’attaccante belga, ma quando le cose non andavano bene, mi chiamavano Romelu Lukaku, l’attaccante belga di origine congolese

Nella squadra in cui sette giocatori possono risalire a radici nell’ex colonia belga, Lukaku e Vincent Kompany – il cui padre, Pierre, è un diplomatico congolese e lui si definisce “100% belga e 100% congolese” sono emersi come alfieri di una nazione che ha storicamente sofferto di una terribile eredità.
Nel 1958, poco dopo la Svezia e il mondo intero scoprirono il talento dell’adolescente Pelé, a Bruxelles si tenne l’Esposizione universale. Per 200 giorni, la capitale belga fu sede di una fiera che voleva celebrare i progressi tecnologici compiuti dopo la seconda guerra mondiale. Proprio il Belgio, però, aveva ancora in mostra quello che venne considerato l’ultimo “zoo umano”: uomini, donne e bambini congolesi replicavano le loro condizioni native in una scena fabbricata e artificiale di quotidianità all’interno di un villaggio.

Alla fine del secondo conflitto bellico, il Belgio contava 10 uomini congolesi all’interno dei suoi confini, oggi si superano i 40mila abitanti. E il calcio ha aiutato notevolmente: dopo l’introduzione di un programma nazionale per utilizzare il pallone come risorse per facilitate l’integrazione, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La generazione d’oro del Belgio è emersa.

E poi c’è Danijel Subasic , portiere di quasi 34 anni della Croazia, colui che, impassibile, nei due scontri terminati ai calci di rigore ne ha parati quattro, raggiungendo il record del tedesco Schumacher e dell’argentino Goycochea ai Mondiali di Italia ’90. Nato a Zara nel 1984, figlio di un padre serbo e ortodosso e di una madre croata e cattolica, la sua infanzia è stata tribolata: a sette anni vede dalla finestra la folla che spacca le vetrine dei negozi dei serbi di Zara, mentre a scuola gli insegnano che è colpa sua se stanno cadendo granate sulla città.

Ma chi ha avuto la forza di lasciare tutto questo alle spalle, ora può respirare una Croazia diversa. La nazionale balcanica è quella che ha il maggior numero di giocatori nati fuori dal paese che rappresentano, con il 15,4%. Fare appello ai figli di migranti, come il svizzero Ivan Rakitic e Mateo Kovacic, cresciuto in Austria, è vitale per un paese con una popolazione di poco più di 4 milioni per competere contro alcune delle più grandi nazioni del pianeta.

Ma estendendo lo sguardo su questi Mondiali cosmopoliti, il 10% dei giocatori della Coppa del Mondo sono nati al di fuori del paese che portano sulla maglia e il Marocco, con il 61%, è stata la capofila. E l’Inghilterra? Della squadra di Gareth Southgate, solo Raheem Sterling, nato a Kingston in Giamaica, è nato fuori dai confini britannici, ma il 47,8% sono figli di migranti. Questo rende la squadra etnicamente più eterogenea nella storia mondiale british. Il che carica di impegno e responsabilità i ragazzi e il ct:

Sarò prima di tutto giudicato per i risultati sul campo, ma abbiamo la possibilità di influenzare altre cose che sono ancora più grandi del calcio

 

Fonte: The Guardian

Troppo spesso siamo sommersi da quella bassissima retorica che punta il dito contro i calciatori perché, a detta loro, stupidi e talmente ricchi da restare al di fuori di tutto ciò che accade nel mondo. Ovviamente non è vero, anzi, sono molti i giocatori impegnati nel sociale ed altrettanti quelli che ancora percepiscono il valore di indossare una certa maglia, discorso che si amplifica quando si veste la casacca della propria nazionale, da sempre motivo d’orgoglio. Con l’incremento dei flussi migratori degli ultimi anni si sono venuti a creare molti casi nei quali un giocatore con la doppia nazionalità doveva prendere una decisione su quali colori indossare: la CNN ha intervistato Ghoddos, Zaha e Kompany per capire cosa ha determinato le loro scelte.

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Fonte foto: youtube.com

Fin da quando ero bambino ho posto sia la bandiera svedese che quella iraniana sopra il letto” esordisce così Saman Ghoddos, attualmente in forza all’Ostersunds. Le sue buone prestazioni nel 2017 gli sono valse la convocazione con la Svezia: il tecnico Andersson lo ha schierato nelle sfide amichevoli con la Costa d’Avorio e la Slovacchia, non compromettendo una sua futura decisione di vestire la maglia dell’Iran, nazione da dove provengono i suoi genitori. Ed è ciò che è avvenuto: “Il Ct Queiroz mi ha contattato dicendomi che gli piaceva il mio stile di gioco. Ai tempi non riuscivo a scegliere, la situazione era in equilibrio: amo entrambe le nazioni e credo di rappresentarle entrambe. L’Iran però si è mostrato realmente interessato a me e ciò ha fatto pendere l’ago della bilancia“. Ghoddos è stato decisivo per l’approdo degli asiatici al Mondiale e le sue prestazioni gli sono valse un posto nei ventitré che giocheranno la Coppa del Mondo in Russia.

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Fonte foto: saharareporterssport.com by Richard Heathcote/Getty Images

Un altro caso di doppia nazionalità è quello riguardante Wilfried Zaha che inizia dichiarando di non avere “alcun tipo di rimpianto“. La stella del Crystal Palace è nata in Costa d’Avorio ma all’età di 4 anni si è trasferito nel Regno Unito, come conferma egli stesso: “Tutto ciò che conosco riguarda l’Inghilterra“. La sua scelta iniziale fu di vestire la maglia dei Tre Leoni dove fece diverse presenze con l’Under 21 e un paio di amichevoli con la nazionale maggiore ma il rapidissimo esterno ha scelto la selezione africana: “Non ho ricevuto considerazione dall’Inghilterra per ben quattro anni, questo ha ovviamente influenzato la mia decisione. Gli ivoriani, invece, nonostante i miei ripetuti rifiuti iniziali hanno sempre cercato di portarmi dalla loro parte facendomi sentire importante“. Drogba ha avuto un ruolo importante in tutto ciò: l’ex centravanti del Chelsea ha ricordato a Zaha come è andato via dal suo paese natale non essendo nessuno e ci sarebbe tornato come eroe. Una favola che valeva la pena vivere.

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Fonte foto: eurosport.com

Il capitano del Manchester City, Vincent Kompany, si sente “100% belga e 100% congolese”. La sua scelta è stata quella di vestire la maglia della selezione europea ma secondo il difensore: “Spero che molte persone in Congo si sentano orgogliose delle mie prestazioni con la casacca del Belgio“.  Il centrale ha svelato un aneddoto particolare: “Nelle vie di Manchester associano me e Kevin (de Bruyne) al Belgio e a me questo fa piacere. Non bisogna mai rinnegare le proprie origini io rappresento la mia eredità familiare che attinge da tutte e due i paesi“.