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Calcio Romantico

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In Copa América sono indiscusse padrone da sette anni e si sono divise i sei titoli in palio: 1923, 1924 e 1926 Uruguay, 1925, 1927 e 1929 Argentina. Ma se varchiamo i confini sudamericani unica padrona rimane la squadra uruguayana che conta già due ori olimpici. 
A Parigi nel 1924
 la celeste, che già annovera tra le sue fila il capitano Nasazzi, la maravilla negra Andrade e un trio di giocatori offensivi del calibro di Scarone, Cea e Petrone, passa indenne tutti i turni eliminatori, soffre solo in semifinale con l’Olanda (2-1) e poi travolge la Svizzera 3-0. I cugini argentini a Parigi non ci sono, ad Amsterdam quattro anni dopo sì.
La differenza è che la vittoria uruguayana arriva con maggiore sofferenza: 3-2 in semifinale all’Italia di Pozzo, 1-1 dopo i gol di Petrone e Ferreira in finale con gli argentini e 2-1 nel replay con gol vincente di Scarone al 73′.

Poca sorpresa quindi se a giocarsi in finale la prima Coppa Jules Rimet a Montevideo il 30 luglio 1930 sono gli uruguayani, padroni di casa, e i loro eterni rivali argentini. Poca sorpresa anche perché molte nazionali europee non hanno voluto attraversare l’Oceano e il Brasile dal fútbol troppo bailado si è fatto eliminare dalla Jugoslavia, poi travolta 6-1 in semifinale dalla celeste.

La tensione è dunque tutta in coda per il rinnovarsi della sfida che ha deciso l’Olimpiade di Amsterdam. A molti argentini basta attraversare il Rio de la Plata e così allo stadio Centenario c’è più che il tutto esaurito. La tensione attanaglia i giocatori, tanto che Anselmo, che ha soffiato il posto in squadra a Petrone, non se la sente di scendere in campo. Capitan Nasazzi, non batte ciglio e affida la maglia di Anselmo a Hector Castro.
La tensione coinvolge anche la FIFA e l’arbitro belga Langenus, che è alle prese con una strana gatta da pelare. La questione è semplice e fa un po’ sorridere: argentini e uruguayani vogliono giocare con due palloni diversi, cuoio più leggero versus cuoio più pesante. Evidentemente insieme con gli spettatori anche un po’ di palloni argentini hanno attraversato il Rio de la Plata.

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Dopo gol segnati “di piloro, di pomo d’Adamo, di polpaccio, di capelli e di chiappa” Totò Schillaci ha sbagliato nella finalina contro l’Inghilterra “un gol a quindici centimetri della porta perché la palla gli è arrivata sulla parte sbagliata del corpo: il piede”. Cuore Mundial ci scherza su la prima mattina in cui non potrà seguire una notte magica, ma sembra interpretare un pensiero diffuso. Adesso che tutto è finito, adesso che non devono più fare appello a quegli occhi spiritati per veder andare avanti la maglia azzurra, i tifosi italiani, da Milano a Bari, da Venezia a Genova possono finalmente chiedersi come sia stato possibile che quella “pippa”, quel venticinquenne che è in A solo da un anno, quel “terrone” di Schillaci sia diventato capocannoniere al Mondiale?
Solo in Sicilia questo dubbio non sfiorerà mai nessuno, neanche nelle stagioni successive, in cui Re Totò non riuscirà a ripetere quanto fatto nel 1990. Ma attenzione, perché quell’anno solare contiene in piccolo tutta la parabola descritta dalla carriera dell’attaccante nativo di Palermo, e non solo il suo apice.

Totò Schillaci, che l’anno prima è stato capocannoniere della Serie B con la maglia del Messina, è stato acquistato dalla Juventus per volere di Boniperti ed è subito diventato un titolare inamovibile. Non è dotato di classe sopraffina, ma è tenace, guizzante e ha fiuto del gol. O, se non altro, gli va spesso bene. Il primo acuto dell’anno solare 1990 è datato 14 gennaio. Contro la pericolante Hellas Verona la Juventus soffre, ma vince in rimonta proprio grazie a un gol di Schillaci a pochi minuti dal termine. La squadra di Zoff diverte e, anche se in campionato si prende troppe pause che non le consentono di lottare per lo scudetto, si porta a casa Coppa Italia e  Coppa Uefa, primi trofei da quando Trapattoni è andato via.

Totò, dal canto suo, convince Vicini a farlo debuttare in nazionale a Basilea, nell’ultima amichevole ufficiale prima di Italia 90. Il buon Azeglio crede che l’entusiasmo del piccolo siciliano possa giovare alla sua Italia e lo aggrega al gruppo dei ventidue scelti per la fase finale del Mondiale. Però, una brutta prestazione contro la Grecia a Perugia, in un incontro che è poco più che un allenamento, convince il ct a riservare all’attaccante della Juventus un posto in panchina (che non è poco visto che tal Roberto Mancini sarà spedito in tribuna). I fischi che piovono per lui dagli spalti del Curi non rappresentano niente di particolarmente odioso per uno che tutti i giorni a Torino si sente chiamare “terrone”. E per fortuna non lasciano traccia.

Capita, infatti, che il 9 giugno, il giorno dell’esordio contro l’Austria, l’Italia giochi bene, ma non riesca a sfondare. Vicini prova, allora, a pescare il jolly e al 75′ manda Schillaci in campo al posto di un comunque positivo Andrea Carnevale. Tacconi, altro juventino conscio di doversi fare tanta panchina durante il Mondiale, prova a riciclarsi aruspice e predice un gol del suo compagno di club. Fatto sta che dopo appena quattro minuti Vialli s’invola sulla destra, crossa e la testa di Totò manda la palla in gol. Vittoria, tutti per le strade, ovazioni per il primo siciliano decisivo in maglia azzurra dopo Anastasi e la certezza di avere in panchina una mascotte che potrebbe anche segnare.
La svolta, però, arriva al 51′ di Italia-Stati Uniti, secondo match degli azzurri.

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Col Brasile già qualificato, la sera dell’otto luglio 1998 lo Stade de France ospita l’incontro che designerà l’altra finalista. L’inattesa e larga vittoria ottenuta dalla Croazia di Miro Blažević ai danni della Germania nei quarti ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai tifosi di casa. Non è solo una questione di esperienza che fa preferire i biancorossi come avversari: la Francia ha infatti perso nelle due occasioni in cui nel penultimo atto di una rassegna iridata ha incrociato i tedeschi, o per meglio dire la Germania Ovest.

Il primo tempo sembra rispecchiare perfettamente il copione della partita non giocata ad alti ritmi, equilibrata, ancora sullo 0-0 ma inesorabilmente destinata a veder vincere i favoriti. Guivarc’h, la punta di ruolo dei galletti padroni di casa, non è riuscito a incidere in nessuno dei match precedenti e in semifinale il trend non sembra essere mutato. Così le occasioni più pericolose passano da piedi e testa di Zinedine Zidane, anche se il portiere croato Ladić non è certo costretto agli straordinari.
A inizio ripresa, però, la musica cambia perché, a differenza dei loro avversari, i croati hanno davanti uno di quegli attaccanti in grado di trasformare in oro le poche occasioni a disposizione: Davor Šuker.

Un lancio di Asanović trova il giocatore allora in forza al Real Madrid libero davanti a Barthez, il gol è una formalità. Tra l’incredulità dei presenti è successo che la quasi impenetrabile difesa francese -un solo gol subito fino a quel momento, per di più nell’ininfluente match contro la Danimarca- ha chiamato fuorigioco, ma Lilian Thuram è rimasto attardato. L’errore commesso di certo non può andare giù a uno che non a torto è considerato uno dei più forti difensori del mondo per l’eleganza dei movimenti, il senso del piazzamento e la decisione con cui anticipa gli avversari senza tuttavia risultare falloso.

Il modo con cui Thuram rimedierà a questa sua defaillance è, però, semplicemente inatteso, degno di un vero campione, di uno con una personalità fuori dal comune.

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Battere un rigore a tempo scaduto quando il risultato è ancora in bilico, è una di quelle responsabilità che solo i giocatori di personalità sanno assumersi. Ma se quel rigore vale un’intera stagione o il sogno di una vita, allora anche le gambe dei giocatori più esperti tremano, la loro vista vacilla, la loro mente prova a pensare ad altro. E le cose non vanno come devono andare.

Pensiamo a quanto accade allo stadio Riazor di La Coruña il 14 maggio 1994 nell’ultima giornata della Liga. Il Deportivo è ancora sullo 0-0 contro il Valencia, mentre il Barcellona dopo enormi sofferenze è avanti 5-2 contro il Siviglia: questo vorrebbe dire arrivo a pari punti e scudetto ai catalani per miglior differenza reti, nonostante il Superdepor sia in testa dalla 14° giornata.
Al minuto 89 il biancoblù Nando è messo giù da Serer e l’arbitro Lopez Nieto assegna l’indiscutibile penalty: il primo scudetto della storia dei galiziani è distante undici metri. Donato, il rigorista, è uscito, Bebeto non se la sente di tirare e allora sul dischetto si presenta il difensore Miroslav Ðukić che si sente in dover di prender la squadra per mano. Con i rigori, però, il serbo non ha molta familiarità e il suo tiro centrale e fiacco finisce nelle mani del portiere González che neanche volendo potrebbe mancare la presa. La Liga va ancora in Catalogna nell’incredulo silenzio del Riazor.

Un sogno che non si concretizza, come quello del Ghana ai Mondiali sudafricani, anche se in questo caso il sogno è molto più grande e sul dischetto ci va l’uomo giusto.

Quarti di finale tra Ghana e Uruguay. I 90′ regolamentari si sono chiusi sull’1-1 con un gol per tempo (Muntari e Forlan). Tutti si aspettano supplementari dominati dalla paura e in parte hanno ragione, solo che la squadra africana, forte di una maggiore freschezza atletica, nel finale pigia sull’acceleratore e sfiora il vantaggio. Al 120′ l’ultima occasione: sugli sviluppi di una punizione, a Muslera battuto, Suarez prima si oppone di piede a un tiro di Appiah da pochi passi, poi in tuffo para un colpo di testa di Adiyah. Rigore netto e Suarez espulso.

Sul dischetto va Asamoah Gyan, che ha già segnato il rigore vincente con la Serbia e il gol del 2-1 ai supplementari contro gli USA. Solo che la palla invece di finire in rete scheggia la traversa e vola fuori. L’arbitro fischia la fine e si va ai tiri dal dischetto: Gyan stavolta segna, ma la strada è ormai segnata perché Mensah e Adiyah sbagliano. El loco Abreu con un cucchiaio segna per gli uruguayani il rigore del 4-2 e l’Africa è ancora una volta fuori dalle semifinali.

E se invece come un sogno che sfugge di nuovo, la mancata vittoria fosse accolta dai tifosi come un dovere non compiuto? Beh, le conseguenze sarebbero imprevedibili come sa il buon Pierre Wome.

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Lo stadio pieno, le televisioni di tutto il mondo collegate, un po’ di coreografie con fiori, coriandoli, colombe e gente che indossa i costumi tipici, una bella cantata, il richiamo al fairplay e poi il fischio di inizio che dà il via alla competizione. Il rito della partita inaugurale, così come lo pensiamo oggi, è stato introdotto nel 1966 ed è cresciuto via via che la spettacolarizzazione dell’evento Mondiale è divenuta una cosa non secondaria.

Riservata all’esordio della squadra di casa o a quello della squadra campione in carica, il match che ha segnato l’avvio della Coppa del Mondo dall’edizione inglese in poi è stato spesso fonte di risultati inattesi. Vandenbergh, Omam Biyik e Bouba Diop sono stati i protagonisti di tre sconfitte subite dai detentori del titolo. Se, però, lo sgambetto del Belgio vicecampione d’Europa ai danni dell’Argentina di Maradona nel 1982 ci poteva anche stare, ben diverso fu l’impatto della vittoria del Camerun nuovamente sull’Argentina a Italia ’90 e del successo del Senegal sui francesi nel 2002.
Sono, infatti, bene impresse nella mente le immagini dei leoni indomabili, in dieci per quasi tutta la ripresa per l’espulsione di Kana Biyik e in nove negli ultimi minuti per il rosso a Massing, e nonostante tutto vincenti grazie al volo in cielo di Omam Biyik e all’indecisione di Pumpido. E sono altrettanto vividi i ricordi di Diouf che fa impazzire la difesa transalpina e di Bouba Diop che con un tap in regala all’esordiente Senegal la vittoria.

Ad analizzar più a fondo i risultati, si scopre che le prime quattro partite inaugurali finirono 0-0: Inghilterra-Uruguay nel 1966, Messico-URSS nel 1970, Brasile-Jugoslavia nel 1974, Germania Ovest-Polonia nel 1978. E visto che anche l’Italia nel 1986 non riuscì a vincere contro la Bulgaria, 1-1 con reti di Altobelli e pareggio di Nasko Sirakov a pochi minuti dal termine, bisogna attendere il 1994 per vedere finalmente la squadra detentrice del titolo vincere il match inaugurale. In quell’occasione fu la Germania a uscire vittoriosa: 1-0 sulla Bolivia rimasta in dieci per l’espulsione affrettata di Etcheverry comminata dal fiscale Brizio Carter (il nome vi dice qualcosa?). Il gol di Klinsmann fu però oscurato dal gesto tecnico che regalò in mondovisione Diana Ross, fuor di dubbio la vetta più alta raggiunta in una cerimonia inaugurale.

I tedeschi vinsero anche il match di apertura del 2006, stavolta in qualità di paese ospitante (4-2 al Costarica di Wanchope il risultato finale). Due successi nella partita inaugurale li possono vantare anche i brasiliani e curiosamente anche per loro ce ne fu uno da campioni in carica, 2-1 sulla Scozia nel 1998, e uno da padroni di casa, 3-1 alla Croazia -con aiuto arbitrale– nel 2014. A Johannesburg, l’11 giugno del 2010, infine, fu registrato il sesto pareggio nella storia dei match di apertura della Coppa del Mondo; Tshabalala portò in vantaggio i sudafricani, poi Rafa Marquez pareggiò per il Messico, strozzando in gola l’urlo dei tifosi di casa.

In chiusura non possiamo, però, dimenticare che senza colombe, fiori, balli e quasi senza spettatori, agli ordini dell’uruguayano Lombardi, lo stesso Messico e la Francia si ritrovarono di fronte sul campo di Pocitos, a Montevideo, il 13 luglio 1930, in uno stadio che sarebbe stato demolito da lì a poco.
In contemporanea al Gran Parque Central era in programma Stati Uniti-Belgio. Lo stadio del Centenario non era ancora pronto e così gli organizzatori avevano deciso di far disputare le prime partite sui terreni di gioco allora usati da Peñarol e Nacional e, in attesa dello stadio giusto, di non far scendere in campo i padroni di casa.
Così l’onore della prima rete della storia dei Mondiali -anzi, della Coppa Rimet- toccò a un francese, con qualche minuto di anticipo sullo statunitense Bart McGhee. A Pocitos les bleus vinsero agevolmente 4-1 e fu Lucien Laurent al 19′ a portare i suoi in vantaggio. Quasi un segno del destino. Perché di quella Francia, che non sarebbe riuscita a passare il turno, solo Laurent sarebbe vissuto tanto a lungo da assistere al trionfo mondiale del 1998.

 

Negli Stati Uniti a giugno fa così caldo ed è così umido che i giocatori dell’Arabia Saudita si sentono a loro agio, molto più dei colleghi delle altre squadre. Poi nella rosa dei ventidue che agli ordini dell’argentino Jorge Solari sbarcano in terra americana c’è anche il Pelé del deserto, al secolo Majed Ahmed Abdullah Al-Mohammed, l’attaccante ormai trentaquattrenne che ha guidato l’Arabia Saudita alle vittorie in Coppa d’Asia nel 1984 e nel 1988 e alla storica qualificazione ai campionati del mondo.
Tutte le premesse per far bene ci sono. Infatti, all’esordio l’impresa al cospetto dell’Olanda svanisce per un soffio: sauditi in vantaggio con un colpo di testa di Amin, raddoppio sfiorato proprio dal Pelé arabo, pareggio di Jonk con un gran tiro da fuori e, quando tutto sembra ormai incanalato verso il pareggio, un errore di Al-Deayea spiana la strada all’appena entrato Taument. La vittoria non tarda ad arrivare nel secondo match contro il Marocco, ma è il centrocampista tuttofare Amin con un velenoso tiro dalla distanza (e non Majed) a regalarla. Per l’ultimo match si attende il Belgio già qualificato. La partita è in programma il 29 giugno al Robert F. Kennedy Memorial Stadium di Washington, alle 12 e 30 ore locali sotto un caldo asfissiante (43 gradi!).
Un pareggio promuoverebbe gli esordienti arabi agli ottavi e sarebbe già un risultato insperato. Ma evidentemente la convinzione nei propri mezzi fa così brutti scherzi che la nazionale in bianco e verde quella partita addirittura la va a vincere. E in che modo!

Quinto minuto e Diego Armando Maradona prende le sembianze di Saeed Al-Owairan…

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Non ci sono particolari ragioni per cui chi non abbia visto URSS-Colombia del 1962 se ne debba crucciare. Ma, in fondo, non ci sono motivi neanche motivi per cui chi si sia imbattuto nella sintesi o nei semplici highlights di quell’incontro non ne voglia rinverdire un po’ la memoria. Del resto, le fasi finali della Coppa del mondo offrono a volte match dagli abbinamenti un po’ esotici che regalano inaspettatamente gol, errori ed emozioni e questo fu il destino della sfida tra sovietici e Cafeteros andata in scena nella città cilena di Arica il 3 giugno 1962.

Siamo alla seconda partita della fase a gironi. La Colombia, all’esordio in una fase finale, ha perso 2-1 contro l’Uruguay il primo incontro, l’URSS –campione d’Europa in carica- ha sconfitto 2-0 la Jugoslavia nella riedizione dell’atto conclusivo di Euro 1960. Questo fa dei sovietici i favoriti per uno dei due pass che valgono l’accesso ai quarti e come tali essi si comportano in avvio del match.
Al 14′, infatti, il risultato dice 3-0 grazie a una bordata di sinistro dal limite di Ivanov, non trattenuta dal portiere colombiano Sanchez, al raddoppio ottenuto da una proiezione di Čislenko in area avversaria e a un’altra rete di Ivanov, stavolta con un tiro in diagonale di destro. I sudamericani si risvegliano e al 20′ un bel passaggio filtrante di Serrano trova libero Aceros in area, tiro sotto la traversa e il grande Jašin è battuto. Per festeggiare un colombiano ribatte la palla in porta e buca la rete, evento tutt’altro che raro in quella Coppa del mondo…

Ad ogni modo fin qui tutto normale; anzi, le cose diventano ancor più normali quando al 6′ della ripresa una bello scambio Voronin-Ponedelnik manda quest’ultimo a tu per tu con Sanchez e il 4-1 è cosa fatta.

Abbiamo già capito dall’incipit che la Colombia rimonterà, ma la cosa davvero incredibile è che il tutto inizia grazie a un errore gigantesco del giocatore sovietico più rappresentativo: la palla su un corner di Marcos Coll, effettato, ma decisamente lento, entra rimbalzando in rete senza che Jašin neanche provi a piegarsi per raccoglierla. In Spagna lo chiamano “gol olímpico”, in Portogallo “cantinho”, fatto sta che a tutt’oggi quello di Coll è l’unico gol realizzato direttamente su angolo in una fase finale di un Mondiale.
Dieci minuti dopo, al 77′, siamo già 4-4 per i gol di Rada e Klinger (e anche in questo caso c’è da sottolineare l’uscita a vanvera del portiere sovietico), il risultato non cambierà più, ma, a dire il vero, l’inatteso pareggio non cambierà di molto il destino delle due formazioni: i Cafeteros verranno travolti 5-0 dalla Jugoslavia e usciranno subito, i sovietici batteranno l’Uruguay, ma si fermeranno nei quarti davanti al Cile padrone di casa.

 Il gol da angolo al minuto 6:07

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Salvi non si sa come, nonostante con l’auto siano finiti in un burrone nel tentativo di sfuggire alla polizia, il sequestratore Aldo e i sequestrati Giovanni e Giacomo si ricordano che Italia e Norvegia stanno per giocarsi in una partita secca l’accesso ai quarti di finale del Mondiale. Sono in un bosco, lontani da tutto, ma Giacomo ha l’orologio dei Ringo Boys con radio annessa, vera manna in tempi in cui i cellulari servivano al massimo per telefonare, e così i tre possono godersi la radiocronaca di Bruno Gentili.
Per generare un crescendo emotivo la parata strepitosa con cui Pagliuca salva il risultato al 73′ è raccontata prima dell’occasione che fallisce Del Piero in contropiede a inizio ripresa e solo all’ultimo sentiamo la voce del cronista narrare il gol vincente di Vieri, segnato in realtà al 18′. Comunque sia, al fischio finale rapiti e rapitore festeggiano e da lì in poi si scopriranno amici e complici… oltre che già deceduti.

Riassumere quell’ottavo di finale in modo più prolisso rispetto a quanto proposto nel film Così è la vita non ha senso, visto che al caldo sole pomeridiano di Marsiglia il 27 giugno 1998 non accade molto altro e visto che la vittoria non sarà per la squadra di Cesare Maldini il preludio di una cavalcata epica, ma solo l’anello di congiunzione tra le partite del girone e l’inevitabile scontro con i padroni di casa che ne sancirà l’eliminazione.
Tuttavia, se non Italia-Norvegia, almeno i giorni immediatamente precedenti meriterebbero un posto in una personale storia del giornalismo sportivo (e non solo) al capitolo “Come creare ad arte uno spauracchio”.

Il 23 giugno, a Lione, in un incontro valido per il Gruppo A succede, infatti, una cosa impensabile per la fase finale di un Mondiale: realizzando due gol negli ultimi otto minuti la Norvegia si impone 2-1 sul Brasile. Mattatore dell’incontro il lungagnone del Chelsea Tore Andre Flo, che prima realizza il pareggio con un preciso diagonale e poi si procura il rigore del sorpasso ingigantendo la veniale trattenuta che gli fa Junior Baiano.
La cosa bella è che Flo anche a Oslo il 30 maggio 1997 ha segnato al Brasile una doppietta in una partita vinta dagli scandinavi 4-2, guadagnando in quella occasione il soprannome “Flonaldo”. Evidente il riferimento al Fenomeno, al secolo Ronaldo Luis Nazario da Lima, che a Oslo -come del resto a Lione- non ha lasciato il segno.

“Flonaldo” castigatore seriale del Brasile, dunque? “Flonaldo” punta pericolosissima in grado di far fuori l’Italia da solo? In realtà, qualche semplice osservazione dovrebbe spingere gli addetti ai lavori a sospendere il giudizio, magari in attesa di altre prove. Quella di Oslo era, infatti, un’amichevole e poi, come ha dichiarato alla Gazzetta il ct Zagalo, «Eravamo stanchi dopo il viaggio, ma loro [i giocatori del Brasile] avevano gli occhi spalancati mentre guardavano i film di sesso in tv nelle loro camere d’albergo».

A Lione, invece, è stata questione di motivazioni. Tra i verde-oro, sicuri del passaggio del turno e primo posto nel girone, il solo Denilson ha fatto di tutto per mettersi in mostra perché scontento del minutaggio riservatogli da Zagalo nei primi due incontri. Non a caso il gol del vantaggio brasiliano firmato Bebeto è nato da un’accelerazione del fantasista in procinto di passare dal San Paolo al Betis Siviglia. Ai norvegesi, al contrario, serviva una vittoria per andare avanti, visto che a Saint Etienne il Marocco stava irrimediabilmente dilagando sulla Scozia.

“Flonaldo”, da parte sua, sembra esser rimasto con i piedi per terra nonostante la bella prestazione offerta contro il Brasile. Tanto che alla Gazzetta il 25 giugno, in merito all’imminente ottavo di finale contro gli azzurri, dichiara: «Sarà molto difficile, perché il Brasile non era costretto a vincere, mentre l’Italia lo sarà». Il titolo del pezzo è, però, di tutt’altro tenore, Attenti a Flonaldo, il fenomeno dei fiordi, e per minare un po’ la certezza dei lettori viene ricordato il 6-0 subito dall’Under 21 di Cesare Maldini in una partita valevole per l’Europeo di categoria di sette anni prima. Un incontro in cui, comunque, Tore Andre Flo non giocò, né era in panchina.

Repubblica, invece, indugia sui dubbi del ct azzurro: a chi affidare la marcatura dell’attaccante in forza al Chelsea? Alessandro Nesta  si è infortunato nel match contro l’Austria e allora il 25 giugno si parla di un’alternanza Costacurta-Maldini con protezione alle spalle di Bergomi, il 26 si rilancia l’ipotesi «Paolo marcherà Flo» con riferimento sempre a Maldini figlio, il 27 mattina, infine, ci si adegua alla decisione di Maldini padre di confermare il titolare Cannavaro e di vedere lui, nonostante i tanti centimetri in meno, in marcatura sul gigante Flo. Ma attenzione…  «l’ uomo più forte […] verrà sorvegliato da Cannavaro, con Bergomi in seconda battuta e Maldini junior in terza (cioè sulle palle inattive)», giusto per rilanciare l’idea che Tore Andre non lo si deve lasciare solo neanche quando va in bagno. Non a caso il titolo dell’articolo è Italia, pomeriggio di fuoco.

Flo imperversa anche nei servizi che telegiornali e rubriche varie presentano in TV, come se l’Italia stesse per affrontare un solo unico uomo e non una squadra.

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La sorte ha voluto che il 15 giugno 1982, giorno del debutto nel calcio che conta davvero, il Camerun debba affrontare il Perù. Un assist per la redazione de La Stampa che con sapiente ironia coloniale individua i veri primattori del match: gli “stregoni, che [da ambo le parti] stanno combattendo una battaglia a colpi di spilloni e filtri magici contro il malocchio e i rispettivi nemici”.
Il 18 giugno 1990 su L’Unità si parla ancora di Gris-Gris, stregoni e marabuti, a margine delle incredibili imprese che la nazionale camerunese sta compiendo nel Mondiale italiano, ma sembra solo folklore giornalistico teso ad alimentare la sottocultura da rotocalco. I veri maghi sono i giocatori, che dopo otto anni di successi in Africa sono pronti a regalarsi un sogno grande quanto il mondo.

Tutto ha inizio un po’ prima dell’incontro di La Coruña con il Perù. Solo un’altra squadra dell’Africa subsahariana si è qualificata per la fase finale di una Coppa del Mondo prima del 1982: lo Zaire nel 1974 ed è finita malissimo. Dal Mondiale spagnolo la Confederazione Africana ha due posti a disposizione, ma la nazionale del Camerun non è certo tra le favorite. Del resto è in attività solo dai primi anni sessanta e vanta come miglior risultato della sua storia un terzo posto nella Coppa d’Africa del 1972, di cui era anche nazionale ospitante (e questo si sa che aiuta).
Il fatto è che la rosa dei verdi ha qualcosa che permette loro di battere nettamente le avversarie nelle qualificazioni e di ben sperare per il futuro. Qualcosa che gli zairesi, nel 1974, non avevano: giocatori che militano in Europa, più precisamente in Francia. Tra loro spicca Roger Milla, trentenne attaccante del Bastia, forte fisicamente e dotato di buona tecnica individuale, trascinatore dei suoi nello spareggio col Marocco.

Al Riazor, contro il Perù della perla nera Cubillas, Milla si presenta subito con un sinistro da fuori (deviato in angolo dal discusso Quiroga), con un colpo di testa che finisce sul palo e con un gol ingiustamente annullato per fuorigioco. Il Perù esce alla distanza, ma lo 0-0 non si schioda perché il Camerun è stato ben disposto in campo dal francese Jean Vincent e perché in porta c’è un altro giocatore destinato a rimanere nella memoria di tutti: il venticinquenne Thomas N’Kono, che a guardarlo, con la sua lunga tuta nera da dopolavoro, sembra uno messo a fare il portiere per caso e che, invece, è agilissimo e bravo nelle uscite, anche se a volte esagera.
Il Camerun ha già fatto meglio dello Zaire, ma tutti sono pronti a scommettere che contro la Polonia per i simpatici africani ci sarà poco da fare. Invece, Boniek e compagni si devono accontentare di uno 0-0: Lato coglie la traversa, c’è un salvataggio di Ndjeya sulla linea, ma nel finale è Młynarczyk a fare gli straordinari sui tiri di Kunde (centrocampista di quantità che ci accompagnerà a lungo in questa storia), di M’Bida e di Milla.

L’1-1 con l’Italia futura campione del mondo vale poi come una vittoria, anche se fa passare il turno solo agli azzurri, per via del gol segnato in più a parità di differenza reti. Il pareggio di M’Bida a un minuto di distanza dalla rete di Graziani e la poca propensione all’attacco dei leoni indomabili nella parte finale del match (nonostante il risultato li svantaggi) sono stati motivi di spunto alcuni anni dopo per un’indagine giornalistica condotta da Oliviero Beha e Roberto Chiodi, che ha suffragato l’ipotesi di un accordo sotto banco in cui era certamente coinvolto Vincent.
Ad ogni modo da quel pareggio escono tutti contenti e, mentre l’Italia in silenzio stampa volerà verso una inattesa vittoria, il Camerun torna in patria e si gode il bagno di folla per le sue non sconfitte. Adesso c’è un continente su cui far valere personalità ed esperienza maturata nell’avventura spagnola.

Nelle tre edizioni successive della Coppa d’Africa il Camerun ottiene due vittorie e un secondo posto, anche se una inattesa débacle patita a Lusaka contro lo Zambia il 7 aprile 1985, lo costringe a vedere i Mondiali messicani in TV.
Il primo trionfo continentale arriva nel 1984. La fase finale è in Costa d’Avorio e sono proprio i camerunesi a far fuori, con un secco 2-0, i padroni di casa nell’ultimo turno del girone eliminatorio. Milla, autore del gol del vantaggio contro gli ivoriani sigla poi uno dei rigori che decidono la semifinale senza reti con l’Algeria di Madjer ed entra nell’azione decisiva della finale. Con la Nigeria la partita è sull’1-1, per i gol di Lawal (solo omonimo dell’ala che propizierà l’autorete di Zubizarreta ai Mondiali del 1998) e di N’Djeya su punizione. Siamo all’79’ quando Théophile Abega parte in azione personale sulla parte destra del campo, chiede e ottiene triangolo con Milla a limite dell’area e batte il portiere Okala. Poi Ebongué sigla il definitivo 3-1 con un gran tiro che s’infila sotto la traversa.

Abega, il “dottore”, Pallone d’oro Africano nel 1984, uno dei più amati in patria e uno dei più rappresentativi tra i leoni indomabili, è anche tra i selezionati per la Coppa d’Africa 1986, ma gioca solo uno spezzone della prima partita, vinta 3-2 a fatica contro il solito ostico Zambia. L’allenatore francese Claude Le Roy, in carica dal 1984, ha iniziato il necessario cambio generazionale dopo l’imprevista eliminazione nella corsa a Messico ’86. Milla, Kunde e N’Kono sono, però, ancora lì e Roger, in particolare segna quattro gol, che, insieme ai due gol di M’Fede allo Zambia e ai due di Kana Biyik all’Algeria, permettono al Camerun di raggiungere la finale, dove lo attende l’Egitto padrone di casa. Questa volta non porta fortuna né incontrare il paese ospitante, né arrivare ai rigori: l’errore di Kana Biyik al sesto tiro e la realizzazione di Kasem danno la terza Coppa d’Africa agli egiziani, venticinque anni dopo l’ultimo successo ottenuto come R.A.U..
I leoni indomabili si rifanno, alla grande, nel 1988. 1-0 all’esordio nel girone, proprio contro l’Egitto grazie a un gol di Milla, ovviamente. Seguono due pareggi e l’approdo in semifinale, dove ancora una volta li attende la Nazionale del paese ospitante, che stavolta è il Marocco. A risolvere è il talentuoso Makanaky, ancora in versione capello corto, con un “destraccio al volo forse deviato”, come lo si definisce in modo poco lusinghiero nella telecronaca di Telecapodistria. In finale la Nigeria è favorita, ma ci pensa Milla con una sua accelerazione a rompere l’equilibrio. Eboigbe lo falcia appena arrivato in area e Kunde trasforma il rigore, nonostante l’opposizione di Rufai. La formazione che farà miracoli a Italia 90 è quasi pronta: oltre Makanaky anche i difensori Massing e Tataw si sono ritagliati un posto da titolari, mentre i centrocampisti M’Fede, M’Bouh e Kana Biyik lo sono ormai da due anni. Omam Biyik è invece in panchina, a far compagnia a Le Roy. In quel 1988 manca solo N’Kono, che è all’Espanyol da tempo e quell’anno arriverà a un attimo dal conquistare la Coppa UEFA.

Chi è, invece, ormai ritenuto superfluo è Le Roy, inaspettatamente allontanato dalla Federazione prima dell’inizio delle Qualificazioni Mondiali. Al suo posto arriva lo sconosciuto sovietico Nepomnyashchy, che, pur rinunciando a un ormai attempato Milla, non fallisce l’obiettivo. Il “vecchio” leone ha, infatti, deciso di lasciare il campionato francese dopo dodici anni e di prendersi una vacanza nell’isola di Réunion, dove gioca con la Jeunesse Sportif Saint-Pierruase, Poco prima dei Mondiali, però, una telefonata del presidente Biya obbliga praticamente Nepomnyashchy ad aggregarlo alla rosa dei partenti. Sembra un’operazione nostalgia. Non lo sarà.

Anche Thomas N’Kono è dato per panchinaro, a vantaggio di Bell, titolare nelle ultime due Coppe d’Africa. E, invece, l’altro “ambasciatore del Camerun”, a dispetto anche del suo numero 16 sulla maglia, si ritrova in campo titolare contro l’Argentina campione del mondo il giorno in cui a San Siro inizia il Mondiale italiano. Milla quel giorno entra in campo solo all’82’, perché Vautrot, il principe dei fischietti servili, si adegua subito alle nuove direttive diramate da Blatter ed espelle Kana-Biyik a inizio ripresa per un fallo da dietro, ma non da ultimo uomo, su Caniggia. Prima della fine i leoni indomabili rimangono addirittura in nove per l’espulsione di Massing, ma -quel che più conta- vanno in gol grazie a Omam Biyik, che sale in cielo e schiaccia di testa, e grazie a Neri Alberto Pumpido, che vede sbattere la palla sul suo ginocchio e finire in rete.

Con la Romania, al caldo del pomeriggio barese, il mondo rivede lo N’Kono di un tempo, bravo sulle punizioni di Hagi, ma sempre approssimativo nelle uscite. Per il resto sembra una partita incanalata verso lo 0-0, quando entra Roger Milla. Il trentottenne attaccante rincorre un pallone al limite dell’area di rigore, lo sottrae ad Andone e batte Lung in uscita. Non contento, dieci minuti dopo, fa fuori di nuovo Andone con una finta e manda la palla sotto la traversa. Due prodezze che lo fanno diventare il più anziano marcatore in un Mondiale, due festeggiamenti vicino alla bandierina del corner degni del miglior Juary. Il gol finale di Balint non cambia nulla, il Camerun è già agli ottavi  e Nepomnyashchy può permettersi l’omaggio alla sua URSS che sta morendo come nazione e che è già fuori dal Mondiale come squadra.

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vedere il blocco sovietico muoversi compatto […] era uno spettacolo impressionante,
anche se mio padre condivideva poco del mio entusiasmo e continuava a fumare […],
muovendo silenziosamente le labbra al ritmo di Santa Maria, ora pro nobis
Carlo Miccio, La trappola del fuorigioco

A Lione, nella finale della Coppa delle Coppe del 1986, la Dinamo Kiev demolisce sul piano del gioco e travolge su quello del punteggio l’Atletico Madrid, che godeva dei favori del pronostico. Sovrapposizioni, scambi di ruolo, tocchi veloci e ravvicinati, sgroppate sulla fascia, lanci a memoria, palla che corre e giocatori che corrono ancor di più. In tutto questo tourbillon organizzato, quasi scientifico, la mano dell’allenatore Valerij Lobanovskij è evidente.
Il colonnello, soprannome dovuto al grado raggiunto nell’Armata Rossa, ma decisamente adatto alla sua impassibilità in panchina, ha già un palmares di tutto rilievo: alla guida dei biancoblù ucraini ha conquistato sei campionati sovietici, quattro coppe dell’URSS, la Coppa delle Coppe del 1975 e la Supercoppa Europea del 1976. Proprio in virtù dei successi ottenuti la Federazione sovietica gli aveva affidato già due volte la guida della Nazionale, ma senza grandi risultati. La terza volta andrà meglio, pensano a Mosca. Così, una decina di giorni dopo la vittoria in coppa e una quindicina prima dell’esordio mondiale, Lobanovskij si ritrova ct dell’Unione Sovietica al posto di Malafeev e, ovviamente, trapianta in blocco la sua Dinamo Kiev in Nazionale.

Che la Federazione stavolta ci abbia visto giusto appare chiaro sin da subito. L’Ungheria di Lajos Detari, che si era presa il lusso di battere 3-0 il Brasile in amichevole a Budapest solo alcuni mesi prima, viene distrutta. La cosa più impressionante è che al terzo minuto il risultato è già 2-0 grazie a un gol sotto misura di Jakovenko e a una staffilata dalla distanza del futuro giocatore di Juventus e Lecce Sergej Alejnikov. Un rigore realizzato da Belanov sempre nel primo tempo e tre discese nelle praterie messe a disposizione dai magiari fissano il risultato sul 6-0: segnano Jaremčuk, Dajka nella propria porta e Rodionov.
Nel secondo match la squadra sovietica si gioca il primo posto del girone contro la Francia: vista la differenza reti e visto che il terzo incontro la vedrà opposta al Canada, un pareggio basta. Col senno di poi, sarebbe forse stato meglio arrivare secondi e incontrare l’Italia…

Ad ogni modo, Vassilij Rats, uomo simbolo del calcio modello Lobanovskij per duttilità, diligenza tattica, corsa e perché fuori dalle squadre del colonnello non renderà mai bene, fulmina a inizio ripresa il portiere francese Bats con un poderoso sinistro da fuori area. Fernandez con un bell’inserimento centrale pareggia poco dopo e il risultato non cambia più.
Contro il Canada l’URSS fa un po’ di turn over. I due gol che valgono la vittoria arrivano nel secondo tempo e sembrano suggerire una sorta di passaggio di consegne tra l’eterno Oleg Blokhin, attaccante della Dinamo Kiev già al tempo delle prime vittorie europee, Pallone d’Oro nel 1976,  escluso a sorpresa dalla formazione tipo a vantaggio del più in forma Belanov, e il tre quartista Aleksandr Zavarov, il giocatore più promettente dell’intero lotto anche per via della giovane età.
Si arriva così alla seconda fase. Ai Mondiali spagnoli del 1982, i primi a 24 squadre, le dodici compagini che avevano passato il primo turno erano state divise in quattro gironi da tre: morale, qualche Nazionale aveva dovuto salutare la manifestazione pur non perdendo negli scontri diretti. Tra queste l’URSS, eliminata da una vittoria troppo risicata contro il Belgio. Per ovviare a questo inconveniente la FIFA ha deciso di cambiare format e di fare una seconda parte interamente a eliminazione diretta, a costo di ripescare anche quattro delle migliori terze dai gironi e di portare a sedici il numero delle squadre che passano il primo turno, in pratica il 66,7% delle iscritte. All’URSS è destinata una delle ripescate e la sorte vuole che sia proprio quel Belgio che quattro anni prima aveva contribuito indirettamente alla sua eliminazione.

I diavoli rossi sono stati sconfitti dal Messico nel match inaugurale, hanno vinto di misura con l’Iraq e ha pareggiato 2-2 col Paraguay. Coriacei, scorbutici, ancora allenati da quel Guy Thys che li aveva portati a sfiorare la vittoria agli Europei nel 1980, ma insomma decisamente inferiori alla Nazionale sovietica.
La partita si gioca a Léon, alle 16 ora locale. Arbitro è lo svedese Fredriksson, uno dei più accreditati della UEFA, noto agli italiani per aver convalidato un gol dubbio al Liverpool nella finale di Coppa Campioni contro la Roma due anni prima. Come vedremo, anche questa direzione di gara non deporrà a favore del fischietto scandinavo…

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