Una malaria non diagnosticata; i tentativi, vani, degli amici di avvisare i medici convinti che si trattasse di un’influenza o, al più, di una bronchite. Il 2 gennaio 1960, a soli 40 anni, moriva il leggendario ciclista Fausto Coppi. Un fatale errore di sottovalutazione di quella malattia contratta in Africa, nell’Alto Volta (attuale Burkina Faso), nel 1959, quando Coppi, assieme ad altri corridori come Raphaël Géminiani e Jacques Anquetil, fu invitato a un criterium, un’eccezionale corsa nelle vie della città di Ouagadougou, per celebrare l’anniversario dell’indipendenza del giovane paese africano. Il ciclista nato nel piccolo borgo di Castellania, fra le colline sopra Tortona, aveva già contratto la malaria durante la guerra, quando era stato spedito sul fronte africano, eppure, diagnosticata in tempo, fu curato con il chinino (farmaco idoneo per la cura) senza troppi intoppi.
Tornato in Africa da ciclista, l’”Airone” partecipò anche ad alcune battute di caccia nelle riserve di Fada N’gourma e Pama, non lontano dalla capitale, come osservatore, preferendo fare fotografie agli animali e conoscere i nativi di alcuni villaggi sperduti, mentre parlava del suo sogno di commercializzare in Africa biciclette con il suo nome. Qualche anno dopo, Géminiani, grande amico di Coppi, con cui divise la camera d’albergo, confermò le pessime condizioni che trovarono dove alloggiarono: «Fummo presi d’assalto dai “Moustiques”, i letti non avevano le zanzariere. Fummo martoriati». E’ probabile che proprio in questo momento Coppi venne punto da una zanzara, contraendo così il virus.
Raphaël e Fausto, in quel momento, si trovarono a vivere lo stesso dramma. Durante le festività natalizie si sentirono telefonicamente: Coppi chiese all’amico di combinare una squadra di corridori francesi per la sua bici, la bici Coppi, ma Géminiani rimandò dicendo che stava male e che aveva una strana febbre. Sintomi condivisi dallo stesso ciclista italiano. La situazione degenerò per entrambi di lì a poco: a Coppi, con 40 di febbre, fu diagnosticata l’influenza asiatica; in Francia, invece, Raphaël entrò in coma. Qui le analisi del sangue furono rapide e precise: si trattava di malaria. Imbottito di chinino, il corridore transalpino riuscì a salvarsi. Ecco la possibile svolta per Coppi: la moglie di Raphael telefonò in Italia avvertendo i medici che avevano in cura il ciclista italiano che si trattava di malaria, ma venne incredibilmente ignorata e non presa in considerazione. Le condizioni di salute, peggiorate di ora in ora, precipitarono del tutto: diversi dottori formularono un’altra diagnosi, optando per una broncopolmonite emorragica da virus. Agli antibiotici venne aggiunto il cortisone, ma nulla cambiò.
Il primo gennaio i medici si decisero a ricoverarlo in ospedale. Poco prima di allontanarsi per sempre dalla sua abitazione, Fausto, raccogliendo le ultime forze, chiamò accanto a sé il figlio Faustino e disse: «Fai il bravo, Papo!». Fausto Coppi fu ricoverato a Tortona, ma non ci fu nulla da fare: il due gennaio 1960, alle 8,45, moriva il ciclista, l’uomo e nasceva definitivamente la sua leggenda, il mito. Ammirato in tutta Europa, osannato in patria, il quattro gennaio sono cinquantamila sul colle di San Biagio a seguire il funerale del “Campionissimo”.
Nella carriera da professionista, durata ventuno anni, Coppi vinse complessivamente 151 corse su strada, 58 delle quali per distacco, e 83 su pista. Indossò per 31 giorni la maglia rosa del Giro d’Italia e per 19 giorni la maglia gialla del Tour de France. Al Giro vinse ventidue frazioni, al Tour nove.
Raphaël Géminiani, intervistato dal Giornale, disse:
Io rimasi otto giorni in coma, altro che storie: mi ritengo un miracolato. Quando mi risvegliai era il 5 gennaio. Fu mia moglie a dirmi: “Fausto è morto”. Sul tavolino i giornali francesi con i titoli a piena pagina
Giulia Occhini saluta per l’ultima volta Fausto Coppi