Prima di colpire il pallone ho dovuto attendere che scendesse un po’. Se non avessi aspettato non avrei segnato. In quella frazione di secondo, la gravità ha fatto il suo dovere, e io il mio. Grazie, Newton
Il commento di Andrés Iniesta al gol decisivo della finale Mondiale 2010 in Sudafrica è la sintesi estrema della sua intelligenza non solo calcistica. Lì si concentrano infatti la sua consapevolezza molecolare della “fisica” del calcio; la sua matrice di giocatore artista-scienziato, tra impulso creativo e controllo razionale; la sua ineguagliabile cognizione del timing di una giocata, sempre tesa a integrarsi nella rete di rapporti della squadra.
Capitano del Barcellona e membro della Nazionale spagnola, con 37 titoli conquistati (32 con il Barcellona e 5 con la nazionale, incluse le selezioni giovanili), Iniesta è il calciatore spagnolo più titolato di sempre. È lontana Barcellona da Fuentealbilla, paesino di duemila abitanti, in cui il piccolo Andrés gioca a futsal ma sogna il calcio a 11.
I genitori, papà muratore, mamma casalinga, accettano di iscriverlo a 8 anni alla scuola calcio del e quattro anni dopo arriva alla Masia, la cantera del Barcellona, con l’idea di imitare il suo idolo, Michael Laudrup.
È piccolo, timido e pallido perché una rara malattia della pelle gli impedisce di scurire la carnagione. Piange ogni notte per le prime due settimane, ma resiste. Rimane in ritiro da solo quando gli altri bambini, praticamente tutti catalani, tornano a casa per il weekend. Amici come Xavi, che ha quattro anni più di lui, cui Guardiola un giorno dice:
Tu prenderai presto il mio posto, ma questo ci manda a casa tutti e due”
Con la Nazionale, debutta nella formazione maggiore il 5 maggio 2006 nella sua città, Albacete, in occasione dell’amichevole con la Russia. Va al Mondiale in Germania, ma gioca solo una partita. Diventa presto il faro delle Furie Rosse, con cui vince l’Europeo 2008 da titolare e il Mondiale 2010 decidendo nei supplementari la finale con l’Olanda. Nel 2012 completa lo storico triplete, vincendo pure l’Europeo 2012 e venendo eletto dalla Uefa “miglior giocatore del torneo”.
Di giocatori come lui ce ne sono pochi. La classe che solo i grandi hanno, unita alla testa pensante da uomo vero. Alzi la mano chi ha mai visto un gesto fuori posto, uno scandalo di qualsiasi tipo legato a Iniesta. Lui che dopo il gol decisivo nella finale dei Mondiali del 2010 con la sua Spagna ha sfoggiato una maglia per ricordare Dani Jarque, scomparso l’anno prima. Piccolo particolare: Jarque era il leader dell’Espanyol, l’altra squadra di Barcellona.
Nella sua carriera ha vinto tanto, tantissimo. Col Barça e con la Nazionale. Gli sono stati attribuiti tanti soprannomi: illusionista, cervello, cavaliere pallido, anti-galáctico, per le sue caratteristiche fisiche e tecniche. Ma in pochi sanno che dopo il Mondiale ha lottato e vinto contro la depressione. Che con la sua azienda che produce vino ha salvato dal fallimento l’Albacete, squadra dove ha mosso i primi passi.
È il momento, non posso più dare tutto
Il 27 aprile 2018 ha annunciato l’addio al Barcellona a fine stagione, ma non al calcio. Pochi giorni dopo, il 6 maggio, il suo ultimo Clásico, Barcellona-Real Madrid: niente pasillo tradizionale per Iniesta, niente ingresso d’onore in campo, in quello che sarà un match durissimo, divertente, con gol e spettacolo. Tutti gli occhi sono su di lui, su Iniesta, su Don Andrés.
Esce dal campo al minuto 58, Iniesta, ed è teso, concentrato. Cammina per il campo a piedi scalzi, tutto il pubblico del Camp Nou si alza in piedi.
Spesso mi definiscono un eroe, ma non hanno capito niente. Eroe è chi emigra coi figli in un altro Paese per cercare fortuna o chi cura le persone salvando la loro vita. Io sono solo un maledetto calciatore
Fonte: Alessandro Mastroluca, Luca Capriotti, Sandro Modeo, Matteo Basile