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Ci sono voluti più di mezzo secolo e decenni passati ai margini, ma ora finalmente il mondo dello sport americano fa pace con i due velocisti Tommie Smith e John Carlos e li inserisce nella Hall of Fame olimpica. Era il 1968 e alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, il mondo si fermava di fronte ai velocisti statunitensi e ai loro pugni chiusi, avvolti in un guanto nero, alzati contro il cielo a simboleggiare il Black Power.

Era il 16 ottobre 1968 quando, nella finale olimpica dei 200 metri piani, Smith stabilì il nuovo record del mondo con 19,83 secondi, e conquistò la medaglia d’oro nonostante un tendine non nelle migliori condizioni. Carlos, con 20,10 secondi, agguantò il bronzo alle spalle dell’australiano Peter Norman. Saliti sul podio per le premiazioni, al risuonare delle prime note dell’inno americano, i due atleti alzarono al cielo i pugni chiusi ricoperti da un guanto nero. L’immagine, immediatamente catturata dai fotografi, è diventata una delle più famose del secolo: era il 1968, l’anno dell’assassinio di Martin Luther King, un anno di rivoluzioni, di lotte, di rivendicazioni, come quella di Smith e Carlos che salirono sul podio scalzi per protestare contro la realtà della segregazione razziale, così forte in quegli anni negli Usa.

La reazione delle autorità fu dura: i due vennero espulsi dal villaggio olimpico e poi rispediti a casa. Rientrati in patria, ricevettero minacce, furono spiati dall’Fbi ma diventarono simboli per molte persone di colore, e non solo, in America. Solo con il tempo si riuscì a comprendere la grande portata rivoluzionaria del loro gesto: nel corso degli anni sono stati numerosi i riconoscimenti per Smith e Carlos, nel 2005 venne loro dedicata una statua all’università di San Josè ed è del 2009 il film “Il saluto” sulla loro storia.

Ma la pace definitiva arriva solo oggi, nel 2019: il prossimo 1° novembre, infatti, i due velocisti entreranno a far parte della Hall of Fame olimpica statunitense, dopo la cerimonia che si terrà a Colorado Springs nella sede del comitato olimpico.

 

Sulla supremazia della Nazionale femminile americana si è già detto molto. A tratti imbarazzante lo strapotere mediatico, patriottico che è solo pari alla forza, qualità e tecnica delle calciatrici in campo. E confermare anche la differenza rispetto al calcio maschile c’è un dato curioso. Il 13-0 con cui le ragazze stelle e strisce hanno annientato la Thailandia nel match inaugurale del loro Mondiale francese non solo ha segnato diversi record, ma ha portato anche a questa statistica: Morgan&Co. in una sola partita hanno segnato più reti della Nazionale americana maschile combinando le partecipazioni a tre edizioni della Coppa del Mondo.

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Nel 2006, in Germania, infatti, gli americani hanno segnato solo due gol (nell’1-1 contro l’Italia – e autogol di Zaccardo; 2-1 contro il Ghana e rete di Dempsey), nel 2010, in Sudafrica hanno fatto meglio con 5 marcature ( 1-1 all’esordio contro l’Inghilterra con gol di Dempsey, poi 2-2 contro la Slovenia con Donovan e Bradley, nella vittoria contro l’Algeria ancora con Donovan che poi ha segnato il gol della bandiera nel 2-1 contro il Ghana agli ottavi); stesso bottino di 5 reti anche quattro anni dopo, nel 2014, in Brasile (Dempsey e Brooks nel 2-1 contro Ghana, Jones e Dempsey per il 2-2 contro il Portogallo, e Green al 107 nella sconfitta contro il Belgio agli ottavi).

E nel 2018? Ah no, non si sono qualificati. Quindi, ricapitolando gli uomini hanno impiegato 12 anni, 11 partite e tre Mondiali per fare quello che le ragazze hanno realizzato in 90 minuti più recupero.

Tredici febbraio 2019, l’Inter ufficializza il passaggio della fascia da capitano da Icardi ad Handanovic e per il numero 9 argentino inizia una discesa ripida che, tuttora, pare non sia finita.

L’ultimo capitolo di questi lunghi mesi difficili per Maurito è la mancata convocazione per la prossima Coppa America. Il commissario tecnico Scaloni, infatti, ha deciso di privarsi della punta nerazzurra per il torneo continentale puntando su altri colleghi come: il compagno di squadra Lautaro, Messi, Aguero, Dybala e Suarez.

Una vera e propria beffa per l’ex capitano interista il quale, fino a qualche mese fa, era il giocatore imprescindibile per la squadra milanese e volto nuovo dell’attacco argentino, dopo l’addio di Higuain.
I mesi bui e burrascosi trascorsi alla Pinetina, le partite saltate a causa di infortuni, le divergenze con club e allenatore, i bisticci social e il poco feeling sotto porta hanno spinto il ct Lionel Scaloni a prendere questa decisione.

In effetti, questi primi cinque mesi del 2019 sono stati i peggiori della carriera di Mauro Icardi, sia dentro che fuori dal rettangolo verde.

Dal suo ritorno in squadra con più costanza ha gonfiato la rete solamente in due occasioni ed entrambe da calcio di rigore, l’ultimo messo a segno contro il Napoli nel 4-1 finale (con tanto di polemica tra la moglie Wanda Nara e il commentatore Daniele Adani).
Se cerchiamo la rete su azione, dobbiamo fare un salto addirittura al 2018 nel match prenatalizio del 18 dicembre nella vittoria contro l’Udinese a san Siro. Al braccio aveva ancora la fascia da capitano.

Da quando è arrivato a Milano questa è la sua seconda peggior stagione realizzativa in campionato. Peggio ha fatto solamente durante la prima annata (2013/14) quando di gol ne ha realizzati 9 ma in 22 match e all’età di 21 anni. Sicuramente l’ambiente e il rapporto soprattutto con mister e alcuni compagni ne hanno influito il rendimento. Mauro Icardi è sempre stato uno dei calciatori meno in discussione della rosa nerazzurra, soprattutto per la costanza nei gol.

Le varie divergenze nel triangolo Icardi – Nara – Inter hanno condizionato in maniera concreta la stagione dell’argentino, chiusasi anche con il forfait con l’Albiceleste. Il tutto collegato anche una grossa svalutazione da 100 (grazie alle reti in Champions League) a 60 milioni di euro, come riporta il Cies.

Il crollo del rendimento di Mauro Icardi da gennaio ad oggi secondo i dati del CIES, Eurosport
Il calo netto della valutazione del 9 argentino

Il futuro della punta è ancora tutto da scoprire: voci di mercato lo spingono altrove lui, attraverso Instagram, ha precisato di volere solo l’Inter.

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Il post di Icardi che spegne le voci di mercato

Con la quasi sicura partenza di Spalletti qualche scenario cambierà e chissà se Maurito sarà ancora l’attaccante chiave dei nerazzurri o ci sarà lo scossone di mercato.

È stata una partita avvincente tra due squadre con gli astri nascenti del basket NCAA americano più interessanti e che sognano un futuro in Nba.

Tra questi c’è anche un po’ d’Italia e due ragazzi che sono stati protagonisti di una lunga stagione e della finale che si è giocata a Minnesota e vinta dai Virginia Cavaliers, al suo primo titolo della storia, contro i Red Riders per 85-77 all’overtime.
L’Italia è stata rappresentata dall’italoamericano Francesco Badocchi (Virginia University) e dal bolognese Davide Moretti (Texas Tech).

Quest’ultimo è stato uno dei protagonisti principali di tutto il campionato collegiale in cui ha dimostrato talento e velocità, che gli hanno permesso di essere decisivo soprattutto dal tiro da tre punti. Il bolognese, ricorda un po’ Marco Belinelli, studia alla Texas Tech University di Lubbock e ha trascinato i Red Riders fino alla finale.
Davide però è già entrato nella storia grazie al premio Elite 90: un riconoscimento che va al miglior atleta-studente della Division I del college basket sulla base di voti e risultati sportivi.

Purtroppo per Davide il sogno della vittoria si è fermato all’ultimo step. Nonostante i favori dei pronostici fossero tutti dalla parte dei Cavaliers, Davide è scoppiato in lacrime al termine del match dopo aver messo a segno ben 15 punti.

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Il pianto di Moretti al termine della finale persa contro i Cavaliers

Il futuro comunque è tutto da vivere per un giovane che alla prima esperienza americana è già arrivato così in fondo e da attore protagonista. Pertanto sicuramente continueremo a sentir parlare di lui.

Per Francesco Badocchi emozioni totalmente opposte. La 20enne ala nata a Milano, prima di emigrare in Usa, sprizza felicità da tutti i pori perché è il primo italiano a vincere un titolo Ncaa dopo aver saltato molte partite a causa di un grave infortunio.

In America è arrivato nel Kansas per gli anni del liceo, con il sogno del basket e di studiare economia, Badocchi è cresciuto nelle giovanili dell’Olimpia Milano e nel Libertas Cernusco.

In America è stato subito soprannominato Human pogo stick per l’esplosività. Sa che la sua strada è ancora lunga e ora la vittoria è giunta da comprimario, però il futuro è tutto dal sua parte.

Ha continuato a segnare come al suo solito e lo ha sempre fatto con costanza, tanto da diventare il tiratore da tre punti più prolifico della storia dell’Nba.

Si tratta di Steph Curry, playmaker di Golden State che, dopo un leggero calo realizzativo nel mese di febbraio è tornato alla carica a suon di triple in Western Conference.

Negli ultimi nove match disputati il numero 30 dei Warriors ha messo a segno almeno 5 triple, facendo registrare una percentuale del 48,7 al tiro dalla distanza (suo punto forte).

 

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What Did He Pump Fake At …😂💀 – credits:@curryformz Follow @shiningcurry for more!🏀 –

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A giustificare quest’ottimo trend è lui stesso, poiché ha trovato una soluzione a un problema fisico che lo ha attanagliato per molto tempo. Un disturbo visivo legato all’assotigliamento della cornea gli impediva di focalizzare al meglio il canestro.

Grazie all’utilizzo di specifiche lenti a contatto, Curry è tornato a vedere nel miglior modo possibile e realizzare triple a quantità industriale.

Il problema ottico si chiama cheratocono, meglio noto come KC nel campo oftalmico, e il play americano ne soffriva da tempo.

Ho iniziato a mettere le lenti a contatto, è come se mi si fosse aperto davanti il mondo intero!

Ha ribadito lo stesso Curry.

È stato Leo Messi con un pallone da basket!

Parole semplici quelle di Sean Elliot ma che sintetizzano ciò che è stato Manu Ginobili per i San Antonio Spurs e per tutta l’Nba: uno dei cestisti internazionali più forti della storia del basket americano.

La notte del 28 marzo 2019 è stata speciale per tutto il popolo amante di questo sport, perché segna uno step fondamentale per la storia degli Spurs: il ritiro della maglia numero 20 indossata dall’argentino durante i sedici anni di permanenza in Texas.

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Il saluto di Gonibili al pubblico presente per l’evento

All’AT&T Center, una cerimonia da brividi davanti all’assoluto protagonista e a tanti suoi ex colleghi e compagni di squadra, oltre al grande coach Gregg Popovich.

Con la canotta grigionera Ginobili ha vinto ben quattro titoli Nba (l’ultimo nel 2014 con l’italiano Marco Belinelli) oltre ad altri record come l’essere entrato nella top 5 per partite disputate (1057 di stagione regolare più 218 di playoff), punti (14043), assist (4001) e recuperi (1392). Mica male per chi ha deciso di ritirarsi lo scorso agosto a 40 anni, dopo aver vinto anche l’Eurolega con la maglia di Bologna (con annesso premio di MVP) e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene 2004 con la nazionale argentina.

Senza di lui non avremmo mai vinto!

Parole secche quelle di coach Popovich il quale ha tanto amato Ginobili e con estrema schiettezza ha ribadito quanto fosse stato fondamentale per i successi degli Spurs. Con Parker e Duncan (Big Three) hanno segnato un’epoca in Nba alla base dei trionfi della franchigia texana.

Un video tributo da brividi che sintetizza in breve i sedici anni trascorsi in America, tutti con la stessa canotta, tutti con gli stessi colori.

Ora sul tetto dell’AT&T Center di San Antonio c’è anche lui, accanto ad altri campionissimi degli Spurs come la 21 proprio di Tim Duncan, oltre alla 00 di Johnny Moore, alla 6 di Avery Johnson, alla 12 di Bruce Bowen, alla 13 di James Silas, alla 32 di Sean Elliot, alla 44 di George Gervin e alla 50 di David Robinson.

Gracias Manu!

Per gli amanti del calcio non è un giorno come gli altri, tutti vorrebbero vederlo ancora correre verso la bandierina del calcio d’angolo e strisciare con le ginocchia sul prato verde del campo di gioco dopo un gol realizzato, ma la decisione è stata presa e Didier Drogba ha deciso di lasciare il calcio giocato.

Un attaccante come l’ivoriano che ha affascinato il popolo calcistico qualsiasi sia stata la squadra per cui ha giocato.

A 40 anni ha scelto di dire basta con pallone e scarpini e l’ha voluto fare ringraziando chi c’è stato e chi l’ha aiutato a farlo diventare ciò che è diventato. Parole scritte sui suoi canali social descrivendo la sua carriera ricca di successi come un viaggio iniziato sin da piccolo, seguendo quel sogno che poi è diventato realtà e quella realta che poi è diventata la sua vita.

 

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1989 or where it all started!! When I think of the last 20 years of my professional career, looking at this picture can’t make me more proud of what I’ve achieved as a player but most importantly how this journey as shaped me as a man. If anyone tells you your dreams are too big, just say thank you and work harder and smarter to turn them into reality. #alwaysbelieve I wanna thank all the players, managers, teams and fans that I have met and made this journey one of a kind!!! Also a huuuuge thank you and love to my family ♥️, my Personal Team for supporting me all my career during all the ups and downs no matter what. Looking forward to the next Chapter and hoping God will Bless me as much as he did for my football career 🙏🏾🙏🏾🙏🏾 DD11 1989 Là où tout à commencé !! Quand je pense aux 20 dernières années de ma carrière professionnelle, regarder cette photo de ma première licence, ne peut que me rendre plus fier de ce que j’ai accompli en tant que joueur mais plus important encore, comment cette aventure à fait de moi l’homme que je suis aujourd’hui. Si quelqu’un vous dit un jour que vos rêves sont trop grands, acquiescez et travaillez plus dur plus intelligemment pour les rendre réalité!!!! J’aimerai remercier tous les joueurs, coachs, équipes, et supporters, que j’ai rencontré et ont fait de cette carrière un moment très spécial. Un grand merci du fond du cœur à toute ma famille, mon « équipe personnelle » de m’avoir soutenu durant toute ma carrière, dans les bons comme dans les mauvais moments. Hâte de démarrer le prochain chapitre en espérant que Dieu me bénisse une fois de plus comme il l’a fait pendant toute ma carrière 🙏🏾🙏🏾🙏🏾 DD11 #Dunkerque #Abbeville #Tourcoing #Vannes #LevalloisPerret #Lemans #Guingamp #Marseille #Chelsea #Shanghai #istanbul #Montreal #phoenix @usldunkerqueofficiel @levalloisfootball @lemansfc.officiel @eaguingamp @olympiquedemarseille @chelseafc @shanghaishenhua @galatasaray @impactmontreal @phxrisingfc

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LE GIOVANILI IN FRANCIA E IL DEBUTTO IN LIGUE 2

Il ricordo della sua carriera parte da una foto sui campi di Niaprayodove in Costa d’Avorio dove tutto è cominciato all’età di 11 anni nel 1989. L’alternanza con la scuola, il trasferimento in Francia e le giovanili prima a Levallois e poi a Le Mans con i conseguenti debutti in prima squadra in Ligue 2, con i primi veri contratti da professionista e con le convocazioni tra gli Elefanti d’Africa di cui è ampiamente il miglior marcatore della storia con 65 reti in 105 presenze.

IL PASSAGGIO ALL’OM

Il salto di qualità avviene quando l’Olympique Marsiglia lo acquista dal Guingamp. In una sola stagione riesce a segnare molti gol in campionato e a trascinare i francesi in finale di Coppa Uefa, persa contro il Valencia per 2-0. In quella stagione ha punito anche l’Inter nei quarti di finale d’andata con il gol dell’1-0 al Vélodrome.

IL TRASFERIMENTO AL CHELSEA
Didier Drogba alla sua prima stagione con la maglia del Chelsea

La svolta della sua carriera, però, avviene l’anno successivo, quando lo stesso José Mourinho, fresco allenatore dei Blues, gli telefona per convincerlo a volare a Londra. Da quella chamata Drogba è diventato l’idolo di tutti i tifosi del Chelsea e un calciatore amato e stimato da tutti. Con il Chelsea in otto anni vince tutto, coronando il sogno della Champions League nella stagione 2011/12, segnando una quantità enorme di gol importanti in tutte le competizioni.

IL RITORNO A LONDRA, PRIMA DELL’AMERICA
Drogba con la maglia dei Phoenix Rising in Usl

Il suo amore per il Chelsea lo riporta in Inghilterra nella stagione 2014/15 dopo le parentesi in Cina e al Galatasaray in Turchia e prima del trasferimento in America, prima al Montréal Impact in Mls e poi in Usl nei Phoenix Rising.

Una carriera che gli ha permesso di essere un vincente e di essere uno dei calciatori africani più affermati a livello mondiale, oltre a essere molto vicino al suo Paese attraverso aiuti umanitari.

A dirgli addio anche alcune squadre avversarie e qualche “conoscente”

Nella lettera ha ribadito che comincerà un nuovo capitolo e ora siamo curiosi di sapere di cosa si tratta.

Mancherà un po’ a tutti Didier, ma quello che ha fatto in campo difficimelmente sarà dimenticato.

Come spesso accade al Toronto Fc è l’italiano Sebastian Giovinco a guidare la squadra alla vittoria.

Così è stato anche in Concacaf Americana contro i messicani dell’America.

The Atomic Ant, che intanto ha avuto il piacere di essere “celebrato” da una famiglia americana che ha deciso di chiamare il proprio figlio con lo stesso nome del numero 10 del Toronto, ha aperto le marcature nella gara di andata della semifinale della Champions League americana. Il match è terminato 3-1.

Trascinando la propria squadra, Sebastian Giovinco è stato anche nominato come migliore in campo. Non solo il rigore trasformato dal dischetto, ma anche un assist al bacio per il compagno di squadra Jose Altidore.

 

Il match è stato avvincente tra due squadre che hanno voluto dimostrare di non essere giunti in semifinale per caso. Enorme la posta in palio e non solo dal punto di vista sportivo, con il Club America strafavorito e otto volte vincitore della competizione, accolto da tutto il calore del BMO Field.

Il 3-1 per i canadesi è importante, ma non decisivo in vista della gara di ritorno, per tutto il movimento calcistico nordamericano e una certificazione della nuova competitività della MLS contro squadre più ricche, consapevoli ed attrezzate come quelle messicane. Il tutto a discapito di un’immagine che al di qua dell’Atlantico resta snobbata dietro a luoghi comuni che nascondono la poca conoscenza della realtà sul campo.

Una cosa è certa Giovinco non mollerà la presa e continuerà a trascinare i canadesi verso la finale.

Un ritiro di maglia è un gesto sportivo molto importante che sottolinea e rafforza il legame tra una squadra e il suo protagonista.

Succede in quasi tutti gli sport di squadra nel calcio, nel baseball e pure nella pallacanestro.

Proprio nel basket sta diventando sempre più una consuetudine, soprattutto nel campionato americano dell’Nba, in cui solamente Clippers, Grizzlies e Raptors fanno eccezione.

Fresca è l’ufficialità del ritiro della storica 34 dei Boston Celtics indossata da Paul Pierce per ben 14 anni. Con i Celtics ha vinto un campionato Nba nel 2008 con il titolo personale di MVP della Fase Finale. Dalla stagione 2001/02 detiene il record della storia della franchigia a guidare l’NBA per punti segnati in una stagione: 2144.

Davanti proprio alla platea del The Garden stracolma di tifosi green, c’è stata l’emozionante post partita che ha visto come protagonista la guardia originaria Oakland. Uno show da brividi per esaltare ciò che il campione americano ha realizzato nella sua lunga carriera nel Celtics, che a loro volta lo hanno omaggiato con lo storico ritiro di maglia. Sono così 22 i numeri di maglia ritirata dalla franchigia bostoniana.

Come Paul Pierce anche altre stelle dell’Nba hanno avuto questo grande onore: il ritiro della maglia, che viene poi appesa ai soffitti delle arene dove tutti le possono ammirare.

Proprio i Celtics conservano gelosamente questo tipo di cultura, grazie anche ai suoi 17 titoli. Tra le ventidue maglie c’è il 33 dell’ala Larry Bird. The Legend ha guidato i Celtics dal 1979 al 1992.

In ordine cronologico, invece, prima di Paul Pierce è stato Tim Duncan degli Spurs. San Antonio ha voluto ritirare la storica 21 dell’ala grande, indossata per 19 anni (con annessi 5 titoli Nba in bacheca).

Ovviamente se pensiamo ai campioni e figure storiche dell’Nba, non possiamo che far riferimento al grande MJ, Michael Jordan. A Chicago domina la sua immagine e ricordiamo che la sua 23 è stata prima ritirata nel 1994, quando MJ abbandonò per la prima volta il basket per il baseball. Dopo una piccola parentesi con il 45, la 23 tornò al suo legittimo proprietario per poi essere definitivamente ritirata al suo addio.

Tra le franchigie che ha avuto più campioni dell’Nba ci sono sicuramente i Lakers. La squadra di Los Angeles conta, dunque, anche tanti ritiri di maglie. Tra le stelle storiche della squadra americana ci sono campionissimi come Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, i quali hanno vinto il premio come miglior giocatore dell’anno MVP. Proprio le maglie di questi quattro fuori classe sono appese al soffitto dello Staples Center. MJ ha avuto l’onore di avere un ritiro maglia anche da una squadra in cui non ha mai giocato, Miami Heat.

Dal 1975 al 1989 Abdul-Jabbar ha giocato per i Lakers con addosso la mitica 33 gialloviola. Cinque titoli in bacheca e miglior marcatore della storia Nba (38387 punti). Particolarità del campione americano è che sia stata ritirata la 33 anche della sua prima squadra con cui ha vinto il titolo nel 1971, i Milwaukee Bucks.

I Lakers hanno ritirato anche la 32 dell’attuale presidente gialloviola, Magic Jhonson. Considerato uno dei cestisti più forti della storia. Il playmaker che ha fatto scintille negli anni ’80.

Rimanendo a Los Angeles, non possiamo dimenticarci del gigante Shaquille O’Neal il quale, approdato nei Lakers ha dovuto rinunciare al suo amato 32 (appartenuto proprio a Magic Jhonson), per ripiegare sul 34 che poi è diventata la maglia dei 3 titoli con i gialloviola e uno con gli Heat. Anche la squadra di Miami ha deciso di appendere la gigante canotta di O’Neal nell’America Airlines Arena.

L’ultimo dei Lakers è stato comunque Kobe Bryant. Nel 2017 sono state appese le sue due maglie, la numero 8 e la numero 24 (delle due esperienze a Los Angeles). Inutile ribadire la grande carriera che ha vissuto Bryant, una delle ultime stelle del basket mondiale.

Uno che ha lasciato il segno in due città è stato anche Julius Erving. A Doctor J è stata ritirata la numero 6 dai Philadelphia 76ers e la numero 32 dei Nets.

I New Jersey Nets, inoltre, si sono trovati inaspettatamente a ritirare la maglia n°3 del croato Drazen Petrovic nel 1993, dopo il grave incidente che costò la vita al primo cestista europeo a diventare una superstar nel basket americano.

Gli Utah Jazz hanno voluto omaggiare una delle coppie più prolifiche dell’Nba: John Stockton e Karl Malone. Insieme dal 1985 al 2003, la franchigia ha voluto appendere le canotte 12 e 32 all’interno dell’arena di Salt Lake City.

L’Indiana è terra di basket ed è per questo che per ottenere un ritiro maglia devi aver creato qualcosa di leggendario. Tra i cinque giocatori appesi al soffitto c’è Reggie Miller, dal 1987 al 2005 a Indiana, co cui ha messo a segno oltre 25mila punti.

A due europei dei Sacramento King è stato concesso questo onore: Vlade Divac (1999-2004) e Peja Stojakovic (1999-2006). Oltre a questi due, i Kings (così come i Magic) hanno ritirato anche la 6 in onore del pubblico, inteso come sesto uomo in campo.

L’esordio in NFL è arrivato in maniera casuale, al primo match è stato apprezzato e congratulato da tutti per la grande prestazione, ora la sua stagione è conclusa e spera in un nuovo contratto con gli Oakland Raiders.

Si tratta dell’Italians Giorgio Tavecchio, giocatore di football americano da diversi anni ma che è riuscito a mettersi in mostra negli ultimi mesi della stagione. Grande estimatore dell’italiano è stato il suo coach Jack Del Rio che, a fine stagione, ha lasciato i Raiders. Proprio Del Rio lo ha voluto fortemente come sostituto dell’infortunato, Sebastian Janikowski, un’icona della squadra americana.

Il debutto è stato da favola, un po’ meno il finale di stagione in cui gli Oakland sono usciti sconfitti contro i Dallas Cowboys e quindi hanno salutato anzitempo playoff e campionato . Un errore a inizio gara da parte di Tavecchio, col senno di poi, è costato caro per il punteggio finale nello scontro diretto. Tuttavia però la stagione dell’italiano è da definirsi più che positiva.

Nel corso della stagione, infatti, il placekicker milanese ha messo a segno, con una media di calciatura del 76,2% in FG, 16 field goal su 21 tentativi e 33 su 34 tentativi extra. Ha segnato complessivamente 81 punti e nei kick off ha mostrato grandissimi miglioramenti. Insomma, considerando che era alla sua prima stagione, un rookie quindi, e in un team che, rispetto allo scorso anno, ha stentato non poco fallendo i play off, credo che la stagione di Giorgio resti positiva. Ha dimostrato di poter stare nel grande giro americano.

Tuttavia deve comunque continuare a lavorare come ha sempre fatto. Nel post season dovrà migliorarsi ancora di più e posizionarsi in un range alto per gli standard della lega.

Non ci resta che sperare in una conferma o comunque in un team prestigioso per l’italiano cresciuto in America con una palla ovale.