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Nel secondo incontro del Girone B dei mondiali femminili l’Inghilterra supera 56-13 l’Italia al Billings Park di Dublino.

Partita molto fisica che ha visto le Azzurre giocare gli ultimi 16 minuti del match in inferiorità numerica a causa dell’infortunio occorso a Maria Magatti nella ripresa.

“Il risultato sicuramente non ci sorride – ha dichiarato Andrea Di Giandomenico, head coach dell’Italdonne -. Ci sono degli spunti positivi su cui continueremo a lavorare nei prossimi giorni. Soprattutto nel primo tempo siamo riusciti a mettere in difficoltà l’Inghilterra. Nella ripresa abbiamo sofferto la loro fisicità e l’inferiorità numerica nel finale. Giochiamo ogni quattro giorni, gli infortuni possono essere all’ordine del giorno. Rispetto alla gara contro gli USA ci sono degli aspetti positivi, ma siamo ben consapevoli che non basta. Continueremo a lavorare per giocare il miglior rugby possibile”.

Mondiali rugby femminili

 

Terzo e ultimo incontro per l’Italdonne nel Pool B contro la Spagna in calendario giovedì 17 agosto alle 14.45 locali (15.45 italiane) all’”UCD Park” di Dublino.

il tabellino

Inghilterra v Italia 56-13 (22-8)

Marcatori: p.t. 9’ m. Scarratt (5-0); 15’ m. Matthew tr. Scarratt (12-0); 19’ c.p. Schiavon (12-3); 23’ m. Magatti (12-8); 27’ m. Thompson (17-8); 39’ m. Cokayne (22-8); s.t. 45’ m. Taylor (27-8); 48’ m. Scarratt tr. Scarratt (34-8); 52’ m. Giordano (34-13); 56’ m. Waterman (39-13); 64’ m. Waterman tr. Reed( 46-13); 77’ m. Thompson (51-13); 79’ m. Wilson-Hardy (56-13)

Inghilterra: Waterman; Thompson, Scarratt (cap) (62’ Jones), Burford (41’ McLean), Wilson Hardy; Reed, Hunt (60’ Mason); Matthews (62’ Hunter), Packer (21’-30’ Millar-Mills) (62’ Millar-Mills), Noel-Smith; Alderoft, Taylor; Lucas (67’ Cleall), Cokayne (62’ Kerr), Clark (62’ Cornborough).

All. Middleton

Italia: Furlan; Sillari (55’ Stefan), Cioffi (61’ Madia), Rigoni, Magatti; Schiavon (41’ Zangirolami), Barattin (cap.); Giordano (57’ Gaudino), Locatelli, Arrighetti; Trevisan (57’ Ruzza), Fedrighi (66’ Tounesi); Gai (61’ Cucchiella), Bettoni (66’ Giacomoli), Ferrari

All. Di Giandomenico

Arb. Tim Backer (HKRU)

Calciatori: Scarratt (Inghilterra) 2/7; Schiavon (Italia) 1/2; Sillari (Italia) 0/1; Reed (Inghilterra)1/3

il calendario azzurro

9 agosto, USA – Italia 24-12 (5-0)

13 agosto, Inghilterra – Italia 56-13 (5-0)

17 agosto, Italia – Spagna (calcio d’inizio ore 15.45 italiane)

Genio! Genio! Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta…Gooool…Goool…Quiero llorar! Dios Santo, viva el fútbol!

Ta-ta-ta-ta. Una mitraglietta onomatopeica perché la lingua, torcigliata, non riusciva a star dietro alla velocità e alla rapidità di Maradona. Il commentatore uruguagio Victor Hugo Morales era allo stadio Azteca il 22 giugno 1986 per seguire Argentina – Inghilterra, quarti di finale della Coppa del Mondo.
Secondo dopo secondo, in un climax vorticoso, si stava rendendo conto di trovarsi a raccontare quello che poi verrà ufficializzato come il Gol del secolo. Aveva davanti a sé il genio e in qualche maniera doveva trasmettere quello che vedeva ai radioascoltatori o agli spettatori. Ma era impossibile: Diego Maradona spostava la palla e il suo baricentro con una velocità di pensiero da rendere ogni voce sospesa. I calciatori inglesi non riuscivano a stargli dietro, figurarsi la telecronaca. Per questo venne fuori quel “Ta-ta-ta-ta” così poetico da sembrare l’unica mossa più genuina e appropriata.

Lo stadio Azteca di Città del Messico già nel 1970 aveva acconto un momento calcistico storico “la partita del secolo” tra Italia e Germania terminata 4 a 3. A questo giro, Diego Armando Maradona, leader di un’Argentina e di un popolo che si aggrappò a lui, segnò due gol leggendari contro l’Inghilterra. Leggendari per due motivi differenti: il primo, segnato al 51’, fu pura scaltrezza con un secco anticipo sul portiere inglese Peter Shilton con un’impercettibile tocco di mano che verrà tramandato di padre in figlio come la “Mano de Dios” perché, al termine della partita, fu lo stesso numero 10 a dire:

Un po’ con la testa di Maradona ed un altro po’ con la mano di Dio

Tre minuti dopo Maradona firmò un’opera d’arte moderna, proiettando il dinamismo tipico dei futuristi, in un’altra dimensione. “Dinamismo di un fenomeno sguinzagliato”, si potrebbe dire parafrasando l’opera di Giacomo Balla. Maradona abbracciò la palla e la Storia di un popolo pronto alla rivalsa. Dodici tocchi tutti col suo imperante sinistro in meno di 10 secondi.  Una corsa a slalom lasciandosi alle spalle cinque inglesi, Hoddle, Reid, Sansom, Butcher e Fenwick. Due a zero che poi diventerà 2-1 finale con la rete di Lineker.

Con la guerra delle Falkland (o guerra de las Malvinas, in spagnolo) terminata appena quattro anni prima a “politicizzare” un palcoscenico unico e inarrivabile come una Coppa del Mondo, la gloriosa partita di Maradona contro l’Inghilterra racchiuse l’essenza del suo calcio tra furbizia e puro genio. Nessuno come lui nei secoli dei secoli.

A Lionel Messi (erede di un’era moderna e non sovrapponibile) gli si può solo riconoscere l’astuzia e la tenacia per aver provato a emularlo con beffarde coincidenze: nel 2007, quando la Pulce aveva ancora la maglia 19 al Barcellona perché la 10 era di proprietà di Ronaldinho, alla penultima giornata della Liga, segnò con la mano nel caldo derby contro l’Espanyol. Impossibile non ritrovare analogie:

Qualche mese prima, il 18 aprile del 2007, nella partita di semifinale di Coppa del Re, tra Barcellona e Getafe, Messi segnò un gol straordinario scartando metà squadra avversaria con una somiglianza, per zona di partenza dell’azione, progressione e dribbling al già citato gol di Diego Armando. E Messi doveva ancora compiere 19 anni:

 

Si interrompe in semifinale il sogno azzurro nel Mondiale Under 20, con la sconfitta 3-1 dall’Inghilterra dopo aver assaporato a lungo la possibilità di volare in finale. E’ il talento di due giocatori del Liverpool, Solanke e Ojo, a permettere alla nazionale di Simpson di rimontare il gol realizzato in avvio di gara dal solito Riccardo Orsolini dopo un primo tempo in cui l’Italia aveva legittimato il vantaggio, mettendo in mostra quello spirito di gruppo alla base dei successi contro Francia e Zambia.

“Grazie ragazzi – il commento del presidente federale Carlo Tavecchio – nonostante la sconfitta siete riusciti ad unire e appassionare nuovamente l’Italia calcistica. Adesso restate concentrati su un ultimo sforzo, puntiamo al terzo posto”.
Al ‘World Cup Stadium’ di Jeonju l’Inghilterra riesce così a riscattare la sconfitta subita dagli Azzurrini un anno fa nella semifinale dell’Europeo Under 19 e, riavvolgendo il nastro della partita, è evidente il cambio di passo degli inglesi nei secondi 45 minuti, con l’impatto devastante sulla gara di Oluwaseyi Ojo.

Privo dello squalificato Pezzella, sostituito da Dimarco, Evani ritrova Mandragora, che ha scontato nei quarti con lo Zambia il turno di squalifica. E’ proprio il capitano azzurro dopo due minuti a battere a sorpresa un calcio di punizione sulla trequarti campo, Pessina lancia in profondità Favilli che serve l’accorrente Orsolini: il piatto in corsa dell’attaccante dell’Ascoli non lascia scampo a Woodman.

E’ il quinto gol al Mondiale per Orsolini, sempre a segno nelle ultime cinque gare. Il vantaggio lampo dà fiducia alla squadra di Evani, brava a chiudersi nella propria metà campo per poi sfruttare le ripartenze. Il primo acuto degli inglesi arriva al 16’, ma Dowell non sfrutta la mancata copertura di Dimarco e da pochi passi manda alto sopra la traversa. La sensazione è che l’Italia possa colpire ogni volta che si affaccia in avanti, mentre la nazionale inglese è lenta nel giro palla e fatica a trovare spazi.
In chiusura di primo tempo si sveglia però la stella della formazione di Simpson, quel Dominic Solanke lanciato da Mourinho e nuovo acquisto del Liverpool: al 42’ manda di testa a lato su cross di Lookman e un minuto più tardi scaglia un destro potente da fuori area disinnescato con i pugni da Zaccagno.

Nella ripresa l’Inghilterra riesce ad alzare il baricentro e si affida al talento di Solanke, ad un passo dal gol dell’1-1 con un sinistro che sfiora il palo dopo una progressione di trenta metri. Ma è l’ingresso in campo di un altro giocatore in forza al Liverpool, Ojo, a cambiare il corso del match: il centrocampista dei Reds fa valere tutta la sua fisicità e, dopo aver colpito dalla distanza l’esterno del palo, chiama Zaccagno alla respinta con i piedi.

E’ da una sua discesa che nasce al ’66 il gol dell’1-1: cross dalla destra e palla smanacciata da Zaccagno sui piedi di Solanke, che dall’altezza del dischetto non perdona. C’è lo zampino di Ojo anche nella rete del 2-1, con Lookman bravo a raccogliere il cross lungo del compagno e a calciare in porta dopo aver sfruttato un rimpallo. Evani prova a giocarsi la carta Vido, autore del gol decisivo con lo Zambia, ma all’88’ Solanke dalla distanza piega le mani a Zaccagno e realizza la doppietta che chiude la partita.

A volare in finale è l’Inghilterra, mentre domenica a Suwon (ore 15.30 locali, le 8.30 italiane) gli Azzurrini affronteranno nella finalina per il 3° posto l’Uruguay, sconfitto ai rigori dal Venezuela e vittorioso 1-0 contro l’Italia lo scorso 21 maggio nella prima gara della fase a gironi.

“Mi sono complimentato con i ragazzi – l’analisi di Alberico Evani – hanno disputato un ottimo torneo raggiungendo una semifinale storica. L’Inghilterra ha meritato la vittoria, abbiamo giocato un buon primo tempo, ma poi sono finite le energie. Faticavamo a muovere la palla, loro hanno creato diverse occasioni e, anche grazie al lavoro degli esterni, sono riusciti a segnare tre gol. Ora ci giocheremo il terzo posto con l’Uruguay, abbiamo disputato tante partite ravvicinate quasi sempre con gli stessi giocatori e domenica avrà modo di scendere in campo chi finora ha giocato meno”.

il tabellino

Italia-Inghilterra 1-3

Marcatori: 2’ Orsolini, 66’ Solanke, 76’ Lookman, 88’ Solanke
Italia (4-3-3). Zaccagno, Scalera (87’), Bifulco, Coppolaro, Romagna (C), Dimarco, Vitale (Vido 78’), Pessina, Cassata, Orsolini, Favilli, Panico (Ghiglione 69’). All. Evani. A disp. Perisan, Plizzari, Sernicola, Marchizza,.
Inghilterra (4-2-3-1). Woodman, Kenny, Salter, Tomori, Walkers, Cook, Maitland, Dowell (Ojo 54’), Solanke, Lookman (Konsa 91’), Lewin. All. Simpson. A disp. Henderson, Southwood, Fry, Connolly, Chapman, Ejaria, Armstrong,
Arbitro. Antonio Mateu Lahoz (ESP)
Note. Ammoniti: Orsolini, Favilli, Kenny, Vido, Mandragora

Dopo la storica qualificazione alla semifinale ottenuta contro lo Zambia, questa mattina l’Italia Under 20 si è trasferita da Suwon in autobus a Jeonju, circa 230 km verso sud, dove giovedì (ore 13 italiane – diretta su Eurosport 2) al ‘World Cup Stadium’ affronterà in semifinale l’Inghilterra.

“E’ vero che abbiamo scritto la storia conquistando una semifinale mondiale, ma ancora non abbiamo fatto nulla”. Dopo la storica qualificazione ottenuta ieri contro lo Zambia, il difensore dell’Italia under 20 Federico Dimarco – autore del 2-2 che ha portato la partita ai supplementari – non si sente appagato: “Come ci ha detto mister Evani nello spogliatoio ieri, dopo la partita – aggiunge il giocatore dell’Empoli – non ci dobbiamo accontentare, sarebbe un errore. Noi questa storia la vogliamo scrivere arrivando fino in fondo”.

Giovedì è in programma la semifinale contro l’Inghilterra.

Il giocatore dell’Empoli, rimasto in Italia per cercare di conquistare la salvezza con il suo club di appartenenza, ha raggiunto la Nazionale solo dopo la fase a gironi esordendo contro la Francia e subentrando ieri nel march con lo Zambia, quando Evani ha dovuto fronteggiare l’emergenza provocata dall’espulsione di Pezzella:

“Entrando contro la Francia – racconta Federico – ho provato una profonda emozione, ma ieri mi sono emozionato ancora di più. Ho sentito il peso dell’impegno, dato che dovevamo affrontare un match così importante in dieci. Per come è andata, non potevo chiedere di meglio: il gol e l’assist a Luca (Vido, ndr) mi hanno regalato una soddisfazione che ancora adesso sto assaporando”.

 

La Uefa al fianco della Gran Bretagna per riportare i Mondiali in Europa. A Cardiff per la finale di Champions, Aleksander Ceferin, numero uno della Confederazione europea, assicura il pieno sostegno a un’eventuale candidatura britannica per la Coppa del Mondo in programma nel 2030.

In settimana la Vivo è diventata il terzo sponsor cinese della Fifa, accordo che rafforzerebbe le ambizioni di Pechino per il 2030 “ma le regole non possono cambiare solo perché ci sono dei grossi sponsor, tocca all’Europa ospitare la Coppa del 2030″, la posizione di Ceferin alla “BBC Sport“.

Che si presenti l’Inghilterra da sola o assieme a Scozia, Galles e Irlanda del Nord “è una decisione che riguarda non solo la Federazione ma anche il governo e le altre parti in causa, di sicuro meritano di ospitare un Mondiale in un futuro non lontano. Sono sicuro che hanno le capacità per farlo e se decideranno di farsi avanti avranno il nostro pieno supporto”.

Che assumano infermieri negli ospedali nel giro dei prossimi nove mesi perché questa notte si farà tanto l’amore…

L’aveva detto, tra i salti di gioia e le capriole nell’aria, Gerard Piqué, difensore del Barcellona dopo la clamorosa rimonta contro il Psg demolito 6-1 nell’ottavo di Champions League. Un’euforia incontenibile, da far saltare gli schemi e le inibizioni. Il calcio è così: sentimenti, passione e amore. Tanto amore.

Da Barcellona si vola in Islanda, l’underdog dello scorso Europeo che ha sorpreso tutti, spingendosi, inaspettatamente, alla sua prima apparizione, ai quarti di finale. Rimarrà nella storia la coreografia ritmica con cui festeggiavano calciatore e tifosi, quel “geyser sound” che ha spopolato in rete conquistando sempre più beniamini che hanno iniziato a tifare per i vichinghi nordici.
Ma sarà scolpita negli attimi più belli del calcio, la vittoria a sorpresa della Nazionale islandese, contro l’Inghilterra, negli ottavi, in rimonta per 2-1, con le reti di Ragnar Sigurðsson e di Kolbeinn Sigþórsson, che hanno risposto al rigore di Wayne Rooney.

Era il 26 giugno 2016. Gli autori del Brexit calcistico, guidati dall’allenatore Lars Lagerback, fecero vivere una notte di festa, una notte indimenticabile. Da celebrare “intimamente” con lo spirito più genuino. Come detto da Piqué.
Detto fatto, come raccontato da un dottore locale sulle pagine del quotidiano islandese Visir, dopo nove mesi da quel giorno di giugno (tra il 26 marzo 2017 e i giorni precedenti e successivi) nell’isola islandese si è registrato un boom di nascite e di anestesia epidurale.
Un incremento anomale e improvviso, statistiche sballate e inattese, come quei gol segnati a Nizza che hanno portato l’Islanda tra le otto grandi d’Europa, prima di sbattere contro i padroni di casa francesi che si sono imposti per 5-2 nei quarti.

Abbiamo stabilito il record di epidurali nel reparto maternità questo fine settimana. Nove mesi dopo la vittoria 2-1 con l’Inghilterra

Così ha postato su Twitter, Asgeir Petur Porvaldsson, medico del reparto di anestesiologia dell’ospedale di Landspitali.
Beh, che dire. “Evviva la vita”, come diceva Rino Gaetano nella canzone “Gianna”:

Ma la notte la festa è finita, evviva la vita
La gente si sveste e comincia un mondo
un mondo diverso, ma fatto di sesso
e chi vivrà vedrà…

Possiamo srotolare tutti gli appellativi prendendo prestiti dalla cultura di massa, dalla letteratura, mitologia o dalla musica: la sfida di Champions League tra Napoli e Real Madrid, in 180 minuti da giocare al Bernabeu e al San Paolo, può avere numerose etichette.
La classica, quella più inflazionata, ci porta alla battaglia tra il gigante Golia e Davide, reminiscenze bibliche che trovano eco nel primo libro di Samuele. Il guerriero filisteo che, a prima vista sembrava invincibile, sconfitto dall’arguzia di Davide e dalle cinque pietre scagliate con la sua frombola.
Dalle citazioni coraniche fino alle opere di Caravaggio, del Bernini o di Tanzio, il dualismo intelletto-forza bruta si è propagato nel linguaggio più comune dei nostri giorni.

Tra i tanti ricami saltati fuori attorno a quest’entusiasmante sfida, oltre al ricordo dell’unico doppio precedente (nel 1987, 2-0 per i merengues all’andata in un Bernabeu a porte chiuse; 1-1 al ritorno in casa dei partenopei), Napoli contro la squadra bianca di Madrid è un match di campioni. Tanti sono i calciatori vincenti che hanno sfilato tra la penisola flegrea e quella sorrentina, tra Puerta del Sol e il Palacio Real. Tra loro ci sono anche discreti campioni del Mondo.

In occasione del Mondiale del 2014 giocato in Brasile, il tabloid inglese Daily Mail pubblicò un articolo sui team e, di riflesso, sui campionati maggiori nazionali che hanno avuto il maggior numero di calciatori vincitori di un Mondiale mentre erano tesserati tra le loro file. Nel complesso, la Serie A ha avuto ben 90 calciatori laureatisi campioni del Mondo (con la Juve in testa con 22, seguita dall’Inter con 18).
Anche la Triestina o la Lucchese o il Lecce possono vantare un menzione speciale, ma tra i pezzi da novanta, a Napoli, ricorderanno con piacere uno in particolare, tanto da dedicargli un altarino in via San Biagio dei Librai: nato a Lanús il 30 ottobre 1960 e con l’azzurro, il bianco e il sole cuciti sulla pelle, che sia dell’Argentina o del golfo, “El Pibe de oro”, Diego Armando Maradona.

Ecco che l’accezione Davide contro Golia acquista una sfumatura in più che ne aumenta la tensione, l’ansia e la scaramanzia. Ma che innalza anche la qualità. Se Maradona è l’unico “napoletano” campione del Mondo, il Real Madrid, infatti, può sfoggiare quasi una formazione intera: ben 10 hanno sollevato in trionfo la gloriosa coppa d’oro di Silvio Gazzaniga.
L’infornata più grande, va detto, è merito della Spagna totalizzante dell’ultima era, con due Europei e il Mondiale vinto nel 2010 nella finale contro l’Olanda decisa da Iniesta.

Ben cinque facevano parte di quella spedizione: il portiere Iker Casillas, i difensori Sergio Ramos, Álvaro Arbeloa e Raúl Albiol (ex di questo incontro assieme a José Callejon) e il centrocampista Xabi Alonso.
A completare la formazione ideale ci sono ancora: il terzino brasiliano Roberto Carlos (Corea del Sud-Giappone 2002) che chiude la difesa a 4, così come 4 sono i centrocampisti con il francese Christian Karembeu (Francia 1998) e il duo tedesco Günter Netzer (Germania Ovest 1974) e Sami Khedira (Brasile 2014). Mancherebbe una punta per completare il modulo, ma al Madrid può bastare un solo attaccante: l’argentino Jorge Valdano (Messico 1986).

Nella storia gloriosa a ritmi alterni del Napoli, Maradona è lui l’unico trofeo che i partenopei possono vantare di più di ogni altra cosa. Perché nel Mondiale del 1986, il numero 10 argentino dimostrò che si possono avere tanti campioni in squadra, ma lui era diverso. Speciale, irriverente, imprendibile, leader. Quello che non erano gli altri.
Quello del 1986 fu un Mondiale perfetto nella sua complessità, nelle sue polemiche, nelle sue tensioni politiche. Forse, anche per questo, irripetibile.
Ma senza ombra di dubbio fu un’edizione piena di stelle: dalla Francia di Platini, all’Inghilterra di Linecker, passando per il Brasile di Socrates e la Germania di Rummenigge. E di una rete fantasmagorica: il gol degli “11 tocchi” di Maradona contro l’Inghilterra, seguita dal telecronista sudamericano che non riesce a stargli dietro e si limita a esclamare “ta-ta-ta”.
Qualche istante prima, invece, la marcatura, altrettanto memorabile, passata alla storia come la “mano de Dios”. La più grande scorrettezza e la più bella magia, insieme nella stesa partita. Solo a Diego è concesso fare questo. Tra la guerra delle Malvine, la crisi diplomatica tra due paesi che, per il controllo delle Folkland, hanno impugnato le armi; tra Inghilterra e Argentina c’era solo lui.

Per tutti gli argentini e per gli sportivi, quello sarà per sempre il Mondiale di Maradona. Lui è riuscito a segnare un passaggio importante nel calcio: si può essere trascinatori di un’intera squadra. Anche da soli.
Come ha detto Giovanni Galli, portiere dell’Italia quell’anno:

Se Maradona avesse vestito la maglia della Corea, quell’anno la Corea avrebbe vinto il Mondiale

Negli ultimi anni il duopolio Messi-Cristiano Ronaldo ha ridotto l’assegnazione del Pallone d’oro a una sfida al limite della monotonia, provocando una certa disaffezione tra gli appassionati di calcio che vedono il prestigioso trofeo, assegnato su idea della rivista sportiva francese France Football, al pari di un Telegatto piazzato ogni anno a Mike Bongiorno. Scontato e anche un po’ banalizzato.
Dal 2010, ma solo fino al 2015 – complice un sentito fallimento della proposta- il riconoscimento si è fuso con il Fifa World Player of the Year, dando vita a un nuovo premio denominato Pallone d’oro Fifa, con votazione estesa non solo ai giornalisti sportivi provenienti da tutto il mondo, ma anche agli allenatori e capitani delle nazionali affiliate alla Federazione internazionale.

Una trovata tra il marketing e la personale “stima” dell’amico calciatore che, di fatto, non è piaciuta e ha ulteriormente accentuato l’accentramento del premio tra la star del Barcellona e quella del Real Madrid che si spartiscono il trofeo dal 2008 (Kakà è stato l’ultimo umano a vincerlo nel 2007).
Quest’anno si è tornati nella vecchia formula, ma forse, mai come negli ultimi anni il Pallone d’oro è stato vinto meritatamente da Cristiano Ronaldo che nell’anno solare 2016 ha messo in bacheca personale la Champions League con il Real Madrid e l’Europeo con il Portogallo. Impresa non esattamente alla portata di tutti.

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Eppure dalla sua nascita nel 1956, il Pallone d’oro si svincolava dalla conquista di altri trofei che in qualche maniera giustificasse l’assegnazione; semplicemente si votava il calciatore più forte dell’anno, con un solo limite: dal 1956 fino all’edizione del 1994, infatti, il regolamento imponeva che il giocatore dovesse essere di nazionalità europea per poter aspirare al titolo; dal 1995 questa distinzione è stata superata, potendo quindi concorrere al premio anche giocatori di nazionalità extra-europea, ma appartenenti a squadre europee; dal 2007 possono concorrere al premio, calciatori militanti in qualsiasi club della Fifa.

Nel 1956, anno della prima edizione, i giornalisti di 16 Nazioni europee assegnarono il pallone doro a Stanley Matthews, ala destra del Blackpool, davanti al madridista Alfredo Di Stéfano e al francese Raymond Kopa. Un riconoscimento, si dirà più avanti, alla sua lunga lunghissima carriera, alla sua impresa maggiore: conquistare coi The Tangerines (i mandarini) la prestigiosa FA Cup tre anni prima. Pelé disse di Matthews:

Ci ha insegnato il modo in cui il calcio deve essere giocato

Un attestato di stima che la dice lunga sull’impatto che l’ex nazionale inglese ha avuto sul calcio e, più in particolare, sul ruolo dell’ala. Soprannominato “The Wizard of football”, la carriera di Matthews abbracciò tre decenni, ma solo due distinti club: Stoke City (dal 1932 al 1947, e poi successivamente dal 1961 al 1965) e Blackpool (dal 1947 al 1961). Esordio a 17 anni, ultima partita da professionista cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni; un Pallone d’oro conquistato a 41 anni e due Mondiali con l’Inghilterra nel 1950 e 1954, giocando con la maglia dei Tre Leoni fino a 42 anni (nessuno lo ha ancora superato).

E’ il 2 maggio 1953 il suo giorno, la partita che è passata alla storia come la “finale di Matthews”. Nel prestigioso stadio di Wembley si giocava la finale di Fa Cup, il trofeo più antico del mondo, tra il Blackpool di Stanley e il Bolton, largamente favorito, che dopo soli 75 secondi, conferma i pronostici della vigilia passando in vantaggio e raddoppiando al 18′. Un gol del Blackpool nel primo tempo, illuse i mandarini che si ritrovarono subito sotto per 3-1 all’inizio della ripresa.
A Wembley ci fu record di affluenza, c’erano 100mila persone, molte solo per incoraggiare Matthews che, però, sulle gambe, era piegato in due dalla stanchezza. A 38 anni a inseguire gli avversari più giovani, a correre, dribblare e fare su e giù sulla fascia. Ma ecco la magia: al 69’ Stanley Matthews trascina la squadra alla rimonta, involandosi sulla destra e crossando in mezzo per Mortensen che segnò il 2-3. A un minuto dal 90esimo è ancora Mortensen a realizzare il 3-3, su punizione. Quando tutti erano con la testa ai supplementari, Matthews, mai domo,  ancora sulla fascia, scodellò un altro pallone, questa volta, a Perry che trasforma il 4-3 finale.

Hai 32 anni, pensi di riuscire a giocare un altro paio di stagioni?

E’ quello che disse Joe Smith, allenatore del Blackpool a Stanley Matthews nel 1947. Sei anni prima della finale di Fa Cup e nove anni prima del Pallone d’oro.

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Lo abbiamo lasciato piegato in due su se stesso, con il fraterno abbraccio di Luis Suarez a consolare chi, nella sua lunga, tenace e sempre controcorrente carriera, si è ritrovato a lottare contro nemici più grandi di lui. Capitano del Liverpool, capitano dell’Inghilterra in un’era del football dal forte sapore amarognolo, dal grande potenziale smarrito per strada. Una condanna eterna, per chi nell’eternità ci entra a colpi di tackle, sassate da fuori area e inserimenti puntuali. Geometra e scassinatore, progressista del centrocampo moderno. Steven Gerrard, annunciando il suo ritiro dal calcio giocato ha detto:

Ho avuto una carriera incredibile e sono grato per ogni momento della mia carriera a Liverpool, con l’Inghilterra e nei Los Angeles Galaxy. Mi sento fortunato ad aver vissuto così tanti momenti meravigliosi nel corso della mia carriera

Se con il Liverpool la gioia più grande l’ha provata nella notte pirotecnica di Istanbul con la vittoria della Champions League ai danni del Milan, in Nazionale le cose sono andate diversamente. Drammaticamente. Dalla felicità del suo esordio, il 31 maggio 2000, a 20 anni compiuti da un giorno, alla prima acerba delusione per il Mondiale del 2002 saltato per un infortunio, fino ai ripetuti ceffoni presi nelle edizioni successive. Dodici partite in tutto, da Germania 2006 a Brasile 2014. Lui ha provato a invertire un destino nefasto, un peccato originale che la Nazionale inglese si trascina da mezzo secolo. Ecco alcune istantanee che immortalano gli alti e i bassi di Gerrard nelle sue esperienze mondiali:

10 giugno 2006 – L’esordio in un Mondiale con la maglia dell’Inghilterra

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E’ il primo Mondiale per Steven Gerrard, gara d’esordio nel Girone B contro il Paraguay e lo inizia alla sua maniera. Tanta intensità a centrocampo, derviscio trita palloni ed entrate decise a tenaglia contro gli avversari sudamericani (vedere qui). Mentre Lampard, accanto a lui nella mediana di centrocampo, mantiene una certa compostezza mista a brillantina in testa e pensa principalmente ad avanzare e a cercare la rete, Stevie, fastidioso, si sporca sin da subito i calzettoni bianchi beccandosi un’ammonizione dopo appena 19’. Come diceva Brera, nella mente del numero 4 c’era solo da menare il torrone;

15 giugno 2006 – Il primo gol al Mondiale

English midfielder Steven Gerrard (L) sh

Va bene essere sporchi e cattivi, ma Gerrard, colui che ha anticipato i tempi incarnando il ruolo del centrocampista fosforo&tacchetti, doveva lasciare il suo timbro personale – non sui parastinchi degli avversari – al Mondiale in Germania. Contro Trinidad&Tobago, in un match viscoso sbloccato solo sul finale da Peter Crouch, il ragazzo del Liverpool chiude i giochi al 91’ con un bel tiro di sinistro piazzato all’angolino alto, dopo una bella finta a rientrare da fuori area;

20 giugno 2006 – Usa la testa Stevie!

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La Nazionale dei Tre Leoni, che ha raccolto più punti che bel gioco, si fa travolgere dagli assalti della Svezia. Il gol spettacolare di Joe Cole non cambia la storia dell’incontro, fino all’ingresso di Gerrard. Entrato al 70’, quando l’1-1 sembrava andar più che bene all’Inghilterra e strettissimo agli svedesi, dopo 16 minuti, il centrocampista riceve in area un cioccolatino morbido del solito Joe Cole e dolcemente, ma con giustezza infila Isaksson di testa. L’incontro termina comunque 2-2 e l’Inghilterra di Sven-Göran Eriksson accede agli ottavi contro l’Ecuador;

1° luglio 2006 – Non è da questi particolare che si giudica un giocatore

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Rigori, dannati rigori. Contro il Portogallo, l’Inghilterra crea tante occasioni quante ne ha avute in tutti i match precedenti della fase a gironi, nonostante l’inferiorità numerica per l’espulsione scellerata di Rooney al 62’. Non bastano 120 minuti: Ricardo e la difesa portoghese alzano le barricate e, in queste circostanze (Gerrard lo sa bene pensando a Milanliverpooltreatre), chi l’ha giocata meglio alla fine cade nel tranello della tensione, della paura. Dagli 11 metri sbaglia subito Lampard, la rimette in piedi Hargreaves, poi crollo definito proprio di Stevie G. e del suo fido alleato in zona Merseyside, Jamie Carragher. Quattro rigori, tre errori, auf Wiedersehen Mondiale;

12 giugno 2010 – Con la fascia di capitano al braccio

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Dopo la clamorosa mancata qualificazione agli Europei del 2008, l’Inghilterra si presenta al Mondiale del 2010 con Fabio Capello in panchina e Steven Gerrard a guidare una Nazione con la fascia di capitano al braccio. E’ un tentativo di rinascita dopo la fallimentare gestione di McLaren, lo scandalo che coinvolse la vita privata di Terry, capitano fino a quel momento. Nei piani di Capello, in realtà, la fascia sarebbe spettata a Rio Ferdinand, ma un infortunio gli fece saltare quell’edizione dei Mondiali. Gerrard, in questa tormenta, è sempre lì: nel match d’esordio contro gli Stati Uniti è proprio lui a segnare la prima rete dell’Inghilterra. Classico inserimento che lo hanno reso giocatore moderno e poliedrico. L’incontro finirà 1-1;

27 giugno 2010 – La disfatta tedesca

Le istantanee che hanno fatto la storia di questo incontro e del calcio moderno sono due: il frame che immortala il gol di Lampard non convalidato, nonostante la palla avesse superato di netto la linea e la successiva disperazione del centrocampista del Chelsea. Quello in Sudafrica è stato un Mondiale sciapo per l’Inghilterra: dopo il pareggio all’esordio, segue uno spento 0-0 contro l’Algeria e una vittoria risicata contro la Slovenia. Contro la Germania è notte fonda: finisce 4-1, con la beffa di una possibile rimonta strozzata da un gol non visto (poteva essere il possibile 2-2). Unico sussulto parte dal solito piede di Gerrard che scodella in mezzo il cross per il 2-1 momentaneo realizzato dal difensore Upson. Solo tre reti per i Tre Leoni a questo giro: il capitano del Liverpool, magra soddisfazione per un Mondiale condotto da capitano, partecipa attivamente in due di queste;

19 giugno 2014 – La fine di un’era sbagliata: sconfitta contro l’Uruguay e titoli di coda

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Un lento declino che trova nel Mondiale del 2014 in Brasile la mazzata finale. Lo scetticismo che c’è attorno a Roy Hodgson trova conferme sul campo: Gerrard è ancora il capitano di una Nazionale che prova a ridisegnarsi con Sturridge, Sterling e Wellbeck su tutti, ma che si affida ancora alla Golden Generation di Lampard, Rooney e Gerrard appunto. Ma le cose vanno male. L’Italia sconfigge l’Inghilterra all’esordio per 2-1, il girone D è anomalo con Uruguay e Costa Rica a dettare legge, l’Inghilterra annaspa e crolla proprio nel secondo incontro, contro Suarez&co.
E’ la cartolina di addio, poche parole scritte frettolosamente per dimenticare al più presto. E’ Suarez che abbraccia e consola Gerrard a fine incontro, due amici, due che hanno provato a scrivere un pezzo di storia a Liverpool. Ed è un peccato che sia stato proprio il centrocampista col numero 4 sulle spalle a spizzare la sfera di testa consegnandola al letale attaccante per il gol del 2-1. La Nazionale della Regina è già fuori, per Gerrard è l’ultima partita con la fascia da capitano: nell’ultimo, inutile, match contro il Costa Rica, entra, infatti, a partita in corso.

Dopo 14 anni, 114 presenze, 21 gol, tra gioie, lacrime e delusioni, tra contrasti, calzettoni sporchi e tagliati e la carica di un condottiero che si è perso tra primedonne, quella volta chiuse con la Nazionale. Questa volta è davvero finita. Stevie, it’s over.