Xabier Azkargorta, allenatore basco della Bolivia ai Mondiali di USA ’94, racconta il suo arrivo nel paese andino, in uno spezzone de libro “I Mondiali dei vinti: Storie e miti delle peggiori nazionali di calcio” di Matteo Bruschetta
«“Bienvenidos a Bolivia”, c’era scritto all’aeroporto di La Paz, quando arrivai nell’ottobre 1992. Guido Loazya, presidente della FBF, la Federación Boliviana de Fútbol, mi aveva invitato nella sua terra per propormi il ruolo di Ct della Nazionale. Il mio nome glielo aveva suggerito Mario Mercado, presidente del Bolivar, che l’estate prima era andato in Spagna per negoziare il trasferimento all’Albacete del suo attaccante Marco Antonio Etcheverry, detto “El Diablo”. Il mio amico Manuel Esteban aveva fatto conoscenza con alcuni dirigenti boliviani e, quando venne a sapere che cercavano un Ct, disse loro che l’unico pazzo che poteva accettare ero io. Qualche tempo dopo, Loazya mi telefonò, mi disse che aveva un progetto ed io ero la sua prima scelta.
Non avevo mai lavorato al di fuori della Spagna, né allenato una Nazionale, ma l’idea di vivere in Sudamerica e conoscerne la cultura, mi affascinava. Quando lo comunicai a mia madre, mi chiese, con tono serio, se andavo in Bolivia come missionario. In effetti, era una scelta controcorrente ma nella vita a volte bisogna rischiare. Loazya mi ospitò nella sua dimora e mi espose tutte le sue idee, parlando senza sosta fino alle quattro del mattino. La federazione non aveva un centesimo in cassa e Loazya si offrì di pagare di tasca propria lo stipendio mio e del mio vice Antonio López. Quando mi chiese quanto volevo d’ingaggio, gli risposi che avere il privilegio di allenare una Nazionale era più importante dei soldi. Lo pensavo veramente. Accettare di rimettermi in gioco in Bolivia fu la miglior scelta della mia vita, anche se all’inizio non sembrava così.
L’accoglienza fu ostile, aggressiva, feroce. Nel 1992 ricorreva il quinto centenario della scoperta dell’America e i boliviani videro in me un altro conquistador che andava in Sudamerica a ingannarli e rubargli i soldi. Nessuno sapeva nulla sul mio conto, ma era sufficiente che fossi uno spagnolo per etichettarmi in modo negativo. Non mi conoscevano i giocatori, né i tifosi, né i giornalisti, che scrissero: “Xabier Azkargorta, un ilustre desconocido”. Un illustre sconosciuto, questo mi consideravano. Eppure in Spagna avevo una buona reputazione come allenatore e uomo di sport. Certo, non ero famoso come Johan Cruijff o Javier Clemente, ma negli anni Ottanta avevo guidato con buoni risultati molte squadre di Primera División.
Come potrete immaginare dal mio cognome, sono originario dei Paesi Baschi e, come ogni basco che ama il calcio, da bambino avevo due possibilità: Real Sociedad o Athletic Bilbao. A livello giovanile, ho giocato prima con una, poi con l’altra. La mia carriera di attaccante è però finita presto, a ventiquattro anni, a causa di un grave infortunio al ginocchio destro. La fiammella di passione per il calcio non si è mai spenta e nel 1978 ho preso il patentino di allenatore. Ho guidato due piccole società basche, il Lagun Onak e l’Arrerà Vitoria, due anni ciascuna, e nel 1982 sono andato al Gimnàstic de Tarragona, in Segunda División B. Feci bene in Catalogna e l’anno dopo mi chiamarono all’Espanyol, dove sono divntato l’allenatore più giovane nella storia della Primera División. Avevo appena ventinove anni. All’Espanyol sono rimasto tre stagioni, portando la squadra a tranquille posizioni di metà classifica, come nei due successivi campionati al Real Valladolid e al Siviglia. La mia ultima esperienza in panchina fu dal 1989 al 1991 alle Canarie, dove ho salvato per due anni consecutivi il neopromosso Tenerife.
La mia vita però non era fatta di soli allenamenti e tattiche. Come giornalista sportivo, ho scritto molti articoli per “El Periódico” di Catalogna ai Mondiali di Messico 1986 e sono stato pure commentatore tecnico di partite in tv. Prima di accettare l’offerta della Bolivia, il mio ultimo incarico fu quello di capo ufficio stampa ai Giochi Olimpici di Barcellona, per le partite di calcio al Camp Nou. Pochi sanno che fu mia l’idea di inventare la zona mista, dove i giornalisti possono intervistare gli atleti prima di rientrare negli spogliatoi.
Dopo le Olimpiadi, avevo un grande dubbio riguardo al mio futuro: continuare ad allenare o dedicarmi all’attività di medico. Dimenticavo di dirvi, infatti, che sono laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Barcellona, specializzato nel ramo della medicina sportiva. Tra i tanti pazienti venuti a curarsi nella mia clinica di Barcellona, ci fu Diego Armando Maradona, dopo il terribile infortunio del 1983. Come augurio di buona guarigione, gli regalai il libro “La mala hora” di Gabriel García Márquez, Premio Nobel 1982. Siamo buoni amici, Diego ed io.
Più che un illustre sconosciuto dunque, erano i giornalisti boliviani a essere degli illustri ignoranti».