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Un toscanaccio verace, classe 1914 e passato alla storia per la vittoria al Tour de France 1938. “Uno scalatore unico” dicevano i giornali il giorno dopo, una prova di resistenza. Dieci anni dopo centrò il bis in quella che fu una vittoria iconica per tutta l’Italia perché a detta di molti contribuì ad allentare il clima di tensione sociale dopo l’attentato a Palmiro Togliatti.

E poi nell’immaginario collettivo, il duello infinito contro Fausto Coppi, i tre Giri d’Italia conclusi in testa e il suo riconoscimento come “Giusto tra le nazioni”. Gino Bartali era questo, ma non solo: durante il suo discorso dopo la vittoria del Tour ringraziò solo i suoi tifosi e non il Duce, come richiedeva la prassi istituzionale.
Era un cattolico convinto, uno dei vari aspetti del suo essere – oltre l’uomo, lo sportivo, il credente, il marito fedele “di due mogli”, la sua bicicletta da corsa e quella in carne e ossa, Adriana, l’antifascista, l’anima controversa e schiva lacerata dalla morte prematura del fratello Giulio – che si possono respirare nel libro “Gino Bartali. Una bici contro il fascismo” scritto da Alberto Toscano.

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Nella prefazione a cura di Gianni Mura si legge che “la sua religiosità ha giocato un ruolo importante nell’avversione verso le leggi razziali, nel rifiuto dei simboli della dittatura, oltre che nello straordinario dinamismo della rete clandestina nata nel 1943 per nascondere e salvare moltissimi ebrei. Per questo motivo oggi leggiamo il suo nome sul Muro dei Giusti al Memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme. «Ginettaccio» non amava parlare dei suoi meriti extra sportivi e tantomeno dei suoi «chilometri per la vita», percorsi fra la Toscana e l’Umbria per salvare gli ebrei perseguitati, procurando loro i documenti falsi, che nascondeva nell’intelaiatura metallica e nella sella della sua bicicletta. Non lo considerava un gesto fuori dal comune, ma la reazione che ogni persona dovrebbe avere di fronte alla vita minacciata degli altri. Un esempio di umanità per ricordarci la nostra”.

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Tra il 1943 e il 1944 salvò oltre 800 persone con la sua bicicletta percorrendo 185 chilometri al giorno avanti indietro. Nella canna e nel manubrio nascondeva documenti falsi che da Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, portava all’arcivescovo vescovo di Firenze che, assieme al rabbino, poi li distribuiva agli ebrei per permettergli l’espatrio e quindi la salvezza dal fascismo. Non temeva di esser scoperto, non temeva la fucilazione e la morte seguente, divenne il postino segreto dell’organizzazione clandestina, tutti avrebbero pensato che si stesse allenando e a nessuno sarebbe mai saltato in mente di controllarlo. Eppure a Firenze fu fermato dalla polizia per un controllo, ma nessuno controllò la sua bicicletta.

 

Nel 2006, dall’allora Presidente della Repubblica, Ciampi, era stata conferita una medaglia d’oro al valore civile alla memoria di Bartali e nel 2013 gli era stata assegnata dallo Stato di Israele l’importantissima onorificenza di Giusto fra le Nazioni.

Poco dopo le 10 di sera di martedì 3 aprile, il calcio nella sua fluida e infinita forma, ha cambiato faccia. Cristiano Ronaldo, spalle alla porta, si libera nell’aria per realizzare il gol del momentaneo 2-0 con cui il Real Madrid sta vincendo sulla Juventus. In rovesciata. Torino è l’epicentro di una nuova rivoluzione che parla portoghese e che si propaga su tutto il globo. Lui che sembra paranormale ha riscritto una nuova pagina della storia di questo sport.

Subito ci si domanda: «E’ il gol più bello della Champions League?». Di sicuro è il primo gol segnato in “bicicletta” da Cristiano Ronaldo. L’Allianz Stadium è pervaso da sentimenti contrastanti: beffa, stupore, disfatta, ammirazione. Prevale il senso del bello e del gusto: standing ovation per l’uomo che ha messo a segno 119 gol in Champions League (se fosse un club si piazzerebbe al decimo posto nella classifica assoluta), una sensazione ed emozione provata a campi invertiti quando fu Del Piero a ricevere gli elogi immortali del Bernabeu nel 2008.

E mentre Zlatan Ibrahimovic, impegnato nella conquista dell’America, si complimenta con CR7, sottolineando che «quel gol dovrebbe provarlo a fare da 40 metri» (con ovvia allusione a QUEL gol dello svedese), ci ritroviamo sempre al solito punto di riflessione: chi ha inventato la rovesciata?

Se ci fidiamo delle parole dogmatiche dello scrittore uruguaiano, Eduardo Galeano, la risposta allora è semplice: è Ramon Unzaga. Accadde nel gennaio 1914 allo stadio “El Morro”, non lontano dal porto di Talcahuano, in Cile. Spagnolo dei Paesi Baschi, poi naturalizzato cileno, Unzaga era solito spazzare in acrobazia anche in difesa e portò il gesto tecnico alla ribalta internazionale nel 1916 e nel 1920 in due edizioni della Copa América, quando i giornalisti argentini, estasiati dalla rovesciata, le diedero il nome di “cilena” in omaggio proprio alle origini dell’autore.

Sospeso nell’aria, una sforbiciata. Ma provate a dirlo a Callao, il più grande porto del Perù: in più di uno storcerebbe il naso ancora oggi. Il giornalista argentino, Jorge Barraza, in un suo interminabile viaggio alla scoperta della nascita della rovesciata, afferma che la paternità è da ricercare in qualche chalaco (nome degli abitanti di quest’area) di discendenza africana che provò l’acrobazia in una partita contro i marinai britannici.
Lo storico peruviano Jorge Bazadre annuisce e prova a dare una data: 1892. Quindi, seguendo questa ricostruzione, Unzaga avrebbe solamente copiato questo movimento visto e rivisto durante qualche partita tra la squadra di Callao e il team del porto cileno di Valparaiso.

Il Sudamerica rimane la patria, questo è certo. E tra Uruguay, Argentina, Cile e Perù, può il Brasile rimanere escluso e orfano di tale bellezza motoria? No e, infatti, il suo splendore è nella tecnica di Leônidas da Silva, attaccante funambolico, il “diamante nero” e di gomma per la sua capacità di realizzare gol fantastici e impossibili. Ancora Galeano, di lui, disse: «I gol di Leônidas erano talmente belli che persino il portiere avversario si rialzava per congratularsi».
E segnava, ovviamente, anche in bicicleta. Una delle sue prime risale ai primi anni ’30 quando giocava nelle giovanili del Bonsucesso, squadra di Rio de Janeiro.

Rovesciata, bicicleta, chilena, ma anche bicycle kick, bicyclette e fallrückzieher. I nomi sono disparati e gli autori anche, dai campetti amatoriali ai riflettori mondiali. E proprio tedesco parla il gesto che durante i Mondiali si è visto poche volte tramutarsi in rete. Il più iconico resta il gol di Klaus Fischer, durante la Coppa del Mondo del 1982 in Spagna: la sua prodezza portò la Germania Ovest sul 3-3 costringendo la Francia ad andare ai supplementari.
E sua è anche una massima di vita: «Ogni cross che porta a una rete in rovesciata, non è un buon cross». Il suo connazionale, lo scienziato Hermann Schwameder, esperto di tecnica motoria, infatti aggiunge che ci vuole «istinto, tanto coraggio, e un cross sbagliato».

La mitologia calcistica è piena zeppa di prodezze realizzate capovolti, guardando il mondo da sottosopra spinti da un soffio di vento leggero, per un istante. Cristiano Ronaldo allunga la narrazione, aggiungendosi ai vari Ronaldinho, Rivaldo, Van Basten, Igor Protti, Vialli, Inzaghi, Rooney, Mexes, Pinilla, Quagliarella, lo stesso Ibrahimovic, o l’eroe Bressan con la maglia della Fiorentina contro il Barcellona.
Pelé c’ha costruito su una carriera leggendaria, un marchio di fabbrica da osannare con l’exploit nel film “Fuga per la vittoria”; altra pellicola altrettanto celebre per noi italiani vede il ragionier Fantozzi rovinare fragorosamente al suolo polveroso dopo un goffo tentativo.
Come nella mitologia greca c’era la rappresentazione perfetta e scultorea del vigore umano e maschile, la rovesciata di Carlo Parola è la perfezione fatta istantanea in grado di cristallizzare le ere e i decenni. Oggi continua a essere il logo della figurine Panini, lui fu il primo a utilizzarla con frequenza in Italia e memorabile è quella del 15 gennaio 1950, al minuto 80 di Fiorentina – Juventus.

 

Ma la rovesciata è anche un urlo di giubilo strozzato in gola. Un “cosa sarebbe successo se quella palla fosse entrata?”.  Chissà come sarebbe il mondo, a quest’ora, se il difensore statunitense Marcelo Balboa avesse segnato con quella rovesciata il gol del 3-0 contro la Colombia durante i Mondiali del 1994. Chi lo sa, forse avremmo uno dei gol più spettacolari di sempre. Invece quel match finì 2-1 e una rete americana in realtà fu un’autorete tristemente nota.

 

Fonte dell’articolo:  Who Invented the Bicycle Kick?: Soccer’s Greatest Legends and Lore di Paul Simpson e Uli Hesse. 

Dalla Svizzera a Pyeongchang, in Corea del Sud, con la bici: succede anche questo per amore del figlio e delle sue passioni.

Non è la trama di un film ma quello che è realmente successo ad una coppia di genitori svizzeri che hanno percorso ben 17.000 km per raggiungere il figlio alle Olimpiadi Invernali e tifare per lui.

Complice un grande sogno, quello di girare il mondo sulle due ruote, hanno deciso di sfruttare l’occasione delle gare olimpiche per realizzare questa impresa che li ha resi celebri in tutto il mondo.

Si tratta di Guido Huwier e Rita Ruttimann, genitori orgogliosi di Mischa Gasser che sabato parteciperà alla gara aerial freestyle a Pyeongchang.

L’idea è venuta al padre del ragazzo che ha coinvolto la sua compagna in questo folle viaggio verso la Corea del Sud. Per poter assistere dal vivo alle performances del figlio sono partiti nel mese di marzo dell’anno scorso e, dopo qualche difficoltà incontrata nel tragitto, eccoli finalmente giunti a destinazione per riabbracciare il loro freestyler, che commenta così la loro esperienza:

Il loro viaggio non è normale, ma loro sono così. Ero più sicuro che ce l’avrebbero fatta più di quanto sono sicuro per le Olimpiadi

Ben 17.000 km percorsi e 20 paesi superati non sono certo numeri di poca importanza: il viaggio dei coniugi partiti da Olten in Svizzera ha dell’incredibile.

Nessuna difficoltà però li ha spaventati o fatti tornare sui loro passi. Determinati più che mai a giungere in tempo dal figlio hanno affrontato problemi di confine e freddo ma senza mai perdere di vista l’obiettivo:

Dal Kazakistan non siamo riusciti ad entrare in Cina, quindi abbiamo preso un aereo per andare nel sudest asiatico. Poi abbiamo preso un altro aereo verso Seul. Qui sono saliti in bicicletta verso la città di PyeongChang, nel sud-est del Paese e sede dei Giochi olimpici, un luogo noto per i venti forti e le basse temperature

E soprattutto la differenza di temperature ha pesato sulla coppia nel loro percorso:

Qui fa veramente freddo. Eravamo nel sud-est asiatico dove c’erano 30 gradi, ma qui ce ne sono -10 e -15, è davvero difficile

E alla domanda “qual è stato il momento più difficile” non esitano nemmeno un momento e rispondono all’unisono: l’autostrada del Palmir, in Asia Centrale:

L’autostrada ci ha portato a circa 4.750 metri sopra il livello del mare. L’aria sottile e la mancanza di buon cibo hanno reso estenuante la situazione

Hanno dormito ovunque, anche in tenda, ma ora che sono arrivati non possono fare a meno di esprimere la loro gioia in attesa di assistere alle prove del figlio:

Sono felice di aver visto mio figlio e ce l’abbiamo fatta. E’ stato fantastico

Il loro viaggio può quindi considerarsi concluso? Niente affatto! Dopo Pyeongchang si sposteranno in Giappone per continuare a vivere il loro sogno in bicicletta, perché solo così potranno “sperimentare quanto il mondo sia fatto da montagne e vallate“.

Phileas Fogg, ricco londinese, assieme al fidato cameriere francese Passepartout, tentò di circumnavigare il mondo in soli 80 giorni per vincere una scommessa fatta coi compagni del circolo. Nel corso dei decenni, il prestigioso romanzo d’avventura dell’autore francese Jules Verne divenne celebre e spesso utilizzato come trampolino per emulare imprese simili. Senza mongolfiera, ma a bordo di un’imbarcazione oppure con mezzi improvvisati. Chi prova a stare sugli 80 giorni, fallendo, chi va oltre i tre-quattro mesi.

Ma c’è chi, in sella a una bicicletta, proverà a fare il giro del globo in 80 giorni precisi. La spericolata idea è di Mark Beaumont, ciclista e atleta scozzese, che ha presentato il suo piano. Sulla carta tutto regolare: pedalare per circa 370 chilometri al giorno per 75 giorni, una media di 16 ore al giorno, usando due giorni come riserva per recuperare le energie o in caso di emergenza e i restanti tre per spostarsi in aereo da un continente all’altro attraversando gli oceani.
In mente ha come obiettivo quello di battere l’attuale record di 123 giorni realizzato dal neozelandese Andrew Nicholson nel 2015, infrangendo proprio il record di Beaumont stabilito nel 2008 dopo aver pedalato per 195 giorni.

Pazzia o meno, il ciclista si allenerà facendo il giro dell’isola principale del Regno Unito, prima di iniziare la spedizione intorno al mondo il prossimo due luglio. Punto di partenza, a differenza di Fogg non sarà Londra, ma Parigi: da qui raggiungerà Pechino, attraversando Polonia, Lituania, Russia e Mongolia.
Successivamente si sposterà in Australia che attraverserà da Perth a Brisbane e poi in Nuova Zelanda per andare da Invercargill a Auckland. Poi in Canada, da Anchorage a Halifax e per finire l’ultimo viaggio in aereo che lo porterà in Portogallo, a Lisbona, prima dell’ultima fatica fino a Parigi.

Per il ciclista 34enne è un passo verso l’ignoto: fisicamente si è mai spinto per più di 200 miglia (circa 370 km) al giorno oltre i due mesi, ma in quest’avventura, al contrario del solito quando viaggia da solo, sarà assistito da un team grazie a veicoli di supporto per ricambi o necessità.
Avrà anche un materasso per potersi assicurare un riposo davvero rigenerante ogni notte. L’unica preoccupazione per Mark, al momento, è rappresentato dal passaggio in Asia: teme, infatti, che in alcune frontiere gli ufficiali non possano capire il senso del suo viaggio.
Ma sono beghe burocratiche a cui Beaumont al momento non pensa. In lui c’è solo il sogno di ripercorrere l’impresa del personaggio di Jules Verne:

Sono cresciuto con quei grandi storie di avventura in stile vittoriano. Quella storia è conosciuta in tutto il mondo e spara ancora l’immaginazione

Poco più di 22 chilometri, percorsi in bicicletta in un’ora, per stabilire un nuovo record del mondo. Detto così sembrerebbe un refuso, essendo una prestazione alla portata di tutti gli sportivi ben allenati. Ma se a compierlo è un uomo di 105 anni (e anche qui, non ci sono errori di battitura), allora è evidente che parliamo di un’autentica impresa.

L’ha compiuta il francese Robert Marchand, nato ad Amiens nel 1911 – così dichiara la sua carta d’identità  – che al Velodrome di Saint-Quentin-en-Yvelines, in Francia, ha stabilito il nuovo primato di percorrenza in 60 minuti per la categoria over 105, appositamente creata per lui, con 22.547 chilometri percorsi in sella alla sua bicicletta.
A 105 anni compiuti lo scorso 26 novembre, l’ultracentenario transalpino ha stupito tutti anche se i suoi tecnici, consapevoli della caparbietà e dell’energia di Richard, avevano fissato come obiettivo proprio la soglia dei 22.5 chilometri.

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Marchand è stato un vigile del fuoco a Parigi durante gli anni ‘30. Dopo la seconda guerra mondiale si è trasferito prima in Venezuela e poi in Canada, dove ha lavorato come boscaiolo. Tornato in Francia nel 1960, ha lavorato come giardiniere e venditore di vino fino alla fine degli anni ’80.

Marchand, che gareggia sulla bici da quando ha 14, pur non avevo mai corso come professionista, non è nuovo a record del genere, anzi verrebbe da dire che ha scoperto quant’è bello infrangere record su record dopo aver compiuto un secolo di vita: nel 2012, ad Aigle, ha centrato il primo trionfo con 24.1 chilometri in un’ora; due anni dopo si è migliorato arrivando a 26.927 chilometri.
Ma le sue avventure non si limitano ai tracciati su pista: negli anni passati ha affrontato una salita di circa 10 chilometri, con un dislivello di 450 metri, in appena 56 minuti. Oggi, quella salita, collocata nel Massiccio Centrale, nell’area del dipartimento dell’Ardèche, è stata ribattezzata Col du Marchand.

Al termine della prova che ha stabilito il record dei 22.547 chilometri in un’ora, accolto in trionfo da parenti e pubblico, Marchand ha detto:

Avrei potuto fare meglio: negli ultimi dieci minuti non ho controllato l’andamento del record. Se l’avessi saputo, sarei andato un po’ più veloce

Complimenti Robert, non c’è limite alla bellezza!