La Guerra del Fútbol tra El Salvador e Honduras spostò il conflitto tra le due nazioni su un campo da calcio. Le parole di Gilberto Yearwood, ripercorrono quei momenti e le gesta dell’Honduras ai Mondiali del 1982, in uno spezzone tratto dal libro “Cenerentola ai Mondiali“ di Matteo Bruschetta
«Tra vicini di casa, capita spesso di litigare. Honduras, il paese in cui sono nato, ed El Salvador non si sono mai troppo amati e l’apice della violenza si raggiunse alla fine degli anni Sessanta, in quella che il giornalista polacco Ryszard Kapuściński definì in un libro “La Guerra del Fútbol”. Nonostante sia durato quattro giorni, dal 14 al 18 luglio 1969, è stato uno dei conflitti più sanguinosi della seconda metà del Novecento, con quasi seimila morti e oltre quindicimila feriti.
Tutto ebbe inizio nel 1960 quando gli USA, che avevano grande influenza in America Centrale, promossero la nascita del Mercado Común Centroamericano, un’area di libero scambio tra Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Honduras ed El Salvador. Ciò permetteva alle multinazionali USA di coltivare grandi piantagioni, soprattutto di banane, e avere manodopera a basso costo. Anche i cinque stati centramericani trassero dei benefici, per uscire dalla cronica arretratezza della loro agricoltura. Honduras era il paese tecnologicamente meno evoluto, El Salvador il più sviluppato e di conseguenza qui gli investimenti furono maggiori, permettendo una crescita economica e demografica.
El Salvador divenne presto lo stato più popoloso dell’America Centrale, dopo il Messico. Un aumento sproporzionato per un paese così piccolo, che si trovò ad avere problemi di disoccupazione. Temendo una rivolta contadina, il governo salvadoregno decise di chiedere aiuto all’Honduras, dove le condizioni erano opposte: arretratezza agricola e tanti chilometri quadrati di terre incolte. Nel 1967 i due Stati firmarono una convenzione bilaterale sull’immigrazione. Oltre 300.000 campesiños salvadoregni varcarono il confine e avviarono la coltivazione delle terre inutilizzate.
Il massiccio esodo non fu, però, ben accolto dagli agricoltori honduregni, già scesi in piazza per protesta. In Honduras la dittatura di Oswaldo López Arellano era appoggiata da USA e latifondisti, quindi non si potevano redistribuire le terre in mano a multinazionali e grandi proprietari terrieri. La via più semplice era confiscare la terra agli immigrati, in barba agli impegni presi. Nell’aprile 1969, un provvedimento del Ministero dell’Agricoltura honduregno decretava la confisca delle terre e l’espulsione di 300.000 campesiños salvadoregni. Era un grave illecito internazionale e le relazioni diplomatiche tra i due Stati si fecero tesissime.
In questo clima di tensione, Honduras ed El Salvador dovevano affrontarsi per le qualificazioni ai Mondiali di Messico 1970. La gara d’andata era in programma l’8 giugno 1969 a Tegucigalpa. Non fu semplice per El Salvador venire a giocare da noi. La notte della vigilia, centinaia di persone si radunarono sotto il loro albergo per impedir loro di dormire e il giorno dopo, mentre andavano allo stadio, sgonfiarono le ruote del loro pullman. La partita la vinse Honduras 1-0, con un gol all’ultimo minuto. A El Salvador la sconfitta non fu presa bene, una 18enne di nome Amelia Bolanos, figlia di un generale dell’esercito, si sparò un colpo di pistola al cuore, tanta era la delusione.
Lo stesso clima d’intimidazione, se non peggiore, ci fu nella partita di ritorno del 15 giugno a San Salvador. I tifosi di casa presero di mira l’Hotel Intercontinental, dove riposavano i nostri giocatori, con lancio di sassi, stracci puzzolenti, topi morti, uova marce e bombe artigianali, tanto da costringerli a rifugiarsi sul tetto. Il giorno dopo, la nostra nazionale fu accompagnata allo stadio a bordo di carri armati dell’esercito. Sul campo non ci fu storia: finì 3-0 per i salvadoregni. Tre gol e tre morti: due tifosi honduregni e l’accompagnatore della nazionale di Honduras, un ragazzo salvadoregno, ucciso a sassate dalla folla, non appena lasciò l’hotel.
Al tempo, non c’era la regola dei gol in trasferta e fu necessario un ulteriore spareggio in campo neutro, il 27 giugno all’Azteca di Città del Messico. El Salvador vinse 3-2 ai supplementari e, al termine della partita, ci furono scontri tra tifosi honduregni e salvadoregni nelle strade adiacenti all’Azteca. La sera stessa, il governo di Honduras ruppe le relazioni diplomatiche con El Salvador, la guerra era ormai alle porte e iniziò tre settimane dopo.La “Guerra del Fútbol” la ricordo bene, così come la sconfitta contro El Salvador. Fu la prima delusione calcistica della mia vita. Avevo tredici anni e frequentavo la scuola “La Salle”, a San Pedro Sula, la città in cui sono nato e cresciuto. Giocavo scalzo per strada, nel barrio Suyapa, quando il signor Nicolás Chaín mi vide e mi raccomandò al Real España, allenato da José de la Paz Herrera, conosciuto da tutti come Chelato Uclés. Fu lui che mi lanciò titolare in prima squadra a diciassette anni. Non potete immaginare la soddisfazione di vedere scritto sui giornali il mio nome: Gilberto Yearwood. Per la mia forza bruta ben presto mi soprannominarono “el Vikingo”, anche se i miei antenati erano africani. Giocavo al centro della difesa di una squadra che in tre anni vinse due campionati nazionali. Chelato Uclés non guardava la carta d’identità dei giocatori, il portiere titolare era un altro ragazzino, due anni più piccolo di me: Julio César Arzú.
Nel 1977 siamo stati entrambi convocati in nazionale giovanile, per la prima edizione del Mondiali Under-20 in Tunisia. Eravamo un equipazo: io, “Tile” Arzú, Héctor “Pecho de Aguila” Zelaya, Ramón “Primitiva” Maradiaga, Anthony “Cochero” Costly, Prudencio “Tecate” Norales, Armando “el Cañón” Betancourt, che aveva segnato undici gol nel girone di qualificazione disputato a Porto Rico. Tutti ragazzi che avrebbero fatto la storia del calcio honduregno.