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Michele De Martin

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Il 2 marzo 1886, a Torino, nasce l’allenatore più vincente della storia della nostra Nazionale, un fiero condottiero che seppe portare gli Azzurri al successo in due edizioni consecutive della massima competizione mondiale (1934 e 1938) – allora chiamata Coppa Rimet –  inframezzando questi exploit con la vittoria nell’Olimpiade del ’36 (l’unica per i nostri colori) e condendo il tutto con l’affermazione in due Coppe Internazionali (manifestazione antesignana degli Europei) nel 1930 e 1935.

Risultati che ne fanno senza dubbio uno dei più grandi personaggi unificatori dello sport italiano. Vittorio Pozzo: il Re Mida della Nazionale.

LA VITA

Pozzo nacque il 2 marzo 1886 a Ponderano, a due passi dalla Torino in pieno sviluppo industriale di fine ‘800, da una famiglia della piccola borghesia.
Un’infanzia non facile quella di Vittorio, connotata da modeste opportunità economiche ma, grazie agli sforzi dei genitori, caratterizzata anche da una buona educazione che, unita alle sue indubbie doti personali, contribuì a formarlo come uomo integro che faceva della preparazione e dello studio la sua dote peculiare e del piacere di viaggiare e scoprire nuove culture il segreto della sua evoluzione personale.
E fu proprio grazie ad un viaggio in Inghilterra che scoprì quel football che avrebbe riempito i suoi giorni e lo avrebbe accompagnato verso la gloria imperitura. Iniziò la sua carriera fondando la Football Club Torinese (l’attuale squadra granata di Torino) da “Presidente – giocatore” ma a 25 anni smise i panni del calciatore per concentrarsi sugli studi e diventare, poi, dirigente della Pirelli.
Ma fu al termine della Grande Guerra, dove si distinse come tenente degli alpini, che si vide la svolta della sua carriera sportiva. Grazie alla sua competenza, si guadagnò l’attenzione del mondo sportivo entrando nel mondo della nazionale di calcio, della quale diventa più di una volta commissario unico.

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LA LEGGENDA

È l’inizio della leggenda. Quella dell’allenatore che riuscì in ciò a cui nessun altro CT seppe mai avvicinarsi: vincere due Mondiali consecutivi (1934 e 1938). Per capire la portata dell’impresa, basti pensare che, dopo gli azzurri, solo il grande Brasile di Pelè, Didì, Vavà e Garrincha e soci riuscì a vincere due edizioni consecutive del Mondiale, nel ’58 in Svezia e nel ’62 in Cile ma con due commissari tecnici differenti, rispettivamente Feola e Moreira.

Viene da chiedersi quali furono i segreti per un successo così clamoroso.
Ebbene, Pozzo ci riuscì con i suoi metodi che univano la sua formazione militare e la sua capacità di dirigere il gruppo, in modo autorevole ma non autoritario, battendo sulle corde dell’identità e dell’orgoglio nazionale, traendo così il meglio dai suoi calciatori. Ingredienti semplici per imprese epiche.

Emblematiche della sua duplice natura, militaresca ma non autoritaria, e del forte legame, anche umano, instaurato con i propri calciatori, sono le parole che disse Piola con riferimento ai duri allenamenti nel ritiro pre – Mondiale del ’38:

Eravamo reduci da due mesi di strettissimo ritiro. Donne niente. E in campo vedevamo non uno, ma due palloni!”

Piola raccontava poi che in quella situazione, Giuseppe Meazza si trovò a supplicare Pozzo per una mezza giornata di riposo. Nonostante la preferenza per rigore e disciplina, Pozzo non si dimenticò di ascoltare i suoi ragazzi e concesse la mezza giornata. Con l’epilogo trionfale che tutti conosciamo.

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IL “METODO”

Era un allenatore estremamente preparato che non rinnegò mai il suo legame con il proprio passato militare ma che seppe unirci una forte volontà di evoluzione, riuscendo a portare innovazione in un calcio che, da ormai 30 anni, era fossilizzato sul metodo della Piramide di Cambridge, quel 2-3-5 a piramide rovesciata di matrice anglosassone e, di lì, si diffuse nel mondo intero.
Fu proprio Pozzo, infatti, insieme al collega Meisl allenatore del Wunderteam austriaco, a rielaborare questo modulo ed evolverlo nel cosiddetto “metodo”, una sorta di 2-3-2-3 che si fondava sulla centralità del centromediano e che prevedeva l’accentramento dei terzini e il loro avanzamento in funzione della tattica del fuorigioco e che fu il segreto dei successi del Grande Torino, che vinse cinque scudetti consecutivi dal 1942-1943 fino alla tragedia di Superga.

Pareva doveroso rendere onore, nel giorno della sua nascita, ad un uomo che deve essere considerato, di diritto, uno dei fautori della modernizzazione del calcio e che seppe diventare leggenda italiana nel momento storico più difficile per la nostra Nazione. Ciò che rende speciale il successo di Pozzo è infatti essere riuscito ad ottenerlo in un periodo come quello degli anni ’30 del Novecento, raccogliendo i cocci della drammatica esperienza della Grande Guerra ed ergendosi ad assoluto punto di riferimento per un intero movimento sportivo con una sequela incredibile di successi che mai si sarebbe ripetuta e che, probabilmente, mai potrà ripetersi.

Un centravanti come lui oggi non avrebbe prezzo e segnerebbe almeno un goal a partita 

Questo dice ancora oggi di lui Giampiero Boniperti, ex compagno di squadra e amico che, assieme a Charles e al “Cabezon” Omar Sivori formò il cosiddetto Trio Magico, uno dei tandem d’attacco più prolifici nella storia del calcio italiano, paragonabile alla mitica Gre-No-Li (Gren – Nordhal – Liedholm) di matrice scandinavo – rossonera.

Senza dubbio Charles lasciò un segno indelebile nella storia juventina grazie alla sua prolificità, figlia di uno stacco imperioso e di un senso del gol da vero fuoriclasse ma ciò che più è rimasto impresso nella critica e che viene tramandato da chi ha avuto la fortuna di conoscere da vicino il colosso gallese fu senza dubbio la sua pacatezza, il suo essere moderato, doti che gli valsero l’etichetta, universalmente riconosciuta, di “Gigante Buono”.

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La vita e i successi

Charles nacque il 27 dicembre del 1931 a Swansea, città costiera nel sud del Galles, da una famiglia di umile estrazione ( i genitori erano minatori) e, solo sedicenne, venne ingaggiato dal Leeds United, dove alternò, per via della sua imponente mole, il ruolo di attaccante a quello di difensore centrale.

Nei “Peacocks” rimane ben nove stagioni con un bottino di 150 reti in 297 presenze. Un vizio, quello del goal, che non perse neppure in Italia: chiuse il suo lustro con la Vecchia Signora con 178 presenze e 105 goal in tutte le competizioni riportandosi oltremanica nel suo carniere una Coppa Italia nel 1958-‘59, l’accoppiata fenomenale Scudetto – Coppa Italia nel 1959-‘60 e un altro Campionato (1960-‘61) e senza mai essere ammonito o espulso. Un’incredibile costanza di successi frutto dell’affiatamento e della perfetta combinazione di stili di gioco totalmente diversi che garantiva il Trio Magico.

Impossibile, perlomeno su 2/3 del trio, non fare un parallelismo con la Juventus di oggi dove, al netto del carattere meno fumantino, Dybala richiama agli occhi la genialità mancina di Sivori e Higuain, con le dovute differenze, la strapotere fisico di Charles. La differenza al più sta nel terzo tassello della “triade”: tra Mandzukic e Boniperti difficile trovare legami ma forse proprio loro rappresentano l’emblema delle discrepanze tra il calcio romantico di allora e il calcio fisico di oggi.

Dal canto suo, “King John” era un autentico Bulldozer, quasi impossibile da arrestare palla al piede nonostante i calci e gli strattoni. D’altronde, la sua imponenza fisica fece sì che, in gioventù, Charles si cimentasse addirittura nell’attività di pugile, peraltro, con buoni risultati. Salito sul ring per un anno, infatti, il bilancio fu notevole: 10 vittorie in altrettanti incontri. Ottimo ruolino, non c’è che dire, ma la boxe non era lo sport adatto ad un uomo così pacato e gentile e rimase, quindi, una strana e folkloristica parentesi nella vita del gallese.

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Ma non vogliamo concentrarci troppo sulle sue imprese sportive, già note al grande pubblico. Ciò che preme è evidenziare il suo lato umano, la sua indole cordiale ma timida.

Gigante Buono dicevamo. Non sono parole di circostanza perché il centravanti gallese ha spesso dimostrato in campo la sua indole docile e generosa. Giusto per rendere l’idea del personaggio, sono passati alla storia alcuni gesti che, nel calcio di oggi, potremmo definire anacronistici.

Due esempi sui tutti: in uno dei tanti Derby d’Italia tra Juventus ed Inter. John, scattando verso la porta difesa da Matteucci, colpì con una gomitata, involontariamente nel tentativo di divincolarsi, un avversario, ma l’arbitro lasciò correre. La punta avrebbe avuto l’opportunità di andarsene indisturbato, ma si fermò per andare a sincerarsi delle condizioni del collega stramazzato al suolo.

E ancora: Juventus – Sampdoria, l’arbitro Grignani spedì fuori dal campo Sivori (ecco, non proprio il clone dell’ariete britannico) per un bruttissimo intervento. L’argentino si scagliò contro il direttore di gara per farsi giustizia da solo ma Charles, con una facilità disarmante lo afferrò, gli rifilò uno schiaffo e lo allontanò evitandogli una squalifica più pesante di quella che poi gli sarebbe stata inflitta.

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Il declino

Dopo il calo di prestazioni, legato soprattutto ad un intervento al ginocchio, tornò al Leeds, ma solo per qualche mese perché nel 1962 venne ingaggiato dalla Roma.

Ben presto, però, nella Capitale ci si rese conto che la parabola discendente di King John era ormai incontrovertibile e i soli 4 goal in stagione ne furono impietosa conferma nonché viatico per il definitivo ritorno in Gran Bretagna, dove chiuse la carriera in squadre di secondo piano, quali Cardiff City ed Hereford United.

Il declino calcistico, purtroppo, corrispose al declino personale perché, svestiti i panni del bomber, Charles faticò a trovare la propria dimensione di uomo; divorziò dalla moglie, divenne diventò schiavo dell’alcol e, da persona poco loquace quale era, si rinchiuse in casa lontano da amici e parenti.

Addirittura, nel 1988 venne arrestato a causa di debiti e problemi col fisco. Continui problemi di salute lo debilitarono senza pausa, fino alla triste e definitiva dipartita, a soli 72 anni, il 21 febbraio 2004. Nel 2005, per celebrare il proprio 50° anniversario, l’UEFA invitò ogni federazione nazionale affiliata, ad indicare il proprio miglior giocatore dell’ultimo mezzo secolo. La scelta dei gallesi ricadde su Charles, designato quindi Golden Player dalla FAW. Magra consolazione.

Resta comunque il ricordo, vivo in chi l’ha vissuto direttamente e anche in chi l’ha sentito tramandare, di un calciatore formidabile e di un uomo distinto, onesto e semplice, che non verrà dimenticato.

John Charles, centravanti moderno, uomo d’altri tempi.

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Il calcio, si sa, è uno sport magico. Per il calcio si gioisce e ci si dispera, si esulta e si soffre. Basta un gol del proprio beniamino o una parata decisiva del portiere della squadra avversaria perché le emozioni degli appassionati esplodano in un senso o nell’altro, sempre all’estremo, come forse non accade in nessun altra manifestazione sportiva. Ma, a volte, nel calcio accadono tragedie assurde ed incomprensibili, che restano impresse nell’anima dei tifosi come un ospite indesiderato che non ci pensa neanche a togliere il disturbo.

È il caso di questa storia: la storia di un calciatore, un ottimo calciatore, uno di cui avremmo sicuramente sentito parlare parecchio, che avrebbe avuto una carriera di sicuro successo e che, almeno in parte, l’ha avuta, prima che venisse stroncata definitivamente nel modo più assurdo che si possa immaginare. Sì perché la vita – e la carriera – di questo giocatore è terminata a soli 27 anni fuori da una discoteca di Medellin il 2 luglio 1994 spezzata dai colpi esplosi da una mitraglietta. Stiamo parlando di Andrès Escobar, che oggi avrebbe compiuto 50 anni.

UN POTENZIALE CAMPIONE

Andrés Escobar Saldarriaga nasce il 13/03/1967 a Calasanz, quartiere nord-occidentale della città di Medellín, nel cuore della Colombia andina.

Realtà non facile quella in cui Escobar cresce: il narcotraffico fra gli anni 70 e 80 è una realtà radicata con cui convivere e finirci invischiato è più di un rischio per un giovane di quegli anni.
Ma Andrès è diverso, si diploma e persegue quello che è il suo vero sogno: diventare un calciatore professionista. Sin da ragazzino si distingue come ottimo difensore grazie all’eleganza e l’efficacia degli interventi e queste doti gli permettono, appena ventenne, di diventare titolare inamovibile e simbolo della squadra principe della sua città: l’Atletico Nacional di Medellin.
Ma Escobar non è solo un giovane terzino, roccioso ed affidabile. E’ un giocatore ed uomo onesto, che gioca pulito senza eccedere con l’aggressività degli interventi. Ed è questa prerogativa che gli farà guadagnare il soprannome di El Caballero del Futbol (Il cavaliere del calcio).

Le sue prestazioni gli fanno ben presto ricevere le attenzioni del selezionatore della Nazionale colombiana, Francisco Maturana, che già nel 1988 lo convoca in Nazionale, venendo immediatamente ripagato della fiducia con l’unica rete internazionale di Escobar, peraltro in un palcoscenico di lusso: lo stadio di Wembley, dove la Colombia affronta l’Inghilterra in una partita valida per la Stanley Rous Cup.
Anche a livello di club, Escobar si toglie grosse soddisfazioni, con il suo Nacional che è protagonista di una cavalcata trionfale nella Copa Libertadores del 1989 fino alla vittoria ai calci di rigore contro l’Olimpia di Asunción.
Ed è proprio grazie a questa vittoria che il Nacional contenderà la Coppa Intercontinentale all’imbattibile Milan degli olandesi, venendo sconfitto solo grazie ad una perla di Chicco Evani su punizione all’ultimo minuto dei supplementari, dopo una partita ostica e gagliarda. Escobar è il più fiero alfiere di quella squadra e le sue indubbie doti lo portano addirittura, secondo parte della stampa, nel radar dello stesso Milan, salvo poi accasarsi allo Young Boys.
Ma il difensore colombiano probabilmente non digerisce con facilità il freddo clima bernese. Nel giro di pochi mesi, torna nella natia Medellín, consacrandosi definitivamente come eroe dei tifosi. Con la squadra della sua città, dove concluderà la breve carriera, riesce ad aggiudicarsi anche il campionato nazionale nel 1991.
In quegli anni Escobar fa parte della selezione colombiana forse più forte di tutti i tempi, una squadra che annoverava tra le sue fila fenomeni, ingestibili, del calibro di Valderrama, Higuita e Tino Asprilla, e un mix di giocatori di assoluto valore quali “El Tren” Valencia e Leonel Alvarez e giovani di ottima prospettiva quali Harold Lozano, Ivan Valenciano e Faryd Mondragon.
Addirittura, nelle qualificazioni ad USA ‘94, l’undici di Maturana riesce nell’impresa di imporsi per 5-0 a Buenos Aires, rifilando così uno schiaffo storico alla più quotata Selección argentina.

IL DISASTRO DI USA ’94

Ed è anche per questo che c’è grande attesa attorno alla Colombia ai blocchi di partenza di USA ’94. La Colombia sembra essere pronta per un mondiale storico e anche l’urna sforna delle avversarie più che abbordabili per Los Cafeteros: Romania, Svizzera e USA.
Ma l’avversario più ostico per quella Colombia è…la Colombia. I sudamericani sembrano in vacanza, non giocano con convinzione e vengono presi a pallate prima dalla Romania di Raducioiu e Hagi e poi dai padroni di casa, prima di vincere inutilmente con la Svizzera. Tutti a casa.
Ed è proprio contro gli USA che va in scena il dramma di Andrès: al minuto 35 il difensore, nel tentativo di ribattere un cross filtrante, colpisce male in scivolata e deposita il pallone alle spalle di Oscar Cordoba. E’ forse il fotogramma più famoso di quei Mondiali.

Gli esiti della disastrosa campagna a stelle e strisce non tardano ad arrivare: la stampa è furiosa e il rientro in patria di Maturana e soci non è certo leggero. Fin qui tutto normale.
Ma nessuno, nemmeno in quella Colombia fuori controllo ed in costante guerra civile, poteva pensare che una “catastrofe” calcistica potesse tramutarsi in una tragedia umana come quella che fu.

FINE DELLA STORIA

Il 2 luglio 1994, Andrés sta cercando di dimenticare le delusioni sportive e si gode la frizzante serata di Medellìn con la sua ragazza. Una normale serata estiva, almeno così sembra.
Si, perché c’è chi non ha dimenticato l’autogol di una settimana prima, qualcuno che aveva scommesso sul passaggio del turno dei Cafeteros: l’ex guardia giurata Humberto Muñoz Castro che, all’uscita di una discoteca, si avvicina al giocatore ed esplode sei (o dodici secondo alcuni) colpi di mitraglietta verso di lui. Fine della storia.
La fidanzata di Escobar sosterrà in seguito che l’omicida abbia urlato “Goooool!”, come nello stile delle telecronache calcistiche sudamericane. Secondo altri testimoni, il killer urla invece “Grazie per l’autogol!” mentre fa fuoco.
Dopo la tragedia, i compagni di squadra di Escobar, per paura di ulteriori ritorsioni, vengono sottoposti ad un regime di massima sicurezza. Il racconto dell’assurdo.

Ma in questa assurda storia c’è una speranza, una nota lieta. Ed è la consapevolezza che la fama del Caballero ha saputo resistere al tempo e che il suo ricordo è ancora vivo nel cuore dei tifosi colombiani, che ancora oggi intonano cori in onore del loro idolo. Ma questo non è sufficiente per accettare che si possa morire per un autogol.

 

Zona Cesarini. Chi di noi non ha mai sentito o detto queste due parole. Si tratta dell’espressione forse più famosa nel mondo del calcio, due parole che esprimono l’essenza stessa di questo sport, la voglia di crederci fino all’ultimo respiro, di spingere fino al novantesimo e oltre, nella speranza di trovare la zampata giusta per vincere la propria battaglia, perché la speranza è l’ultima a morire e ogni lasciata è persa. D’altronde per dirla con l’indimenticato Vujadin Boskov “La partita finisce quando arbitro fischia”.

Ma forse non tutti sanno chi ringraziare per la creazione di queste parole che sono diventate leggenda indiscussa tra addetti ai lavori e non, tanto da venire inserite nel vocabolario della lingua italiana.

Non si tratta di una star internazionale, un calciatore fenomenale che ha mosso le folle nella sua carriera, ma di un buon giocatore che non si distingueva dalla massa ma che, in varie occasioni nella carriera, è riuscito ad andare oltre l’ostacolo del cronometro, diventando decisivo nel momento più inaspettato, quando ormai stavano calando i titoli di coda.

Chi è Renato Cesarini?

Si perchè Renato Cesarini, detto Cè, nato sulle colline di Senigallia nel 1906, era un calciatore di buone qualità ma non eccelso. All’età di 2 anni era stato riportato in Argentina dai genitori e lì aveva iniziato la sua carriera distinguendosi con la maglia dei Chicharita Juniors e del Ferro Carril prima di essere acquistato dalla Juventus nel 1929, divenendo uno dei pilastri della cosiddetta Juve del Quinquennio che egemonizzò il calcio italiano nella prima metà degli anni 1930.

Bell’attaccante Renato, che vide aprirsi ben presto le porte della nazionale italiana in quella veste di oriundo che tanta fortuna portò ai nostri colori a quell’epoca. Con gli Azzurri disputò però solo qualche amichevole e qualche partita di Coppa Internazionale, per un totale di 9 presenze e 2 reti ma tanto gli bastò per entrare nella storia, nel lessico e, come dicevamo, nel dizionario.

La gloria

Accadde tutto nella fredda Torino del 13 dicembre del 1931 durante, anzi alla fine, della partita di Coppa Internazionale contro l’Ungheria: Cesarini, con l’arbitro già pronto al triplice fischio, segnò una rete all’ultimo respiro portando gli Azzurri alla vittoria per 3-2. Quello che rende speciale questa storia è che questo fu l’unico gol segnato all’ultimo giro di lancette in Nazionale dall’oriundo.

Cesarini si distinse per altre prodezze di questo tipo in serie A contro l’Alessandria nel ‘31, contro la Lazio nel ‘32 e contro il Genoa nel ‘33. Sono bastati 4 gol per salvarlo dall’oblio e consegnarlo all’immortalità. E poco importa che, anche dopo il ritiro dal calcio giocato, Cesarini si sia tolto delle soddisfazioni anche da Direttore Tecnico, arrivando a conseguire con la Juventus nell’annata 1959-1960 il double composto da scudetto e Coppa Italia, il primo nella storia del club piemontese.

Che dire. Proprio oggi ricorre l’anniversario della morte di questo calciatore, morto a Buenos Aires il 24 marzo del 1969, che ebbe una buona carriera, si tolse parecchie soddisfazioni ma mai avrebbe potuto anche solo pensare di diventare una leggenda di questa portata. Non resta che provare rispetto ed ammirazione: è l’unico calciatore ad essere diventato un modo di dire.

 

Ricorre oggi l’ottantesimo compleanno di uno dei più grandi telecronisti calcistici della storia italiana che, con la sua voce calda e familiare, è entrato nei salotti di tutta Italia accompagnando le più forti emozioni legate al calcio italiano fino agli albori degli anni 2000. Buon compleanno Bruno Pizzul.

LA CARRIERA

Nativo di Udine, Pizzul tentò la carriera di calciatore con le maglie di Pro Gorizia, Catania, Ischia e Udinese, senza troppa fortuna, puntando poi sull’istruzione, fino alla laurea in giurisprudenza, e sul lavoro di giornalista, intento che lo portò a partecipare con successo ad un concorso nazionale per radio-telecronisti rivolto ai giovani laureati del Friuli.

Dal 1969 in RAI, Pizzul si è subito distinto per le spiccate doti comunicative e per una voce dal timbro inconfondibile che gli permise di diventare, in breve tempo, una delle voci di punta della televisione pubblica. Nella sua carriera fu voce narrante di grandi imprese sportive ma, purtroppo, anche di gravi fatti di cronaca. Senza dubbio il momento più difficile della sua carriera si ebbe infatti in occasione della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool del 29 maggio 1985, quando si trovò a dover commentare e vivere in prima persona la strage allo Stadio Heysel. Una tragedia immane senza dubbio impossibile da dimenticare.

Innumerevoli le vittorie a livello di squadre di club che Pizzul ebbe il piacere di commentare, a partire da quella del Milan nella Coppa delle Coppe contro il Leeds United il 16 maggio 1973, quando, nella finale di Salonicco, l’11 del “paron” Rocco ebbe la meglio sui Peacocks grazie ad una rete di Chiarugi. Indimenticabile la sua telecronaca nella mitica finale di Atene nella Champions League ‘93/’94 quando il Milan di Capello surclassò il Barcellona di Cruyff con un perentorio 4-0 grazie a Massaro (2), Savicevic e Desailly.

LA NAZIONALE

Lo stesso purtroppo non si può dire per la Nazionale: Bruno Pizzul fu infatti voce ufficiale delle gare dell’Italia dal 1986 al 2002, “partecipando” a ben 5 Mondiali (Messico ’86, Italia ’90, Usa ’94, Francia ’98, Giappone – Corea 2002) e diventando di diritto un’icona della Nazionale. Un’icona ma non di certo un amuleto. Attivo subito dopo la gloriosa spedizione al Mundial ’82 e dimissionario subito prima dell’impresa di Berlino nel 2006. A pensarci bene, sembra uno scherzo.

Nella splendida cavalcata ad Usa ’94, Pizzul accompagnò i sentimenti degli italiani incollati al televisore, dalla gioia inaspettata nella vittoria soffertissima con la Nigeria, grazie alle magie di Baggio,all’esaltazione derivata dalle vittorie su Spagna e Bulgaria fino al grido strozzato dei sogni infranti con quel rigore alle stelle dello stesso Divin Codino.

Altrettanto amara la spedizione europea del 2000 dove gli Azzurri, in finale contro la Francia di Zidane, dopo il meritato vantaggio di Delvecchio, dovettero sottostare prima alla dura legge della Zona Cesarini, con il gol di Wiltord all’ultimo respiro, poi alla tirannica regola del Golden Gol, con la rete di Trezeguet a spezzare ogni nostra velleità e a consegnare la coppa agli odiati cugini d’oltralpe.

Ma poco importa. Bruno Pizzul si è guadagnato un posto sicuro nel cuore di tutti gli sportivi, appassionati di calcio e non, grazie alle sue telecronache competenti e mai banali e la sua voce coinvolgente e rassicurante. Non resta che augurargli Buon Compleanno sperando, magari, di poterlo risentire in onda in vista dei suoi 80 anni.

Questa è una storia che ha dell’incredibile. Riguarda un buon difensore, roccioso e serio professionista che si avviava verso una buona carriera in serie A in squadre di fascia medio bassa, una carriera probabilmente senza acuti ma sicuramente da onesto mestierante del pallone.

Almeno finché non è passato un treno diretto con destinazione Principato di Monaco. E i treni bisogna saperli prendere. Andrea Raggi su quel treno ci ha costruito la sua fortuna, diventando l’ennesimo talento incompreso del nostro calcio.

GLI ALBORI DELLA CARRIERA

Andrea Raggi nasce ad Arsina, paesino abbarbicato sulle pendici della Val di Vara, in provincia di La Spezia e cresce calcisticamente nell’Empoli dove esordisce in Serie B nel 2004/2005, dopo la prima convincente annata da professionista alla Carrarese nell’allora serie C2, con l’etichetta di giovane difensore solido e di sicuro avvenire.
E la prova del campo conferma quanto di buono si dice di lui sulla carta stampata. Raggi ottiene infatti subito la promozione nella massima serie, diventando ben presto colonna portante della difesa empolese.
Al Castellani rimane per altre tre stagioni in Serie A, sempre da titolare, contribuendo a tre salvezze consecutive con due picchi di assoluto valore come l’8° posto del 2005/2006 e il 7° del 2006/2007 condito dai quarti di finale di Coppa Italia.
Alla fine della stagione 2007/2008 passa al Palermo di Zamparini per ben 7 milioni di euro quale fulcro indiscusso della difesa studiata da Colantuono ma, dopo la prima da titolare, subisce gli effetti della ben nota ira del presidente e, con l’esonero del mister romano e l’arrivo di Ballardini, viene declassato a riserva.
Da lì inizia un continuo peregrinare che lo porta prima a Genova, sponda Samp, poi a Bologna e, con biglietto di andata e ritorno, a Bari, prima di giocare da titolare la stagione 2011/2012 nella squadra emiliana. Al termine della stagione, però, rimane svincolato, perché il Bologna non esercita l’opzione per il suo acquisto.

LA SVOLTA

La fine dei suoi sogni di gloria? Tutto il contrario. E’ l’inizio della seconda carriera di Raggi, una seconda giovinezza che lo porterà a raggiungere vette che, scommettiamo, nemmeno nei suoi sogni più inconfessabili avrebbe immaginato di raggiungere.
Si, perché nel momento più difficile della sua carriera di calciatore, quello della perdita delle certezze, dell’insinuarsi dei dubbi sulle proprie qualità, arrivò una telefonata. Una benedetta telefonata.
Dall’altro lato della cornetta Claudio Ranieri che voleva fortemente il difensore spezzino nella sua nuova esperienza straniera con lo scopo di riportare il Monaco, precipitato in Ligue 2, agli antichi fasti.

Il Monaco è un club prestigioso con una grande storia. Lo ritengo una grande squadra, anche se gioca in Ligue 2. Ha ambizioni importantissime con un grande progetto: non potevo rifiutare

Così si presentò Raggi ai microfoni della tv ufficiale del Monaco, subito dopo il suo arrivo a Montecarlo.

E fu subito gloria. Il Monaco vince la Ligue 2 e torna nella serie che gli compete e Raggi con 35 presenze e ben 4 reti diventa subito l’idolo dei tifosi.
Da lì in poi la crescita di Raggi non conosce soste. Il Monaco, neopromosso, torna subito nelle posizioni di vetta e nei successivi tre campionati colleziona un secondo (2013/2014) e due terzi posti (2014/2015 e 2015/2016). La società investe cifre importanti, gli obiettivi sono sempre più ambiziosi, i giocatori vanno e vengono ma ce n’è uno che non si muove di un centimetro: Andrea Raggi rimane ben saldo al suo posto a difesa della porta monegasca, dimostrando di poter reggere palcoscenici da brividi come quello della Champions League e tenendo alta la fama del Made in Italy.

E si arriva così ai giorni nostri, a una stagione che ha consacrato il Monaco come protagonista assoluto della Champions League grazie all’impresa contro il City dove l’11 di Jardim ha annichilito Aguero e compagni nel doppio confronto, in un modo assai più netto di quanto il risultato finale abbia dimostrato, segnando forse la fine del guardiolismo.
E Raggi? Raggi è stato assoluto protagonista, togliendo spazio d’azione ad un fenomeno come Aguero nel match decisivo del Parco dei Principi, con una marcatura d’altri tempi, asfissiante, degna della vecchia scuola italiana di mostri sacri come Gentile e Burgnich.
Ed ora sotto con la sfida al Borussia Dortmund nei quarti, dove i monegaschi, pur sfavoriti, partono tutt’altro che battuti.

Vengono alla mente ricordi lontani, ma non remoti, istantanee di quel Monaco che nel 2003/2004 sfiorò una storica vittoria nella massima competizione europea per club venendo sconfitto ad un respiro dal traguardo da un’altra assoluta sorpresa: quel Porto che avrebbe dato inizio all’era dorata dello Special One, Josè Mourinho.
Pensare che questo Monaco possa riuscire a ripetere quell’impresa non è poi così assurdo. Magari nella magnifica cornice del National Stadium of Wales di Cardiff potrebbero trovarsi di fronte la Juventus. E sarebbe la ciliegina sulla torta per Andrea Raggi, un calciatore che in Italia non aveva futuro ma che ha fatto jackpot nel Principato.

Michele De Martin