Tag

fiorentina

Browsing

Ben 51 anni fa nasceva, in una cittadina del profondo Veneto a due passi da Vicenza, quello che, a detta di molti, è stato il più cristallino talento che il nostro calcio abbia saputo plasmare nel Dopoguerra, un calciatore che con la sua eleganza di tocco e di movenze sapeva far apparire semplice anche il più complesso esercizio di tecnica, che ha saputo essere decisivo con il proprio club e con la Nazionale, riuscendo a raggiungere nel 1993 il massimo riconoscimento a cui un calciatore possa ambire: il Pallone d’Oro. Nasceva Roberto Baggio.

Le sue gesta sono state capaci di un unire forte un paese, l’Italia, sicuramente più propenso a dividersi nelle opinioni e nei comportamenti, dove si reputa forte chi critica più aspramente, chi si dimostra più sprezzante ed offensivo.Si può facilmente ammettere che Baggio sia stato l’idolo senza maglia.

Con Roberto Baggio tutto questo non era possibile: lui era il calcio, non potevi non amarlo. Al più, potevi sentirti tradito come da una compagna che ti ha lasciato senza apparente motivo ma a cui sei comunque legato, come accadde ai tifosi della Fiorentina quando, nella stagione 90/91, Roby passò alla corte dell’odiata Juventus di Gigi Maifredi per 16 miliardi di lire e il cartellino di un altro dei prospetti più interessanti del calcio di quegli anni, Renato Buso. A Firenze ci furono proteste di piazza contro la Presidenza Pontello e scontri che mai si erano visti per la cessione di un giocatore ma il troppo amore può portare anche a questo, ad andare oltre le righe.

Il suo nome è inscindibilmente legato a due eventi: la vittoria del Pallone d’Oro 1993 e il Mondiale di Usa ’94.

IL PALLONE D’ORO 1993

Il 1993 è un’annata dorata per il fenomeno di Caldogno: Baggio, nonostante la miriade di infortuni già patiti nel corso della sua giovane carriera, riesce infatti ad essere decisivo per la conquista della Coppa Uefa da parte della Juventus con tanto di doppietta nella finale di andata contro il Borussia Dortmund.
Quell’anno non ce n’è per nessuno: Roby vince il Pallone d’Oro davanti a Dennis Bergkamp e Eric Cantona, il Fifa World Player e l’Onze d’Or guadagnandosi un posto indelebile nella storia del calcio.

Ma il suo mito è sicuramente annodato alle sue clamorose prestazioni al mondiale americano dove risollevò dalle proprie ceneri un’intera Nazionale portandola ad un passo dalla più clamorosa delle vittorie Mondiali.

USA ‘94

 I mondiali di calcio, in quel ‘94 sarebbero stati disputati in America. Mossa, riuscita, voluta dalla Fifa per provare ad appassionare al “soccer” un popolo abituato a sport più sedentari come il baseball o il football americano.
La Nazionale di Sacchi arrivava negli States nell’occhio del ciclone della critica e con il morale sotto i tacchi dopo l’indimenticabile sconfitta 2-1 con il Pontedera in un’amichevole di preparazione, che aveva messo sulla graticola l’Arrigo nazionale e tutti i suoi fedelissimi.

E di certo i risultati del primo girone eliminatorio non autorizzavano a pensieri sereni visto che gli Azzurri superarono il turno per il rotto della cuffia come migliore terza grazie ad una sudatissima vittoria con la Norvegia, dopo una sconfitta con l’Eire e prima di un pareggio risicato (1-1 gol di Massaro) con il Messico.
Proprio contro i colossi scandinavi si assisteva al punto più basso della campagna statunitense di Baggio. Gli azzurri iniziano contratti e la Norvegia ci crede. Al 21’ Mussi sbaglia il fuorigioco, Leonhardsen si invola verso la porta e viene steso da Pagliuca: rosso inevitabile. Sacchi, preferendo la corsa di Signori alla creatività di Baggio, lo richiama in panchina.
Fortunatamente in squadra – guarda il caso – c’è un altro Baggio, Dino, che al 69’ trova la giusta incornata e scaccia l’incubo.

Agli ottavi c’è la Nigeria, squadra giovane e dinamica, che ha destato una grande impressione mettendo in mostra alcune perle assolute, come J.J. Okocha, Finidi George e Oliseh. Gli africani partono forte e vanno in vantaggio con Amunike, restiamo in 10 per il protagonismo del pessimo arbitro Brizio Carter e non ci sono scintille di reazione.

La partita sembra finita e sepolta, la Nazionale pronta alla giubilazione, all’esonero cruento Sacchi, alla decapitazione Matarrese. Sembra già tutto deciso, ma nessuno ha fatto i conti con due fattori che hanno poco di terreno: la Regola del 12 e un marziano di nome Roberto Baggio.
Mussi vince un rimpallo e fornisce a Baggio la palla della vita: Pareggio all’ultimo respiro. E’ qui che il “Divin codino” ci fa capire la sua grandezza: riesce a far sbottonare un rigido Sandro Ciotti che, durante la radiocronaca, esclamò un «Santo Dio, era ora!» che mette ancora i brividi.
Nei supplementari, Benarrivo si invola in area e viene steso: Roby insacca dal dischetto e portiamo a casa un’insperata qualificazione ai quarti.

Da quel momento in poi è storia nota: Roby si sblocca e, con prestazioni ai limiti dell’umano con Spagna (gol vittoria) e Bulgaria (doppietta d’autore), ci porta quasi da solo a Pasadena dove purtroppo il finale, al cospetto dell’eterno nemico Brasile, è quello che tutti ricordiamo. Davanti a Taffarel la tensione anestetizza Baresi, Massaro e proprio Baggio e la Coppa del Mondo va a Brasilia.

Ma tant’è: non è certo da un calcio di rigore che si giudica un giocatore. Baggio è stato la delizia degli allenatori che hanno avuto la fortuna di poterlo annoverare tra le fila delle loro squadre grazie al suo talento cristallino e alla sua capacità di determinare nei momenti decisivi. Qui sta la grandezza del calciatore. Certo, come tutti i geni, il suo temperamento era solo apparentemente remissivo, prova ne siano gli screzi avuti con Arrigo Sacchi e, ancor più, con Marcello Lippi, ma la sua professionalità e la sua dedizione alla causa sono sempre rimaste intatte. Qui sta la grandezza dell’uomo.

Roberto Baggio è stato una perla preziosa, una stella del firmamento calcistico.
A questo punto, che si può dire di fronte a un campione di queste dimensioni nel giorno del suo cinquantesimo compleanno? Forse la semplicità è la soluzione migliore: Buon compleanno Divin Codino. E grazie di tutto.

Ha lasciato Milanello con non poche critiche, è stato esonerato dalla società rossonera del Milan per gli scarsi risultati ottenuti sul campo, dopo una campagna acquisti a suon di milioni l’estate scorsa.

Ovviamente stiamo parlando di mister Vincenzo Montella che ora si è trasferito in Andalusia per guidare il Siviglia FC, uno dei club più importanti di Spagna vincitrice soprattutto in Europa: conquistando tre delle ultime quattro edizioni dell’Europa League.

Poche settimane senza squadra dunque per l’ex aeroplanino, che “è volato” in Liga in cerca di riscatto dopo una prima parte di stagione fallimentare nel Milan.

Ringrazio la società per avermi offerto questa grande occasione. Sono ambizioso, voglio vincere da allenatore e farlo con le mie idee e questa è la squadra ideale per il mio modo di vedere il calcio.

Inculcare la sua idea di calcio non sarà semplice in poche sedute di allenamento. Domani c’è già il debutto in Coppa del Re contro il Cadice nel match d’andata degli ottavi di finale, mentre sabato prossimo ci sarà la sfida contro i cugini del Betis, in un derby che si annuncia caldissimo al Sánchez-Pizjuán.

La squadra viene da un periodo difficile. I risultati sono stati altalenanti: in Liga sono quinti alle spalle di Barcellona, Atletico, Valencia e Real. Ma deve stare attenta al ritorno del Villareal e della sorpresa Eibar. L’esonero di Eduardo Berizzo e l’arrivo di Montella sta proprio nel dare una scossa allo spogliatoio Rojiblancos.

Un contratto fino al 2019 per l’ex tecnico di Milan e Fiorentina che nel suo staff ha deciso di avere un altro Italians: l’ex centrocampista Enzo Maresca, uno che Siviglia la conosce bene dopo aver trascorso 4 stagioni e vinto molto.

La decisione del presidente Josè Castro di puntare sull’allenatore campano è stata ponderata e voluta al appieno.

Montella è sempre stata la prima scelta dei nostri dirigenti. Siamo davvero contenti di averlo portato qui.

La colonia degli italiani all’estero si arricchisce sempre di più e inoltre si può certamente dire che è l’Europa dell’est che ingolosisce gli allenatori italiani.

Dopo Andrea Stramaccioni allo Sparta Praga e Devis Mangia all’Universitatea Craiova, anche un ex mister della Serie A approda nella zona orientale del vecchio continente: Delio Rossi.

L’allenatore romagnolo ha accettato la proposta del Levski Sofia, la squadra della capitale bulgara con più tifosi e con la storia più importante.

Una nuova sfida per il mister ex Lazio e Fiorentina che, dopo due anni di pausa, ha ripreso l’attività in panchina. Il compito sarà quello di portare il Levski nella parte alta della classifica del campionato bulgaro. La partenza nelle prime tre giornate è stata incostante, così come negativa è stato il secondo turno di qualificazione all’Europa League. Il Levski, infatti, è uscito sconfitto dalla doppia sfida con i croati dell’Hajduk Spalato, ed è per questo che la società ha deciso di voltare pagina e affidare la prestigiosa panchina bulgara ad un allenatore d’esperienza come è Rossi.

L’ultima partita ufficiale di Rossi allenatore risale al 28 ottobre 2015, quando il suo Bologna perde in casa contro l’Inter e con il misero bottino di 6 punti in dieci giornate di campionato.

Ora la prima esperienza all’estero per un allenatore che comunque in Italia ha fatto bene. Dopo le stagioni positive a Lecce e a Bergamo nell’Atalanta, viene chiamato alla guida della panchina biancoceleste della Lazio del presidente Lotito. In tre stagioni nella capitale riesce a vincere la Coppa Italia nel 2008/2009.

La stagione successiva è quello dello sbarco in Sicilia, a Palermo. Il presidente “mangiallenatori”, Maurizio Zamparini, lo vuole fortemente alla guida dei rosanero. Per lui Rossi e il Palermo, la prima stagione è da incorniciare. Quinto posto in classifica e qualificazione storica all’Europa League. L’anno seguente il club decide addirittura di offrirgli la responsabilità dell’intero settore tecnico rosanero, con l’obiettivo primario di permettere un rapido ingresso dei giovani in prima squadra.
La seconda stagione però parte male con un girone d’andata da dimenticare. Viene esonerato e al suo posto arriva Serse Cosmi. Pochi mesi e Zamparini richiama alla base Rossi per cercare di raccogliere una situazione critica. La squadra raccoglie una meritata salvezza e vola anche in Coppa Italia. In finale, infatti, viene sconfitta solamente dall’Inter che passa per 3-1.

Dai rosanero alla Viola. Il tecnico di Rimini, dopo la galoppata con il Palermo, decide di volare a Firenze. L’esperienza con la società dei Della Valle è altalenante. L’addio è ancora più rumoroso a causa di fatti successi in campo.

Le ultime due esperienze in Serie A sono con Sampdoria e Bologna, non proprio due avventure da ricordare positivamente.

Ora il riscatto parte dalla Bulgaria, perché Delio Rossi vuole dimostrare di saper far bene il suo mestiere.

Dario Sette

Sospeso tra il futuro e il passato. Tra un progetto su cui sta lavorando da un po’ e che non vuole svelare e quel rigore sbagliato nella finale del Mondiale del 1994. Tra le prime 50 candeline spente e il nome di un giocatore che segue con interesse. Ma attenzione a parlare di erede perché di Roberto Baggio ne esisterà sempre e solo uno. Il Corriere della Sera, in occasione della presentazione di una nuova linea Diadora completamente dedicata al numero 10, ha intervistato il Divin Codino, da poco 50enne.

Ha fatto il nome dell’argentino Ricardo Centurión, da appassionato di calcio sudamericano lo stima molto anche se deve mettere la testa a posto; poi un tuffo nel passato: ricorda l’evoluzione del calcio degli anni ’90 ordita da Sacchi e del rifiuto di Ancelotti di volerlo al Parma perché non idoneo al 4-4-2.

Spazia tra quello che verrà e quello che è stato, non c’è nostalgia, ma la mente ritorna sempre a quegli anni, a quel tiro dagli 11 metri calciato nel cielo di Pasadena. Una riflessione anche su Pep Guardiola, compagno ai tempi del Brescia, ma già lungimirante e l’intramontabile domanda: che numero ti daresti in campo? E la risposta è sempre quella, come disse Platini: un 9,5, a metà tra la fantasia del 10 e l’istinto da cannoniere del 9.

A proposito di campioni: chi è il difensore più difficile contro cui ha giocato?
«Paolo Maldini. Quando te lo trovavi davanti sapevi che non passavi. Era grosso. Ed era forte di testa, di destro, di sinistro… Dovevi mettere insieme 15 giocatori per fare uno come lui».
E il giocatore con cui scambiava più volentieri la maglia?
«Marco van Basten. E mi sarebbe anche piaciuto giocarci insieme». 
Ha visto l’addio al calcio di Totti?
«No, ero via».
Ma avrà saputo del suo tormento. Per lei fu diverso. Lei disse: «Finalmente». 
«Sì, per me fu una liberazione purtroppo. Purtroppo perché, senza tutti quei problemi, non avrei smesso».

Continua a leggere l’intervista completa sul Corriere della Sera

Dai biancoverdi di Siviglia ai biancoverdi di Lisbona. Continua con questi colori l’esperienza estera del 24enne terzino toscano, Cristiano Piccini, ex Primavera della Fiorentina.

Il difensore classe ‘92, dopo l’esperienza in Liga nel Real Betis di Siviglia, sbarca quindi in Portogallo in una delle squadre più blasonate e vincenti del campionato, lo Sporting Portugal di Lisbona.

Il costo dell’operazione si aggira introno ai tre milioni e un contratto quinquennale per il calciatore fiorentino. La società, inoltre, ha inserito una sostanziosa clausola rescissoria di 45 milioni di euro. I lusitani, per aggiudicarsi Piccini, hanno battuto la forte concorrenza del West Bromwich Albion, club di Premier League.


Nuova esperienza quindi per il terzino destro che, nella squadra dei Leoni di Lisbona, va a ritrovare una vecchia conoscenza della Serie A: l’ex Inter e Atalanta Ezequiel Schelotto. Lo stesso El Galgo Schelotto non è stato il primo italiano a trasferirsi nella capitale portoghese. Prima di lui, infatti, l’attuale centrocampista del Sassuolo, Alberto Aquilani, ha trascorso una stagione prima di rientrare in Italia.

Sono molto felice per essere arrivato qui, il club più grande e importante del Portogallo. I tifosi dello Sporting sono fantastici, voglio sfruttare questa occasione. La squadra otterrà da me un lavoro continuo e cercherò di sfornare tanti assist dalla fascia destra. Obiettivi? Voglio migliorare e portare lo Sporting a vincere dei titoli.

Tra le varie voci di mercato che si sono susseguite, per Piccini era apparso anche un papabile ritorno nella sua Firenze, ma la strada intrapresa poi è stata un’altra. Tuttavia la prossima stagione sarà comunque ad alti livelli dato che il club lusitano, oltre a competere a livello nazionale, prenderà parte ai preliminari di Champions League.
A Siviglia, Cristiano Piccini ha disputato buone stagioni, totalizzando 58 presenze con tre gol e quattro assist.

Il trasferimento in Spagna gli è stato consigliato direttamente dall’ex compagno in Viola, Joaquin. Nonostante alcuni infortuni di cui uno grave al ginocchio, il terzino non ha mollato e in questa stagione di Liga che sta per chiudersi può ritenersi più che soddisfatto del suo rendimento. A Lisbona vola con la voglia di fare bene e di ambientarsi subito per mettersi in mostra.

Un po’ di nostalgia per l’Italia sicuramente c’è. A Firenze ha dei bei ricordi soprattutto nel settore giovanile. Con gli Allievi ha vinto uno scudetto mentre con la Primavera una storica Coppa Italia, con tanto di gol in finale all’Olimpico contro la Roma. L’esordio in Serie A arriva al Franchi il 5 dicembre 2010 proprio con la prima squadra Viola, quando l’ex allenatore Sinisa Mihajlovic lo fece entrare al posto del capitano Pasqual contro il Cagliari.

Dopo l’esordio in Serie A, Piccini ha fatto molta altra gavetta tra Carrarese, Spezia e Livorno, prima della chiamata in Segunda division spagnola da parte proprio del Real Betis con la quale ottiene la promozione in Liga.
Ora non spetta che sperare in una bella esperienza a Lisbona, nella squadra dove sono nati esplosi fuoriclasse come Luis Figo e Cristiano Ronaldo, e chissà che un giorno possa rientrare in Italia.

Dario Sette

Ha lasciato la Serie A in piena maturità calcistica per farsi trovare pronto in un campionato con caratteristiche diverse. Prima o poi ritornerà in Italia per godersi il futuro.

Stiamo parlando di Marco Donadel, centrocampista 34enne, che dal 2015 ha intrapreso l’avventura calcistica in Major League Soccer nella squadra canadese del Montréal Impact.
È partito dall’Italia, nonostante le avance dell’Hellas Verona, per provare un’ esperienza diversa con nuovi stimoli e per cimentarsi in una cultura diversa.
La sua ascesa nel calcio che conta è rapidissima: la promozione in Serie A con il Lecce e i trionfi nel 2004 con la maglia della Nazionale Under 21.
In Serie A gli anni più intensi gli ha trascorsi nella Fiorentina, di cui è stato anche capitano.

Come valuti la tua esperienza canadese in Mls?

Sono contento di aver fatto questa scelta perché l’ho fatta al momento opportuno dal punto di vista anche fisico data la caratteristica del campionato. Venire a 31 anni, quando fisicamente ero ancora integro, mi ha dato la possibilità di dare il massimo.

Il calcio americano si è evoluto anche grazie all’arrivo di calciatori europei. Com’è il livello?

Da quando sono venuto qui il calcio è cresciuto molto. Posso confermare che, dalle prime apparizioni nell’ottobre 2014 ad ora, il gioco è migliorato nettamente. Ciò è stato possibile non solo per l’arrivo di calciatori europei ma anche grazie all’attenzione delle società che hanno investito prendendo tecnici preparati e migliorando le strutture sportive. Per questo motivo la gente va allo stadio e ci sono più risorse da investire sui giovani.

Qual è l’obiettivo del Montréal in questa stagione?

Il nostro obiettivo è quello di migliorarci ogni anno. Nelle ultime stagioni abbiamo fatto bene in Concacaf, la Champions League americana. Per quanto riguarda il campionato speriamo di raggiungere nuovamente la finale di Eastern Conference e magari provarla a vincere.

Non sei il primo italiano che è volato in Canada. Di Vaio e Nesta ti hanno consigliato qualcosa?

In realtà mi ha contattato direttamente la società per un periodo di “ambientamento” che prevedeva conoscenza delle strutture e allenamenti. Sono stato due settimane con Marco Di Vaio, che giocava qui. Mi ha parlato molto bene della città e della società.
Durante una cena ho avuto modo di chiacchierare anche con Alessandro Nesta, il quale mi ha evidenziato quanto il calcio fosse diverso da quello europeo ma che comunque regala una forte esperienza.
Tuttavia al di là dei loro consigli, posso ribadire di esser venuto qui per mia scelta.

Ci sono differenze culturali tra Italia e Canada? 

Confermo che ce ne sono anche se Montréal tutto sommato è una città che somiglia molto a quelle europee anche dal punto di vista della vita. La gente si gode il tempo libero: passeggiate, aperitivi e visite per la città.

Con te gioca Matteo Mancosu, il quale si dice “abbia spodestato Drogba”. È davvero successo?

Non c’è stato un vero e proprio spodestamento (ride, ndr). Drogba era all’ultimo anno e la società, nel mercato estivo, ha cercato di acquistare un attaccante che lo avrebbe sostituito non appena fosse andato via. La scelta è ricaduta su Matteo Mancosu.
All’inizio è partito dalla panchina ma si è fatto trovare pronto nella fase a eliminazione. Lucidità e freschezza fisica, oltre a un infortunio a Drogba, hanno fatto sì che Matteo scendesse in campo con più regolarità.
Ciò non toglie il grande contributo che l’attaccante ivoriano durante la sua permanenza ha dato al club e allo spogliatoio.

Qual è il rapporto con i compagni di squadra?

Preferisco scindere il rapporto professionale da quello amichevole. Con tutti i miei compagni di squadra cerco di instaurare un rapporto in primis di rispetto. Il feeling in campo aiuta anche la conoscenza.
Ho la camera con Mancosu e spesso usciamo per la città o giochiamo a carte. Ci si diverte con gli argentini, come Ignacio Piatti, anche per facilità di lingua. Ma tutto sommato ho un buon legame con tutti componenti della rosa.

Qual è stato il tuo idolo calcistico?

Da piccolo, fine anni ‘80 inizio ‘90, sono stato attratto dalla tecnica e dalle reti dei “gemelli del gol” Vialli e Mancini nella Sampdoria. Da quindicenne amavo interpreti come Veron ai tempi del Parma e Rui Costa a Firenze.
In seguito alla mia collocazione fissa a centrocampo, posso certamente dire che il mio idolo è stato l’ex capitano del Manchester United, Roy Keane. L’irlandese ha sempre incarnato il mio prototipo di centrocampista.

Ci sarà possibilità che americani vengano a giocare più spesso in Italia?

Sì, penso che ci saranno americani  in Italia anche grazie a un mercato sempre più globale. L’abnegazione e il lavoro, soprattutto negli allenamenti, permetterà ai giovani americani di migliorarsi e provare quindi un’esperienza nel calcio europeo. Diciamo che ai ragazzi americani manca solamente quella “malizia” che noi italiani impariamo soprattutto da piccoli nei campetti o nei parchi.

Cosa fai nei momenti liberi?

Non ho molto tempo libero a causa degli allentamenti. Nei momenti di relax faccio il papà a tempo pieno. Quando le temperature sono piacevoli io e la mia famiglia cerchiamo di uscire per passeggiate nei parchi, mentre quando ho qualche giorno in più optiamo per visitare altre città americane.

C’è stata qualche situazione particolare al tuo arrivo?

I primi mesi, poiché avevo la mia famiglia ancora in Italia, sono stati un po’ difficili anche a causa delle temperature rigide. Ha nevicato molto e all’inizio, quando guidavo, non ero abituato a fermarmi ben distante dal semaforo e, beh, mi sono spesso ritrovato al centro dell’incrocio! (ride, ndr).

Qual è stato il momento più bello della tua carriera in generale?

Posso ritenermi fortunato perché ho avuto tanti bei momenti nella mia carriera. La prima gioia l’ho vissuta a Lecce quando abbiamo ottenuto la promozione in Serie A. La stagione successiva a Parma abbiamo ottenuto una qualificazione in Coppa Uefa con una squadra di giovani.
Ho un bellissimo ricordo anche con la Nazionale Under 21 dove nel 2004 in pochi mesi abbiamo vinto l’Europeo in Germania e la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene.
Tuttavia gli anni migliori gli ho trascorsi a Firenze dove ho avuto costanza nel giocare e ho trovato tanti amici. Un ricordo indelebile sarà sicuramente legato alla mia ultima partita in maglia viola quando tutto lo stadio Franchi a fine gara mi ha salutato con affetto, quella stessa sera poi è anche nata mia figlia. Un mix di emozioni.
Ora aspetto di vivere qualche bella sensazione anche qui in Canada.

Ti manca l’Italia? Una volta terminata la tua esperienza, cosa farai?

Certo che mi manca: il cibo, la vita, la solarità della gente e tanto altro. Torno due volte all’anno in Italia e credo che prima o poi rientrerò nella mia terra. Sto cercando ancora di imparare tante cose nel mondo calcistico e, se nel futuro ci sarà modo, potrei restare nel mondo del pallone.

Dario Sette

Mentono quando dicono che sono dispiaciuti per la sconfitta della loro squadre nonostante una loro doppietta o tripletta. Mentono quando dicono che è importante la vittoria indipendentemente da chi segna. Gli attaccanti, quelli veri, tengono a mente il numero di ogni rete messa a segno durante la loro carriera e anche se non lo ammetteranno mai, qualche volta baratterebbero un titolo di gruppo con un riconoscimento personale. Ecco perché, sotto sotto, la Scarpa d’Oro fa gola ai vari bomber d’Europa: ideato nel 1967, il trofeo viene assegnato ogni anno al giocatore che, in un campionato europeo, ha realizzato il miglior punteggio ottenuto moltiplicando il numero di reti messe a segno in partite di campionato e il coefficiente di difficoltà del campionato stesso.

Luis Suarez, Scarpa d'Oro 2016 con 40 reti con la maglia del Barcellona
Luis Suarez, Scarpa d’Oro 2016 con 40 reti con la maglia del Barcellona

In realtà questa combinazione è stata resa necessaria perché in passato a vincere la Scarpa d’Oro erano principalmente giocatori di campionati minori e meno competitivi; così, nel 1997 (dopo una pausa tra il 1992 e il 1996) è stata introdotta questa nuova formula che prevede due punti di coefficiente di difficoltà per i top campionati come Serie A, Liga, Bundesliga, Premier League e Primeira Liga, mentre dalla sesta alla ventiduesima è 1,5, per tutte le altre è 1.

Il primo a vincere il trofeo è stato Eusébio che, con la maglia del Benfica nella stagione 1967-1968, realizzò 42 reti, mentre l’ultimo a esibire la Scarpa d’Oro è stato l’attaccante del Barcellona, Luis Suarez, con ben 40 reti segnati in stagione che ha bruciato all’ultimo Gonzalo Higuain, autore di un’incredibile annata con il Napoli e i suoi 36 gol. Per l’uruguaiano è il secondo riconoscimento dopo quello del 2014, unico calciatore a spezzare il duopolio Cristiano Ronaldo – Messi, mentre scorrendo l’albo dei vincitori appaiono altri nomi illustri come Van Basten, Ian Rush, Jardel, Ronaldo o Thierry Henry. Nella speciale classifica ci sono anche due italiani, Luca Toni e Francesco Totti che, rispettivamente nel 2006 e nel 2007, segnarono 31 e 26 reti.

toni-scarpa-oro-fiorentina
L’anno incredibile di Toni: con la Fiorentina nel 2005-2006 segnò 31 reti in 38 gare

Luca Toni nella stagione 2005-2006 giocava con la maglia della Fiorentina, appena arrivato da due anni più che positivi con il Palermo: con 30 gol il primo anno aiutò i Rosanero a salire dalle Serie B alla Serie A e l’anno dopo si mantenne su alti livelli realizzando 20 reti. Ma con la Viola, l’attaccante di Pavullo si superò totalizzando ben 31 reti in campionato in 38 match disputati e staccando di gran lunga gli altri bomber come Henry che arrivò secondo con 27 reti ed Eto’o con 26. Quell’anno, nella top10 c’erano anche altri due “italiani” come Trezeguet (23 gol con la Juventus) e Suazo (22 marcature con il Cagliari). Quelli di Toni furono numeri che per un istante lo accostarono al record di 35 marcature in una singola stagione di Nordahl (superato solo quest’anno, dopo 66 anni, da Higuain). Una stagione pazzesca che lo proiettarono dritto ai Mondiali del 2006 in Germania come uno dei protagonisti con la maglia azzurra. Solitamente attaccante-ariete in grado di segnare di testa, quell’anno Luca azzardò anche gol del genere contro l’Udinese:

Tra le istantanee che custodiamo gelosamente nei nostri ricordi di quei Mondiali vincenti oltre alla doppietta di Toni contro l’Ucraina, c’è il calcio di rigore di Francesco Totti, allo scadere, negli ottavi contro l’Australia. Quel rigore, quel momento, fu una liberazione per il capitano della Roma che sul treno-mondiale ci salì per ultimo, recuperando in tempo record dall’infortunio di inizio anno che lo tenne lontano dai campi per diversi mesi. Era il febbraio 2006 e nel match casalingo contro l’Empoli, dopo appena sette minuti, a causa di un entrata di Vanigli, il capitano giallorosso rimase con il piede sinistro piantato nel terreno. Frattura del perone. Qualche maligno ipotizzò addirittura la fine della sua carriera, ma l’eterno numero 10 romano e romanista si rimise in piedi, vinse un Mondiale e disputò la sua miglior annata in campionato di sempre. Incredibile a dirsi totalizzò 35 presenze in Serie A (non accadrà mai più) segnando ben 26 reti, miglior rendimento in assoluto nella sua carriera. Dalle polveri all’altare nel giro di un anno: per lui Scarpa d’Oro anche se quell’anno a livello realizzativo Afonso Alves, attaccante dell’Heerenveen fece meglio segnando otto reti in più, ma si piazzò secondo perché il coefficiente assegnato alle reti in Serie A, come detto, è di 2 punti, mentre quello assegnato ai gol nell’Eredivisie è di 1,5 punti. E tutti noi, con un po’ di nostalgia, ricordiamo questo gol di Totti, uno dei fantastici 26 di quella stagione irripetibile: