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Il Liverpool Football club è stato fondato il 15 marzo 1892

C’è qualcosa di magico, oltre che irrazionale, in quello che succede ad Anfield a ogni istante prima del triplice fischio. Che sia nella rimonta da leggenda del Liverpool contro il Barcellona in Champions League in cui non si può spiegare un 0-3 rimontato 4-0 da una squadra priva dei suoi uomini migliori. O che sia una cocente uscita dal torneo per mano dell’Atletico Madric. C’è qualcosa di irriducibilmente romantico nei titoli di coda d serate da brividi, con la curva Kop che canta. In un momento così elevato, per cuori forti e rigorosamente reds, la ragione non ha posto. E così, come capita da mezzo secolo, nella stadio fra le strade della band più famosa del mondo si canta l’inno di un gruppetto semi sconosciuto ai più. Mentre nell’odiata Manchester sponda City, nella città culla degli Oasis con i fratelli Gallagher primi supporter di Aguero e Guardiola, all’Etihad Stadium risuona Hey Jude dei Beatles.

Gli altri Beatles

Prima di liquidarlo frettolosamente come ennesimo caso di Nemo profeta in patria (nel caso di Liverpool), bisogna andare indietro nel tempo. E capire perché You’ll never walk alone è diventato il canto di appartenenza di un intero popolo. E dire che questo salmo profano arriva da più lontano. Dagli Stati Uniti e da un musical di Broadway, Carousel, nel 1945, scritto e intonato da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein.

Una quindicina di anni dopo la canzone fu interpretata da una delle tante band che fiorivano nel Mersey Side, dai Beatles in giù. Gerry and the Pacemakers, dei fratelli Gerry e Fred Marsden, divennero per qualche anno gli alter ego dei Fab Four. All’inizio degli anni ’60 avevano lo stesso manager (Brian Epstein), lo stesso produttore (George Martin), lo stesso fotografo (Dezo Hoffmann) e anche lo stesso sarto (Dougie Milins).

Non solo Liverpool

Il gruppo si esibiva spesso nello stesso cartellone e negli stessi concerti locali dei Beatles. I loro primi tre singoli (How do you do it? – proposto da Martin ai Beatles ma poi scartato – I like it e You’ll never walk alone) arrivano in testa alle classifiche britanniche. Record eguagliato negli anni ’80 dai Frankie Goes to Hollywood, anch’essi di Liverpool. Nel 1963, quando YNWA era in testa alle hit del Regno Unito, ad Anfield si era soliti cantare i pezzi più in voga del momento. Accadde anche con She loves you di Lennon McCartney.

Ma Non camminerai mai da solo ebbe un effetto travolgente. Un’onda che non si è mai fermata e che si è allargata anche ad altri club (dal Celtic Glasgow al Borussia Dortmund e al Feyenoord).  La fama di Gerry e del suo gruppo si trasformò presto in meteora. Una meteora diventata comunque storia grazie al Liverpool, alla Kop e da ieri anche grazie a Klopp.

A Liverpool erano i più temibili rivali dei Beatles. Ricordo bene con quanta ansia aspettassimo i risultati dei sondaggi del quotidiano locale, sperando di racimolare i punti necessari per batterli. Ecco a che punto eravamo! (Paul McCartney)

Se sei consapevole di non essere un goleador attieniti a una semplice regola: fai in modo che quelle poche reti messe a segno siano autentiche prodezze al punto di rimanere scolpite nella memoria e negli annali del calcio. Se segui questa indicazione, che poi è la legge della vita “una chance, un’opportunità, giocatela al meglio”, è molto probabile che utilizzeranno Andrea Dossena come termine di paragona.

Quell’Andrea Dossena che ha segnato 12 gol nella sua lunga carriera, due dei quali con il Liverpool. Stesso suo numero di maglia che in zona Anfield ricordano ancora. Arrivato nell’estate del 2008 dall’Udinese per rimpiazzare il partente John Arne Riise – altro calciatore ricordato per discrete prodezze con il suo micidiale mancino – sulla fascia sinistra, il terzino italiano ha avuto difficoltà all’inizio ad ambientarsi al calcio inglese, a Liverpool e alle indicazioni di Rafa Benitez.  Difficile sfilare la titolarità di Fabio Aurelio, così Dossena si accomoda in panchina e proprio partendo dalla panchina vive quattro giorni, solamente quattro giorni, da apoteosi.

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Il 10 marzo 2009 ad Anfield si gioca il ritorno degli ottavi di finale di Champions League e il Liverpool, già vittorioso all’andata per 1-0, attende il Real Madrid. Il match si indirizza già nella prima mezz’ora con i padroni di casa in doppio vantaggio con le reti di Fernando Torres e Steven Gerrard. Poi il capitano fa 3-0 al 47’, tagliando gambe e possibili aneliti di rimonta spagnoli. Benitez toglie dunque sia il centrocampista e al minuto 83’ toglie anche Torres per tributargli una standing ovation della Kop e di tutto lo stadio. Al suo posto proprio Andrea Dossena che cinque minuti dopo, si ritrova, non si sa perché in area di rigore avversaria e sigilla il match con il gol del 4-0.

Dossena che segna al Real Madrid. E che batte il palmo della mano sullo stella del Liverpool. Mica male no? Ma il ragazzo nato a Lodi nel 1981 ci prende talmente tanto gusto che, appena quattro giorni dopo, decide definitivamente di entrare nella storia del club rosso del Merseyside. Ok il Real Madrid, ma volete mettere segnare ai rivali di sempre del Manchester United all’Old Trafford?

Ancora quattro gol, inaspettati dopo le fatiche mentali e fisiche del match in Champions League, ma anche la banda di Ferguson è scarica. E’ una lotta scudetto o quantomeno l’ultimo tentativo per riaprire la Premier League: segna prima Cristiano Ronaldo, poi esplodono Torres e Gerrard. Fabio Aurelio sigla il 3-1 su punizione e poi arriva Dossena, ancora una volta dal nulla, ancora una volta il più offensivo degli 11 del Liverpool. E’ il 90’, pieno recupero, Reina lancia il pallone lontano, un rimbalzo che scavalca il difensore dei Red Devils, Dossena aspetta l’istante giusto e di prima, con un tocco morbidissimo da fuori area, alza un dolce pallonetto che supera l’alto Van der Sar.

Dossena non segnerà altri gol con il Liverpool. Ma la storia è già scritta così.

La strada verso la finale di Champions League al Wanda Metropolitano di Madrid ha fatto incrociare i destini di Suarez e del Liverpool in semifinale, a due passi da quella Coppa che l’uruguaiano ha già vinto nel 2015 e che invece Jurgen Klopp ha solo sfiorato nel 2013 ai tempi del Borussia Dortmund e lo scorso anno nella finale di Kiev persa contro il Real.

Il Liverpool è chiamato a una rimonta ai limiti dell’impossibile, recuperare il 3-0 dell’andata, ma storia nella storia, quella di stasera è la notte speciale di Luis Suarez: l’uruguaiano del Barcellona torna per la prima volta da ex ad Anfield, davanti a quei tifosi della Kop che l’hanno amato alla follia dal gennaio 2011 all’estate 2014. E che anni pazzeschi pieni di gol, prodezze, lacrime ed episodi controversi e un complessivo di 133 partite e 82 reti.

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Lasciato l’Ajax a gennaio 2011, Suarez si trasferisce al Liverpool e in meno di un anno i suoi nuovi tifosi iniziano a conoscere il suo proverbiale carattere fuori dal campo: il Pistolero rimedia una squalifica di 8 giornate per un insulto razzista nei confronti di Evra, poi però sul rettangolo di gioco dimostra di essere un bomber implacabile e affamato. A livello realizzativo dà il meglio di sé nel 2013-14 quando si laurea capocannoniere in Premier League con 31 reti. Indimenticabile, quell’anno, la sua crisi di pianto dopo il drammatico 3-3 contro il Crystal Palace che significò, a poche settimane dalla fine della Premier League, l’addio definitivo al titolo. L’uruguaiano, l’estate stessa, salutò Liverpool dopo i Mondiali 2014 con un solo trofeo in bacheca, la Coppa di Lega 2012, per accasarsi al Barcellona: e con i blaugrana, al fianco di Messi, inizia ad arricchire il proprio palmares.

L’attesa per conoscere l’accoglienza che gli riserveranno i suoi ex sostenitori è tanta anche se è stato proprio lui, all’andata, con una zampata di destro in spaccata ad anticipare Alisson su assist di Jordi Alba, a sbloccare il risultato al Camp Nou scegliendo proprio il Liverpool per segnare la sua prima rete stagionale in Champions League. Cortocircuiti di cui il calcio è pieno zeppo, l’altro tabù personale di Suarez: il suo ultimo gol in Champions lontano dal Camp Nou risale addirittura a quasi 4 anni fa. Era il 16 settembre 2015 e il Pistolero segnò il momentaneo 1-0 all’Olimpico contro la Roma prima del pareggio firmato da Florenzi.

 

Forse non sarà oggi, forse sarà nel prossimo domani, quando Suarez si ritirerà e non indosserà più nessun colore. Allora sì, forse sarà quello il momento in cui tutti i tifosi del Liverpool lo ricorderanno come un grande indiscusso attaccante.

Ha bruciato Koulibaly con uno scatto nello stretto, e scusate già se è poco, si è portato sul destro, non il suo piede, e ha battuto Ospina con un tiro rasoterra, infimo, che è passato sotto le gambe del portiere del Napoli. Momo Salah è stato ancora una volta devastante e trascinatore del Liverpool in Champions League: il suo gol al 34’ del primo tempo ha tenuto fino alla fine, grazie anche alla prodezza dell’altro ex-Roma, Alisson, decisivo al 92’ su Milik. E’ l’1-0 che ha dato alla squadra inglese il passaggio del turno agli ottavi, castigando la squadra di Ancelotti a una cocente eliminazione e al terzo posto che vuol dire Europa Leauge.

Ad Anfield erano presenti 52.015 tifosi, la maggior parte dei quali ovviamente fedeli ai colori “reds” e tra questi, mentre lo stadio esulta all’unisono al gol dell’egiziano, ce n’è uno sui cui le telecamere indugiano: è un ragazzo non vedente venuto allo stadio col cugino. Quest’ultimo lo abbraccia e non la smette di urlare per la felicità.

Poi gli si avvicina all’orecchio e gli racconta l’azione che ha portato al gol dell’1-0, l’assolo travolgente di Mohamed Salah. E’ la passione che supera i confini, si incunea nel sangue di chi vive per serate magiche come queste.

 

Forse avrebbero risposto con lo stesso dito medio a chi gli avesse fatto notare che ci sono limiti da rispettare e palcoscenici da celebrare. Onori da godere e oneri a cui non ci si può sottrarre. Sono bastate 24 ore per proiettare a social unificati due immagini del calcio italiano che poco hanno a che vedere con lo spettacolo del campo. Anzi proprio non c’entrano nulla con la bellezza del salto di Koulibaly o con il fascino di Anfield Road alla vigilia di Liverpool Roma.

Ha iniziato Maurizio Sarri domenica sera, insultando i tifosi avversari dal pullman del Napoli
all’arrivo prima del match scudetto con la Juventus.

Ho reagito a chi ci sputava perché napoletani, se avessi potuto sarei sceso dal pullman.

ha rincarato la dose il tecnico azzurro a fine partita. La toppa peggio del buco. Non una novità per un grande insegnante di calcio ma che, in questi anni da protagonista al San Paolo, non è riuscito ad adeguare il suo linguaggio ai livelli di risultato conquistati. Posto che non è la categoria a fare l’uomo o lo sportivo.

Hanno continuato Roberto Pruzzo e Bruno Conti con il dito medio in bella mostra davanti allo
stemma del Liverpool nella pancia di Anfield. Brucia ancora quella finale persa in casa con i Reds 34 anni fa.

Era un modo per esorcizzare ridendo!

si è giustificato l’ex bomber col baffo. Peccato non si trattasse di due tifosi qualsiasi in gita sul Mersey Side ma di due simboli del calcio tricolore e non solo, con l’aggravante che Conti è dirigente capitolino e fa parte della delegazione giallorossa in Inghilterra. Qualcuno ha studiato le posizioni delle dita dell’ex ala romanista, ipotizzando un gesto in stile “finger crossed”, dita incrociate. Ma oltre la radiografia della foto resta un’immagine su cui resta poco da discutere.
Professionisti che dimenticano chi sono e che cosa rappresentano. Anche Gigi Buffon, dopo Real Madrid Juve, pur comprendendo il suo stato nervoso per un finale sportivamente drammatico, avrebbe fatto meglio a non rilasciare alcuna dichiarazione a caldo ai microfoni. Al pari delle polemiche social tra Mehdi Benatia e il comico Maurizio Crozza.
Allora soffermiamoci sullo stesso capitano juventino che, al termine di Juve Napoli, pochi minuti dopo il gol di Koulibaly, ha aspettato tutti i calciatori e lo staff partenopeo per complimentarsi con loro.
Analoga bellezza per i giocatori della Roma che hanno omaggiato, attraverso una corona di fiori deposta dal capitano De Rossi, i tifosi del Liverpool vittime della strage di Hillsborough davanti al memoriale all’esterno di Anfield Road.


C’è una storia da rispettare, ci sono provocazioni da farsi scivolare addosso, c’è un codice non
scritto a cui attenersi. Si chiama professionismo, si legge sport.